Una luce in lontananza

Continua la mia ricerca di nuova musica lontano dai generi che ascolto più spesso e tra i nomi che mi ero appuntato in passato c’è quello di Elles Bailey. Questa cantautrice inglese, ma dal cuore evidentemente oltreoceano, era già giunta alle mie orecchie un paio di anni fa con il suo esordio Wildfire, di cui avevo letto recensioni molto positive. Per qualche motivo non ho colto l’occasione di ascoltare quell’album a suo tempo e solo con l’uscita lo scorso Marzo del nuovo Road I Call Home, l’ho aggiunto alla mia collezione. Il suo sound blues non è molto distante da certa musica country che già ascolto ma la sua capacita di mescolare questi due generi con un po’ di soul mi ha incuriosito. Per non parlare poi della sua voce all’apparenza consumata, che in realtà è condizionata dall’aver passato diciassette giorni intubata all’età di tre anni a causa di una polmonite. Elles Bailey dunque è una nuova artista tutta da scoprire, almeno per me, e non resta che iniziare proprio da Road I Call Home.

Elles Bailey
Elles Bailey

Hell Or High Water ci introduce lentamente ma non senza energia, alla musica della Bailey. Le chitarre blues, insieme alla sua voce graffiata sono un biglietto da visita irresistibile per chiunque. Un crescendo che ci dà un assaggio del prosieguo dell’album. La successiva Wild Wild West fin dal titolo tra ispirazione dalle sonorità di un country rock dalle tinte scure. Difficile immaginare la voce della Bailey al di fuori di questo contesto musicale ma tutto è così perfetto che non c’è bisogno di ascoltare altro. Dopo due canzoni dall’anima prevalentemente rock, la bionda Elles ci prova con Deeper, una ballata soul tutta energia e cuore. La sua voce conduce il gioco e dimostra dimestichezza con un modo di cantare spesso abusato ed enfatizzato fino a snaturarlo. Elles Bailey invece non fa niente di tutto questo ed il risultato è eccezionale. What’s The Matter With You è profondamente blues e ne segue i suoi schemi alla perfezione. Lento e pronto esplodere, questo brano farebbe invidia a colleghe ben più in vista di lei. Ancora la voce è protagonista e le chitarre si limitano ad un discreto ma fondamentale accompagnamento. Tra le canzoni che preferisco c’è la bella Medicine Man. Un country blues di mestiere ma dal fascino sempre irresistibile. Qui c’è tutta le passione per questo genere musicale e la cultura che porta con sé. La title track Road I Call Home è un movimentato blues rock che scivola via veloce. Un’interpretazione carica e piena dove Elles Bailey non perde un colpo e fa salire qualche brivido lungo la schiena, complice anche l’eccezionale band alle sue spalle. Foolish Hearts ha tutta l’impostazione di una classica ballata romantica e un po’ malinconica. Il tutto ovviamente profondamente legato ad un sound molto soul nel quale la Bailey sembra trovarsi perfettamente a suo agio. Un ondata di luce e vitalità si fa prepotentemente spazio con la folgorante Help Somebody. La scelta musicale è azzeccatissima. Ricca e trascinante, dove trova lo spazio che merita, il canto della Bailey. Una delle migliori di questo album. Little Piece Of Heaven racchiude meravigliosamente al suo interno un sound anni ’90. Una canzone carica di speranza con una chitarra solare che sostiene la voce della Bailey, più morbida che in precedenza. Si torna ad un country blues con Miss Me When I’m Gone. Questo brano rappresenta al meglio tutte le caratteristiche di questa cantautrice. Ogni cosa è al posto giusto e un assolo di chitarra prima del finale è più che doveroso. Light In The Distance è una splendida ballata dove la voce della Bailey corre sulle note di un pianoforte. Questo genere di ballate sono sempre il modo migliore di chiudere un album e questa non fa eccezione.

Road I Call Home è un album che scorre velocemente, trascinato dalla voce potente ma educata di Elles Bailey. Non ci sono virtuosismi fini a sé stessi o momenti fiacchi, tutto procede per il verso giusto, una tensione costante tiene in piedi l’album. Elles Bailey è la sua band hanno ben chiaro il sound che vogliono dare all’intero lavoro, lo si percepisce traccia dopo traccia. L’energia che questa cantautrice vuole imprimere a Road I Call Home è ben equilibrata tra voce e musica, un po’ di soul, un po’ di rock, un po’ di country e tanto tanto blues. Elles Bailey mi ha avvicinato in maniera pericolosa proprio al blues, per il quale ho sempre nutrito un certa simpatia ma sempre accoppiato con altri stili a me più affini. Questo Road I Call Home potrebbe aprirmi porte verso terre inesplorate ma sicuramente, quello che ha fatto, è sorprendermi e sentirmi in obbligo di recuperare anche il suo esordio. Perché per lei sembra prospettarsi una carriera piuttosto interessante.

 

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Non ti lasceremo mai andare

Un nuovo album dei Wintersleep rappresenta per me un momento nel quale riascoltare uno dei gruppi ai quali sono più affezionato. Uno dei pochi baluardi indie rock che ancora resistono nella mia collezione, retaggio di anni passati a bazzicare questo genere che più delle volte mi ha deluso. Ma questo gruppo canadese non lo ha mai fatto ed ero sicuro che il nuovo In The Land Of non sarebbe stato da meno. Sono sempre loro Paul Murphy, Tim D’Eon, Loel Campell e Jon Samuel, con la new entry Chris Bell al basso, alla loro settima fatica. In copertina l’immagine della plastica che invade i nostri mari che mette subito in chiaro quali sono i temi di questo album. Non resta che ascoltarlo.

Wintersleep
Wintersleep

L’iniziale Surrender si srotola sul suono delle chitarre e introduce la voce inconfondibile di Murphy. Il tempo che va avanti, l’età che si fa sentire e un sentimento di resa si fa spazio nella mente. Un inno rock come solo questo gruppo sa fare, “Thirty six years now / Halfway to my tomb / In this flesh I have / Grown accustomed to / You can see the way / Irretrievably doomed / Darling, I’m still consumed by you / I’m consumed / Consumed / Consumed“. Forest Fire è un ritorno alle sonorità delle origini. Un delle canzoni più poetiche del gruppo, una dichiarazione d’amore, non è chiaro per chi o per cosa, ma sicuramente è un amore profondo, ardente, “You were the dead of night / Burning in the embers of my eyes / I was a distant light / Shimmering after life / You were the pre-dawn light / Gleaming, ever-dreaming / I will love you for all time / I will love you for all time“. Il singolo Beneficiary è il cuore dell’album. Una sola frase racchiude tutta la crudeltà dell’uomo che sta distruggendo il suo pianeta per fare una vita tranquilla, ognuno di noi è il beneficiario di un genocidio. Una canzone all’apparenza gioiosa ma con un testo importante che alla parola genocidio è capace di farci riflettere, “All my days I wake up, open my eyes / Beneficiary of a genocide / Drive to work all day / Go to sleep at night / Beneficiary of a genocide“. Ma sembra esserci spazio anche per qualcosa di più leggero come Into The Shape Of Your Heart. In realtà anche questa volta il gruppo dichiara amore a questa Terra e non vuole distruggerla, non vuole essere complice della sua distruzione. Un’altra bella canzone, vibrante di vita e profonda nel testo, “I could sleep in your arms / I could die in your dreams / I could live in your woods / Wander endlessly / I can give you the words / I won’t leave it to chance / I never wanted to be / Complicit victims of a dead romance“. La successiva The Lighthouse fa calare il buio ed si torna in territori più rock. I Wintersleep sfoderano un brano tirato e senza fronzoli. Murphy e compagnia sono più vivi che mai e ce lo fanno sapere, “All the way up to the lighthouse / Where we spent so many nights / Always thought you’d live a long life / You’re a ghost now on your own time“. Echi dei loro esordi si possono sentire in Never Let You Go. Con un ritornello orecchiabile e un ritmo trascinante, la band ribadisce di non voler abbandonare la Terra ad un triste destino. Un gioioso inno da ascoltare e riascolatare, “Smoke on the horizon / Yeah I’m still surviving / A flicker in a moment / I won’t let it die yet / I have a vision that we live forever / I have a vision there was nothing after death / Just the garbage of a hundred thousand years / Floating through the great Pacific of our heads“. Chitarre distorte e sonorità più alternative in Soft Focus. Una canzone che sembra quasi voler confondere l’ascoltatore, evocando un sentimento di alienazione e distacco, “Fall through the sky / I don’t know why / No one around to catch it / You live, then you die / No reasoning why / Only the sound of your heart / Resounding, surrounding / Resounding, surrounding“. Waves esprime il desiderio di fuggire dalla città e cercare una tranquillità lontano da un mondo che diventa sempre più distante dalla natura umana. Forse rimarrà solo un desiderio, “Maybe I’ll / I’ll move to the countryside / That little French town / I’ve had in my mind’s eye / Where the waves unspeakably speak / Where the days spill so violent and free / I’m a freak here / I’m a freak here / I’m a freak here“. Non solo l’inquinamento soffoca il pianeta ma anche la guerra e il terrorismo distruggono l’umanità. Terror infatti denuncia la crudeltà e la freddezza della guerra moderna combattuta con silenziosi droni che incobono nella notte, tra l’indifferenza del mondo, “Once upon a time in an unknown sky / From an unnamed source through an unclear line / Flew an unmanned drone they called Lady Night / It’s an inside joke / That nobody knows“. La canzone più personale e intima di Paul Murphy è in fondo a questo album e si intitola Free Pour. Una riflessione sulla sua vita, ormai vicina ai quarant’anni, la band e la musica. Una canzone quasi parlata, confidenziale, a tratti commovente, “Baby, I’m on the shy side of forty / Still writing riffs like nobody’s business / Except in my case it most certainly is / I’m a professional riff writer / Slinger of pure metaphor / I named my band and couple of stands I commanded / Even TM’d on a gaggle of tours“.

In The Land Of è un album potente che scava nelle conseguenze delle nostre scelte su questa Terra che soffre. Che sia la vostra città o il mondo intero, i Wintersleep ci aprono gli occhi sulla situazione che stiamo vivendo e lo fanno con una visione lucida e appassionata. Un album personale e riflessivo ma si apre ad un’interpretazione più ampia, globale. Siamo tutti sulla stessa barca, come si dice. Questa volta i Wintersleep abbracciano tutte le sfumature del loro sound, dagli esordi ad oggi, regalandoci questa sorta di concept album che vive di una rabbia e di un amore smisurato per tutto ciò che rischiamo di perdere. Dopo diciott’anni insieme e sette album, questo gruppo di ragazzi canadesi ha ancora qualcosa da dirci. E io sono qui ad ascoltarli. Ancora una volta.

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Il bisogno di sentire

La discografia della cantautrice inglese Lucy Rose è stata molto condizionata dalle esperienze di vita che hanno portato la stessa artista a rivedere le sue scelte musicali. Il suo debutto del 2012, Like I Used To (Timidi esordi) era caratterizzato da un delicato e timido indie pop che lasciava intravedere la sua spiccata sensibilità. Tre anni più tardi, dopo un lungo periodo di lavorazione, vede la luce Work It Out (Fino alla fine) condizionato da una, forse, troppo invadente produzione. Ci sono voluti altri due anni e tanti concerti in giro per il mondo, per fare tabula rasa e ricominciare con l’ottimo Something’s Changing (Circolo virtuoso). Lucy Rose non si è adagiata sulla sua ritrovata ispirazione ma ha provato a scavare più a fondo, esponendo sé stessa come mai aveva fatto. Il risultato è il nuovo album, dall’eloquente titolo No Words Left.

Lucy Rose
Lucy Rose

L’iniziale Conversation ci introduce nelle personali ed oscure atmosfere di questo album. La voce della Rose è fragile e il suo canto naturale e sincero. Un accompagnamento mai invadente ma toccante, rende questa canzone perfetta sotto ogni aspetto, “But I came for you / I’ve dreamt names for you / It’s true / No one makes me high like you do / And I craved for you / I lost sleep with you / Who knew? / No one loves me quite like you do“. Un breve passaggio strumentale dal titolo No Words Left Pt. 1 ci traghetta verso la successiva Solo(w). Un brano che sprofonda ancora di più nella penombra delle debolezze dell’anima. Un pianoforte guida la voce della Rose che appare sempre più rotta dal peso di qualcosa di più grande di lei. “Come back to me / You begged of me / Well you don’t have to be / What they ask you to be / It’s true I’m afraid of the morning / I’m afraid of the evening / But I can’t help it / When I am / Solo“. Treat Me Like A Woman si affida a sonorità molto care a questa cantautrice che non vuole mostrarsi come una donna forte ma una donna con le sue incertezze ma capace ancora di resistere, “And I’m afraid and I’m scared and I’m terrified / That these things won’t ever change / And I’m afraid and I’m scared and I’m terrified / That this is how it will be for all of my life“. The Confines Of This World è una canzone toccante, una confidenza profondamente personale ed intensa. Lucy Rose tocca uno dei punti più alti della sua intera produzione, “I really don’t mean to bring you down / And I need someone to talk to / And hey then I might’ve brought you down / And I need someone to see through / Well that person’s you“. Just A Moment è come un breve intervallo, nel quale si sentono solo poche note di una chitarra e qualche suono d’ambiente. Una pausa per riflettere che introduce Nobody Comes Around Here. Splendida ballata per pianoforte, accarezzata dalla voce inconfondibile della Rose. Con naturalezze e sentimento ci fa correre un brivido lungo la schiena. Cara Lucy, ci sei riuscita ancora, “The sky is still blue / But it’s not the same / The pain that you feel / It’s never gone away / And time is no one’s friend / And the day never ends / So lay down with me / Take my hand, I’ll try and understand“. What Does It Take ricalca le sonorità dell’album d’esordio, arricchendole con un accompagnamento d’archi squisito. Nonostante le apparenze è una canzone molto malinconica, “So take this old and beaten heart / Make it strong and make it stop / So take this old and beaten heart / Make it strong and make it stop / For me“. Ma le insicurezze continuano a spingere e Lucy Rose ci rende partecipi ancora delle sue emozioni con Save Me From Your Kindness. Un altro gioiellino di questo album, “Do I have to, do I have to say it out loud? / I’m not sure of anything / I’m walking around in a head-spin, oh / And I’m not sure of anything / Since there’s been a hole where you once were“. Con Pt. 2 chiude il brano aperto all’inizio dell’album e sembra esserne il suo manifesto. Non vuole nascondersi Lucy, “This time I’m looking out for me / And I won’t hesitate, you believe it / This time I’m looking out for me / Till’ I’m whole again / I need to feel“. Chiude l’album Song After Song. Ancora una canzone sincera, fatta di immagini familiari, come sempre tratteggiate con la mano leggera di questa cantautrice di raro talento, “She’s singing / Song after song after song / All about me and my misery / She lie on my bed, stroke my head, touch my face / Tell me I’ll be alright and I’ll be just fine / But she’s still blue“.

No Words Left è una album speciale che vede Lucy Rose all’apice della sua espressione artistica. Tutte le canzoni sono accomunate da un sentimento profondo che espone l’animo di questa ragazza sulla soglia dei trentanni. Io e Lucy siamo coetanei e questa è una cosa che mi ha sempre affascinato in un artista. Il suo quarto album è un ritratto di una donna che affronta le sue insicurezze in un’età nella quale si è troppo grandi per continuare a fare i ragazzi e troppo giovani per diventare adulti. Ma questo No Words Left rappresenta qualcosa di più ampio e profondo. Ogni canzone sembra nascere sul momento, non c’è un racconto, un filo conduttore ma solo un flusso continuo, così sincero da mettere in difficoltà l’ascoltatore. In definitiva No Words Left è un album splendido per la sua sincerità, scritto per liberarsi di un peso, o più di uno, e non per allietare un ascolto distratto.

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Mi ritorni in mente, ep. 60

Con l’arrivo della primavera spuntano, come fiori in un prato, tante nuove uscite musicali che si vanno ad accumulare una dietro l’altra. Se ci aggiungiamo l’acquisto di qualche altro album extra fuori stagione la situazione inizia a diventare critica. Ma avere troppa musica da ascoltare non è affatto un problema. Devo però rinunciare alle consueta recensione questa volta soprattutto per motivi di tempo e per dare priorità alle uscite più recenti. In questo caso l’album Marion della cantautrice canadese Jenina MacGillivray è una scoperta molto più recente della sua effettiva pubblicazione, ovvero lo scorso novembre.

Marion con le sonorità del folk americano e i testi sinceri della MacGillivray si rivela essere una degli album più poetici e toccanti che ho ascoltato quest’anno. Il suono della chitarra pervade l’album e guida la voce malinconica dell’artista canadese. Spiccano tra i dodici brani, la title track Marion, la splendida Coal Mining Town e la nostalgica Roots. Un album lento e pacifico che affronta con sensibilità e rispetto le piccole cose della vita. Un album da ascoltare per sentirsi a casa, confortati da una voce amica.