Mi ritorni in mente, ep. 57

Anche se non è passato molto tempo dall’ultimo appuntamento con questa rubrica, mi trovi costretto, a causa di un impegno, a rinunciare alla consueta recensione della settimana. Ma non temete, c’è sempre spazio per la musica. Proprio questo venerdì è uscito un “best of” che non può mancare nella mia collezione. Woman Of The World: The Best of 2007-2018 racchiude dieci anni di carriera della cantautrice scozzese Amy Macdonald, dal grande successo di This Is The Life al più recente Under Stars. Come questo blog può testimoniare, Amy Macdonald è un’artista alla quale sono particolarmente legato. Ha rappresentato per me una sorta di inizio del mio viaggio alla ricerca costante di nuova musica. Ma tutto questo credo di averlo già raccontato in un’altra occasione.

Lascio spazio alla musica con questo inedito contenuto nell’album, intitolato appunto Woman Of The World. Per chi conosce già Amy questa è una buona occasione per ripercorrere i suoi, e i nostri, ultimi dieci anni e per chi non dovesse conoscerla, beh, è giunto il momento di porvi rimedio.

La felicità di essere triste

Ogni tanto capita che vado alla ricerca di qualcosa di nuovo da ascoltare e senza pensarci troppo scelgo un album piuttosto che un altro. Difficilmente mi capita sottomano qualcosa che non mi piace per niente, anche perché cerco di restare il più vicino possibile ai miei generi preferiti. In una delle mie ultime ricerche il nome di Emily Fairlight mi è balzato all’orecchio piuttosto all’improvviso e il suo secondo album Mother Of Gloom è finito dritto nella mia collezione. Questa cantautrice neozelandese mescola le sonorità del folk americano e quelle del più moderno cantautorato alternative, il tutto tenuto insieme da una voce unica e interessante.

Emily Fairlight
Emily Fairlight

L’album si apre con la magnetica Body Below. La voce vibrata della Fairlight sarà una costante di questo album, delineandone la sua atmosfera oscura ma anche fortemente emotiva. Un inizio che ci spinge con forza verso il proseguo delle album. Più leggera ma ugualmente intensa, Drag The Night In, risulta essere una delle più orecchiabili dell’album. C’è eco anni ’90, una spinta verso quel indie rock ancora giovane contaminato dal folk americano. Segue la malinconica The Escape accresce quella sensazione di trovarsi di fronte ad un album fortemente ispirato e diretto. Emily Fairlight seppur affidandosi a ritmi e melodie semplici, riesce sempre a toccare le corde giuste. Water Water è una ballata country folk davvero ben scritta e interpretata. La voce della Fairlight si fa ancora più magnetica e carica di sentimento, trovando il suo apice in un finale liberatorio. Una delle canzone che preferisco. Da ascoltare. Una lenta ballata, avvolta dalle note delle chitarre, si cela sotto il titolo di Private Apocalypse. Ancora una volta il ritmo delinea l’anima del brano, scivolando via lento sulle note di una fisarmonica. The Desert è un intermezzo praticamente strumentale di un paio di minuti che spezza in due l’album. La successiva Time’s Unfaithful Wife riprende il passo cadenzato e trascinato dell’album. Emily Fairlight fa vibrare questa canzone come le corde della chitarra. Sinking Ship vira verso sonorità rock. Una ballata dove spazzole e chitarre distorte, cullano l’ascoltatore in un’atmosfera intima e confidenziale. Sembra calare la notte sull’album. The Bed si distingue per un bella melodia guidata dal suono di una fisarmonica. Un brano dal fascino europeo, che richiama emozioni malinconiche e un po’ nostalgiche, grazie al solitario suono della tromba. Segue Nurture The Wild che apre l’orizzonti e fa, si fa per dire, respirare l’album. Emily Fairlight svela un lato più delicato e meno oscuro, allietato dal suono familiare del banjo. Loneliest Race si srotola lenta, tra il suono delle trombe e la chitarra acustica. Un procedere lento che si propone essere un po’ il manifesto dell’album che si conclude con la successiva Breathe Baby Breathe. Poco più di un minuto dove la voce della Fairlight vuole lasciare che sia il suono delle parole a fare la canzone, più del loro significato.

Mother Of Gloom è un album che va ascoltato lasciandosi trasportare dalla lenta corrente del fiume nel quale è immerso. Emily Fairlight dimostra di essere sbocciata definitivamente in questo suo secondo disco e di aver trovato uno stile del tutto personale. Se da una parte assistiamo ad uniformazione nello stile di un certo tipo di cantautorato moderno, qui Emily riesce a distinguesi grazie ad una vicinanza alla tradizione americana, soprattutto nella scelta degli strumenti. Si nota anche una propensione a sfruttare la ritmica per dare corpo alla canzone e non ridurla a semplice accompagnamento. Mother Of Gloom richiede molteplici e pazienti ascolti per poterlo apprezzare fino in fondo ma ripaga pienamente l’impegno.

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Mi ritorni in mente, ep. 56

Non sono mai stato un fan della musica jazz ma devo ammettere che mi mette di buon umore. Ho sempre pensato che questa musica sia solo “per chi se ne intende” e ne apprezza la tecnica e l’abilità dei suoi interpreti. I festival jazz abbondano qui in Italia (anche se non sempre si tratta di jazz in senso stretto) e ne deduco che sia piuttosto apprezzata. Dal canto mio, come ho scritto sopra, non sono un appassionato di questo genere anche se non gli manca niente per farsi piacere. Spesso esprime buoni sentimenti, ha attraversato generazioni di artisti rimanendo pressoché intatto ed è piacevole da ascoltare. Forse è proprio la sua apparente leggerezza che mi impedisce di provare quel bisogno di esplorare che provo per altri generi. Anche la sua sconfinata discografia mi mette a disagio. No saprei da dove iniziare.

Si dà il caso che diverso tempo fa, forse perfino lo scorso anno, mi sono imbattuto nel nome si Sarah McKenzie, cantautrice jazz australiana. Dopo qualche ascolto, la sua musica è rimasta da parte per un po’ in attesa di non so cosa. Dopo l’estate ho deciso di provare qualche genere un po’ diverso dai miei soliti (che ammetto essere abbastanza variegati ma non troppo), per vedere cosa sarebbe successo. Ed ecco che il jazz di Sarah McKenzie e il suo ultimo album Paris In The Rain mi sono tornati in mente. Non farò una recensione perché non ne sarei in grado ma mi limiterò ad ascoltare l’album e farlo ascoltare a voi. Devo dire che Paris In The Rain è davvero un buon album, mi piace e, sì, mi mette di buon umore. Non ho idea se sia un buon album jazz oppure no, non mi interessa. A me piace. Non è escluso che tornerò ad ascoltare qualcos’altro di Sarah McKenzie in futuro e forse potrei aver trovato un punto per iniziare ad esplorare la musica jazz anche se sono ben lungi da considerami un suo fan. Ma chissà magari un giorno…

Il vasetto del miele

A distanza di un anno dal debutto intitolato Please Be Mine, la cantautrice americana Molly Burch è tornata con First Flower. Il suo stile un po’ retrò aveva incantato critica e pubblico, facendosi apprezzare anche dal sottoscritto. Si dà il caso che Please Be Mine abbia avuto una vita piuttosto breve per quanto mi riguarda ed è finito presto nel mio personale dimenticatoio. Ma più per colpa mia che della giovane Molly Burch. Ho colto così l’occasione del secondo album per riscoprire la sua musica e provare di nuovo a vedere che sarebbe successo. La sensazione ascoltando i primi singoli era quella di un avvenuto cambio di sonorità, non troppo marcato ma comunque apprezzabile.

Molly Burch
Molly Burch

L’album inizia con Candy, un brano indie pop che anticipa le tematiche sentimentali dell’album. Le chitarre e la voce morbida della Burch, qui in bella mostra, saranno le colonne portanti di questo album, “Why do I care what you think? / You’re not my father / Don’t even bother, don’t bother me / Why do I like how you look? / You look like candy / You don’t understand me, don’t understand me“. Wild prosegue sulla stessa linea, affondando ancora di più le mani nel vasetto del miele. Il canto appare imperturbabile ma non freddo, avvicinandosi allo stile delle cantautrici di nuova generazione, “Wishful thinking’s got me blinded / Got me losing all control / It’s in my nature to be guarded / I wish I was a wilder soul / I wish I was a wilder soul“. Dangerous Place rispolvera il sound vintage pop dell’esordio. Molly Burch usa la voce con maestria, trasformandola in un vero e proprio strumento, trattando il tema dell’amore con intelligenza e creatività, “How did I not say it? / This is a dangerous place / How did I miss it? / This is a dangerous space / I hope I learn from my mistakes / I hope I forgive myself one day“. La title track First Flower richiama sonorità vagamente folk. Romanticismo e dichiarazioni d’amore si sprecano come nelle vecchie canzoni. L’approccio indie e moderno della Burch danno nuova linfa ad un altrimenti polveroso sound, “Just like the first flower that blooms in spring / To me you are, you are my everything / I like the way you hold me / Hold me, don’t let go / You don’t have to tell me, baby / I already know“. La successiva Next To Me è un lento, manco a dirlo, romantico. La chitarra resta la protagonista indiscussa insieme alla voce unica della Burch, “Love of mine / I kiss you goodnight / And then you turn over / Like it’s the end of your life / I just want to do everything with you / Is that so bad? / Honey, is that so bad?“. Good Behavior rallenta ancora, mettendo in luce le difficoltà nel portare avanti una relazione. La voce è guida la melodia di uno dei brani più orecchiabili di questo album, “How can I explain myself / When I can hardly control it well? / Do I need time, do I need a savior? / Will I ever know good behavior?“. Without You prova a mescolare le carte in tavola senza stravolgere il mood del disco. Molly Burch gioca con il suono delle parole e prova ad aggiungere un po’ di brio all’atmosfera, “You are my guiding light / How would I survive? / I don’t know what I would do without you by my side / You tell me what I don’t / I always want to know / I don’t know what I would do without you / I don’t know what I would do without you by my side“. Il singolo To The Boys vuole sottolineare la personalità dell’artista, come a voler dire ‘prendere o lasciare’. Un brano che segna una variazione sul tema principale dell’album, “I don’t need to scream to get my point across / I don’t need to yell to know that I’m the boss / That is my choice / And this is my voice / You can tell that to the boys / (You can tell that to the boys) / You can tell that to the boys“. True Love, come da titolo, riprende il discorso interrotto. Una vera e propria canzone d’amore, semplice e lineare, che vuole essere un piacevole ascolto, “Real love / It was true love / I never knew love before you, my baby / Real love / It was true love / I never knew love before you, my baby“. La successiva Nothing To Say affronta la fine di un amore. Molly Burch canta con la sua consueta voce morbida, fatta di alti e bassi. Una bella canzone, tra le migliori di questo album, “I loved you in the morning / I loved you in the evening / The thought of you kept me going / Even when you were leaving / You left me high and dry / Didn’t even say goodbye / The worst part of it all / Was how hard I used to fall“. Every Little Thing chiude l’album. Una lunga ballata e forse la prima vera e propria canzone triste del disco. Molly Burch rimane sul classico e non rischia sperimentazioni indie. Con questa, si potrebbe dire che l’album è giunto al suo compimento definitivo, chiudendo un ipotetico cerchio, “All the days I do try to be good / And so kind / Sometimes it is hard to live / That is why we must forgive / Every little thing / Every little thing / For every little thing we’ve done“.

First Flower, come il suo predecessore, non è affatto un ascolto semplice. Non perché abbia testi o musiche particolarmente complesse o sperimentali, tutt’altro. I testi sono spesso retorici, volutamente scontati, che richiamano il passato. La musica fa altrettanto, anche se in maniera più contenuta. Si tratta della sua natura un po’ monotona e svogliata che rende l’album poco immediato per un orecchio distratto. Molly Burch non sembra voler catturare l’attenzione di chi ascolta ma piuttosto farlo perdere in un’atmosfera irreale ed eccessivamente romantica. First Flower si contrappone al precedente Please Be Mine, più triste e schivo, ma conserva appieno lo stile apparentemente immutabile della Burch, che però sta virando verso un cantautorato moderno non molto distante, ad esempio, da quello di Angel Olsen. In definitiva First Flower è un buon album che solo il tempo saprà dirci se sarà destinato anche lui al dimenticatoio oppure no.

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