In buone mani

Tra i ritorni più attesi di quest’anno c’è senza dubbio quello dei London Grammar, trio inglese che ha esordito nel 2013 con l’album If You Wait. Furono una delle rivelazioni di quell’anno e si proposero come una delle promesse indie più interessanti. Hannah Reid, Daniel Rothman e Dot Major sono tornati poi nel 2017 con Truth Is A Beautiful Thing riuscendo a ripetere l’ottima prova del primo album ma senza prendersi troppi rischi. Quattro anni dopo eccoli tornare con Californian Soil, il terzo disco della loro giovane carriera, lasciando le aspettative nei loro confronti immutate. Saranno riusciti i London Grammar a scrollarsi di dosso quella fastidiosa sensazione di essere considerati eterne promesse? Per farlo, il gruppo affida le redini della band alla loro frontwoman, che appare per la prima volta sola in copertina, e alla sua voce unica e inconfondibile.

London Grammar
London Grammar

L’apertura è affidata alla breve Intro, pezzo strumentale dalle atmosfere eteree, quasi mistiche. Sul finale una voce distorta ci ricorda il titolo dell’album. La title track Californian Soil arriva subito dopo. Un beat lento e pulsante alla voce della Reid che da il via alla magia. Questo trio torna nella sua forma migliore, dimostrando quel talento che non è mai mancato,”I left my soul / On Californian soil / And I left my pride / With that woman by my side / I never had a willing hand / And I never had a plan / But I’m glad I found you here / But I’m glad I’ve got you here / But I never had a name / And I never felt the same“. Con la successiva Missing si avvicina alle sonorità degli esordi, lasciando da parte toni epici e teatrali per affrontare temi più concreti e personali. La voce della Reid resta centrale con cambi di velocità che catturano chi ascolta, “I worry that one day you’ll go missing / And who will notice when you’re gone / I better call your father from afar / And break the news that you have vanished / Like a star“. Lose Your Head è una delle canzoni che preferisco di questo album. Un delicato electro pop, affascinate e martellante. Qui l’attenzione si sposta sull’aspetto musicale e il suono delle parole, “I need to learn / When this thing called love / When it’s a mirror, baby / Can you see all those parts of me / Broken across the world / I need to find some kind of peace of mind / It’s a demon baby / When it comes like my oldest friend / Have you got a friend in the night“. Lord It’s A Feeling vede la voce della Reid muoversi veloce in una confessione senza respiro. Il trio usa l’elettronica con sapienza, senza esagerare, “I saw the way you made her feel like she should be somebody else / I know you think the stars align for you and not for her as well / I understand I can admit that I have felt those things myself / I saw the way you laughed behind her back when you fucked somebody else“. How Does It Feel ha tutte le caratteristiche che hanno fatto la fortuna di questo gruppo. Un intro affidato alla voce poi un crescendo che questa volta esplode in un ritmo danzereccio piuttosto inedito per loro, “You regret now / Does it hurt? / In the confusion / That things have stayed the same / And I know / Now I’ve learned / To never make the same mistake“. Segue Baby It’s You, una canzone d’amore nello stile dei London Grammar. Un beat segue il canto morbido della Reid, dando vita ad una bel pop, etereo e sognante, “All this painted faces, singing back to me / There’s an ocean here, but you are all I see / And nothing else matters / You, baby, it’s you / You, baby, it’s you“. Call Your Friends si affida ancora allo stile consolidato della band, procedendo sottotraccia senza mai esplodere con decisione. Un ottimo lavoro di precisione, “Every time I tried to make myself seem small / In the arms of others who never loved me better / All the ways I tried to make myself less selfish / It never made them stay and I can’t love me like this / I can’t love me like this“. All My Love lascia più spazio alla musica che alle parole. Quelle poche che ci sono, sono pura melodia. Il loro suono è musica e Hannah Reid lo sa benissimo, “Oh darling, I see all of your colour / Drain from you / Oh darling, I feel off your energy / As it starts to fade from you / And I see all your shadow in pieces on the floor / People, they want more from you and / I see your shadow“. Talking è una canzone differente dalle altre. I toni sono più scuri e confidenziali, la musica minimale. Il lato più poetico e l’attenzione alla scrittura viene fuori in canzoni come questa,”All of these roads are / Leading to nowhere, you see / When this world ends as we know it / What’s left will be you and me“. I Need The Night ha un atmosfera misteriosa, notturna. La musica è tratteggiata e come sempre sostiene con maestria la voce. Un ritornello orecchiabile, che si lascia ricordare, apre alle pulsazioni elettroniche, “I need the night / And I need this drink / Will you sit with me and bring all of your friends / Chase the morning light till all of this ends“. Si chiude con America. La realizzazione dei propri sogni, la libertà sono racchiuse in questa canzone matura e molto meno elettronica delle altre. Semplicemente magnetica,”And I hope that you find it, all that you need / I hope that you stay young and wild and free / You’ll have America / And I hope that you’re better than all of your friends / I hope that they hold you until the end / You can America“.

Californian Soil ci riconsegna dei London Grammar diversi, più maturi e consapevoli dei loro mezzi. L’adolescenza artistica è alle spalle e hanno capito che è arrivato per loro il momento di fare sul serio. Ben sapendo che Hannah Reid è inevitabilmente l’anima della band, Daniel Rothman e Dot Major non si limitano a reggere il gioco, ma si danno da fare trovando il giusto bilanciamento tra musica e voce. Le loro canzoni sono si sono sempre basate su questo. Meno toni epici e cinematografici e più spazio al pop ma con attezione. I London Grammar restano ancorati ad un mondo indipendente, almeno musicalmente, rimanendo lontani dalle mode del momento. Californian Soil è un album solido, meno statico del precedente, che si candida ad essere uno dei migliori di quest’anno. Al di là di tutto ciò, c’è la confortante sensazione che la musica, per questo genere in particolare, è in buone mani.

Sito Ufficiale / Facebook / Twitter  / YouTube / Instagram

Sotto quei tatuaggi

Questo 2021 comincia a presentarsi, musicalmente, piuttosto interessante. Come qualcuno di voi saprà, quando sento parlare di album di debutto, la mia curiosità mi spinge a non farmelo scappare, spesso anche rischiando di uscire dalla mia comfort zone musicale. Non è esattamente il caso di Morgan Wade, dato che non mi sono poi tanto allontanato dai miei generi preferiti, ma la notizia del suo debutto, quel faccino un po’ imbronciato e tutti quei tatuaggi da cattiva ragazza mi hanno conquistato. Questa cantautrice americana aveva già pubblicato un album nel 2018 con la sua band The Stepbrothers e quindi Reckless si può considerare a tutti gli effetti il suo debutto solista. Di cos’altro avevo bisogno per decidermi a concedere una possibilità a questa ragazza? Di niente, direi.

Morgan Wade
Morgan Wade

Wilder Days apre il disco al suono della chitarra. La voce ruvida della Wade si prende subito il centro della scena con rock classico che racconta di un amore che non ha funzionato, “You said you hate the smell of cigarette smoke / You only use to smoke when you drank / When you lived in Chicago / Unsure where the wind blows / I wish I’d known you in your wilder days“. Con Matches And Metaphors si percepisce con più forza l’influenza della musica fine anni ’90 e inizio millennio. Una canzone riflessiva, accattivante e malinconica, “I sure like your sounds and if you were here / I’d love to get you high then lay down, I / Want you hanging around / I’ve been needing something good / Hey, baby, can I use you right now?“. Other Side risente delle influenze country che portano la Wade a guardarsi indietro e ripensare alla sua vita in modo sincero e profondo. Una delle canzoni che preferisco di questo album, “You knew my skin back before I had all these tattoos / You remember me on late nights strung out from pills and booze / We’ve had some bad times, baby, but we had some good times, too / You knew my skin back before I had all these tattoos“. La successiva Don’t Cry è una ballata rock che fa emergere l’anima di Morgan Wade. La voce graffiata e le chitarre che riempiono l’aria sono ingredienti che fanno sempre presa sull’ascoltatore, “Don’t cry, don’t cry, don’t cry / At some point, your hero must die / To escape the hands of time / It’s okay to not be alright, and / Let it go, let it go, let it go / Face the truth and bare your soul / Lose yourself and break your heart / It’s a beautiful thing to fall apart“. Mend è una canzone scritta prima che l’artista abbandonasse l’alcol, una canzone che sembra una disperata richiesta di aiuto, “Turn that car around / You don’t need to be leaving me now / Come to bed and I will shut my mouth / And I don’t know what’s wrong with me / But you came along and finally I see / The type of love I know I need / No words spoken, I’m so broken / I hope you can mend me“. Last Cigarette è un country che richiama influenze pop e rock. Anche qui la dipendenza è protagonista ma si parla d’amore, che forse fa male ma al quale è difficile rinunciare, “Tell me the truth: Is it over for you? / It isn’t for me, but I’ll say what you want me to say / Addiction is strong, I know it’s wrong / But I need that high, I ain’t gonna lie / Give me tonight. So I can be alright / I can hold your body and you can hold mine“. Take Me Away è un’altra ispirata ballata che mostra le fragilità che emergono dopo anni di lotta, sotto quell’aspetto così duro. Si sa che anche l’anima più rock sa sciogliersi quando si trasforma in musica, “I’m so good at rеsisting / Been putting up my best defensеs / But I am growing weak / Baby, baby, lay me down / Take the words out of my mouth / I’m too tired to speak“. La title track Reckless riassume lo spirito di questo album e il percorso affrontato della Wade nella sua vita. Un bel pezzo rock, non c’è altro da aggiungere, “Reckless, no headlights / Driving too fast down shadow lines / Reckless, hand in the fire / No one to love, while I’m walking on the wire / Reckless, all alone / My heart is broken on the side of the road / I could fix it if I hеad home / You ain’t here to drivе me / Reckless“. Northern Air è un a canzone malinconica molto ben scritta ed interpretata dalla spiccata personalità country. Morgan Wade riesce ad evocare ricordi ed emozioni con sorprendente talento, “So tell me / Tell me, how’s that northern air / And do you think of me when you’re all alone? / I could drive all night to be there / ‘Cause I don’t think that I could stand / One more night on my own / Won’t you bring yourself on home?“. L’album si chiude con un’altra ballata intitolata Met You. Una canzone d’amore sincera, dove gioia e dolore sembrano mescolarsi e confondersi, “And the streetlights, they might as well, burn and hold out / Ain’t nothing bright as you, ever step foot in this godforsaken town / You lied and you left, and I’m wonderin’ what the hell I should do? / I’d seen it all, or so I thought, until I met you“.

Reckless è un album che non ha bisogno di molti ascolti per lasciarsi apprezzare. Lo stile onesto e sincero di Morgan Wade cattura subito l’ascoltatore che entra velocemente in sintonia con lei grazie soprattutto a collaudate melodie rock e country. Sono questi i due generi che più caratterizzano la musica di questa cantautrice che fa rivivere certe sonorità di inizio millennio che, evidentemente, non sono ancora andate perdute. Il suo passato turbolento, legato all’abuso di alcol, influenza le tematiche di questo disco che vuole segnare un nuovo inizio, un ritorno alla sobrietà. Reckless è un ottimo esordio, un diamante grezzo, come si dice in questi casi, che solo il tempo e l’esperienza saprà raffinare.

Sito Ufficiale / Facebook / Twitter / Instagram / YouTube

Ancora un altro libro, ep. 6

L’ultimo episodio di questa rubrica risale a gennaio e quindi è arrivato il momento di raccogliere qui le impressioni sulle letture che ho affrontato in questi mesi. Dopo aver salutato, solo temporaneamente, il buon David Forster Wallace, mi sono dedicato al secondo capitolo della saga di Dune, scritta da Frank Herbert, intitolato Il Messia di Dune. Questo capitolo della saga fantascientifica di Dune è più breve del precedente ma decisamente più lento. Non che il primo sia tutto azione e dialoghi ma questa volta è la trama a non essere particolarmente brillante. Herbert indugia troppo sulle visioni di Paul e Alia, non sfruttando appieno gli intrighi del complotto, lasciando che tutto si risolva da sé o quasi. Paul Atreides, conosciuto anche come Muad’dib, il Kwisatz Haderach, è dotato, più di altri, del potere di avere visioni del suo futuro che si confondono e si sovrappongono, rendendole di difficile interpretazione. Arrakis passa in secondo piano, dando più spazio all’Imperatore, sacrificando così il fascino di questo pianeta che ha reso speciale il primo capitolo. Ci sono anche molti aspetti interessanti ne Il Messia di Dune, ad esempio l’introduzione del personaggio di Hayt, il ghola creato dal Bene Tleilaxu, ovvero un clone di Duncan Idaho, uno dei protagonisti del primo Dune. Anche la presenza di nuove razze e creature dimostrano la vivace fantasia di Herbert. In definitiva, questo libro mi ha dato l’impressione di essere un’introduzione ai futuri sviluppi della saga che non abbandonerò certo ora.

Stephen King trova sempre spazio tra le mie letture e questa volta lo fa con la raccolta di racconti brevi, A volte ritornano. Il Re mette in mostra tutte le sue doti tecniche e la sua vivida immaginazione in questi venti racconti. Alcuni sarebbero poca cosa in mano ad altri autori ma non nella sua. Altri invece sono dei piccoli capolavori, ad esempio Jerusalem’s Lot (che anticipa Le notti di Salem), A volte ritornano, Il compressore, Camion o Il cornicione, solo per citarne alcuni. Quest’ultimo mi ha fatto sudare freddo, letteralmente. Come non citare Risacca notturna che getta le basi per un capolavoro come L’ombra dello scorpione. I figli del grano è un altro di quelle storie che solo King sa imbastire, così come il commovente L’ultimo piolo. Nonostante sia stata prima volta che leggevo questa raccolta, leggendo Il bicchiere della staffa (collegato sempre alla vicende di Jerusalm’s Lot) ho avuto l’impressione, molto forte, di conoscere già la storia. A meno che lo zio Steve non sia venuto a farmi visita nel sonno, sussurrandomela all’orecchio (ne dubito ma non lo escluderei), è probile che l’abbia letta in qualche libro di antologia che si leggono a scuola. Cos’altro aggiungere? A King basta una semplice idea per imbastire una storia fatta di personaggi credibili che si muovono in un mondo fatto di dettagli che lasciano il lettore senza fiato.

In seguito sono tornato sulla saga storica che racconta della Guerra delle Due Rose, scritta da Conn Iggulden e in particolare il suo secondo libro intitolato Trinity. Questo capitolo è più ricco di battaglie e azione rispetto al precedente, oltre al fatto che ci sono meno personaggi e ciò rende la storia più lineare e più coinvolgente. L’autore riesce nella non scontata impresa di rimanere imparziale quando narra le vicende tra le due fazioni dei Lancaster e degli York. Non ci sono buoni o cattivi, entrambi hanno le loro buone ragioni per combatte contro ciò che ritengono ingiusto. Spesso mi sono trovato in d’accordo con York per poi subito dopo fare lo stesso con la regina Margherita, sposa di re Enrico VI dei Lancaster. Come succede spesso nei romanzi storici, dove protagonisti sono persone realmente esistite, la loro fine non è dettata dal sentimento dell’autore ma dal corso della Storia. E questa riserva dei colpi di scena. Una lettura scorrevole che trasporta il lettore in un altro mondo dove tutto sembrava avere più valore e il tempo scorreva più lento ma inesorabile, in un’Inghilterra ancora alle prese con le ferite della Guerra dei Cent’anni.

Infine ho letto AIR: La storia di Michael Jordan scritto dal giornalista americano David Halberstam. Non è il genere di libro che leggo di solito, perché le biografie, soprattutto di personaggi contemporanei, non fanno per me. Ma mi è stato regalato in quanto sono un appassionato di pallacanestro, o di basket come diciamo erroneamente noi italiani, e quindi è per questo che si trova nella mia libreria. Il titolo originale, Playing for Keeps: Michael Jordan and the World He Made, rende meglio l’idea del suo contenuto rispetto alla versione italiana. Non racconta infatti la vita di Michael Jordan, anche se copre il periodo che va dall’università al secondo ritiro, ma piuttosto la sua ascesa sportiva e dei cambiamenti che ha portato, non solo nella pallacanestro, ma in tutto lo sport. L’autore si sofferma sulla forza di volontà si quest’uomo di vincere, di eccellere, in qualsiasi cosa che fosse una finale NBA o una partita a carte. Per buona parte del libro il giornalista salta avanti e indietro nel tempo senza un apparente motivo. Infatti la lettura è più scorrevole e appassionante quando poi i fatti vengono raccontati in ordine cronologico. Le parentesi sulle altre squadre, oltre ai Bulls, sono interessanti e curiose e danno una panoramica più ampia della NBA degli di fine anni ’80 e ’90. L’unico grosso difetto sono le numerose ripetizioni e la tendenza ad insistere su concetti già espressi in precedenza, oltre ad una traduzione non sempre perfetta, a mio parere. Mi sarebbe piaciuto anche un inserto fotografico, come spesso accade in questo genere di libri, e un albo d’oro che riassumesse la carriere di MJ ma non c’è niente di tutto questo. Un libro per appassionati insomma, se non si basket, di sport in generale.

Scie chimiche, abito bianco e country

Chi legge questo blog da qualche tempo sa che non sono un appassionato di pop da classifica e in generale di artisti particolarmente celebri, fatto salvo per qualche eccezione. Una di queste è sicuramente Lana Del Rey. Tutti ricordiamo il suo exploit con la canzone Video Games di dieci anni fa e il gran parlare che si è fatto del suo album Born To Die del 2012. Dopo essersi costruita un personaggio piuttosto originale ai tempi, ma mai eccessivo per la verità, ha saputo, come poche altre, formare un nutrito gruppo di imitazioni più o meno riuscite. Chi si aspettava di vederla diventare una pop star sforna hit è rimasto deluso. Infatti Lana Del Rey ha saputo piazzarsi a cavallo di un pop mainstream ad uno più indie, rimanendo piuttosto fedele a sé stessa. A distanza di due anni dall’ultimo Norman Fucking Rockwell! ecco Chemtrails Over The Country Club che riaccende il mio interesse verso un’artista che ogni volta prova ad uscire un po’ di più dal personaggio, rivelandosi sempre meritevole di attenzione.

Lana Del Rey

White Dress offre un inizio soft, sussurrato che ci ricorda subito che stiamo ascoltando un album della Del Rey. I ricordi di dieci anni di musica e la fatica degli esordi sembrano accumularsi in questa fragile ballata. Si comincia bene, lentamente e senza clamori, “When I was a waitress / Wearing a white dress / Look how I do this / Look how I got this / When I was a waitress / Working the night shift / You were my man / Felt like I got this“. La title track Chemtrails Over The Country Club riprende le pigre melodie tipiche di questa artista. Tutto funziona a meraviglia, dando vita ad una calda atmosfera famigliare e rilassata. Niente sorprese ma nessuno se le aspetta dopotutto, “I’m on the run with you, my sweet love / There’s nothing wrong contemplating God / Under the chemtrails over the country club / Wearin’ our jewels in the swimming pool / Me and my sister just playin’ it cool / Under the chemtrails over the country club“. Segue Tulsa Jesus Freak. Anche qui la nostra Lizzy non si discosta molto dal suo standard, riproponendo la sua formula vincente, canto svogliato e immagini di quotidiana decadenza. Bene, cos’altro chiedere? “You should stay real close to Jesus / Keep that bottle at your hand, my man / Find your way back to my bed again / Sing me like a Bible hymn / We should go back to Arkansas / Trade this body for the can of Gin / Like a little piece of heaven / No more candle in the wind“. Let Me Love You Like A Woman è una di quelle canzoni che rendono unica Lana Del Rey ma che offrono l’appiglio per qualche critica. Melodia lenta ma orecchiabile, una canzone d’amore nel suo stile rilassato e effimero che lascia il segno, “Let me love you like a woman / Let me hold you like a baby / Let me shine like a diamond / Let me be who I’m meant to be / Talk to me in poems and songs / Don’t make me be bittersweet / Let me love you like a woman / Let me hold you like a baby / Let me hold you like a baby“. Anche Wild At Heart riesce nella stessa impresa. Un bel ritornello, cantato con più convinzione del solito che rende questa canzone una delle più riuscite di questo album. Da ascoltare,”I left Calabasas, escaped all the ashes / Ran into the dark / And it made me wild, wild, wild at heart / The cameras have flashes, they cause the car crashes / But I’m not a star / If you love me, you’ll love me / ‘Cause I’m wild, wild at heart“. Dark But Just A Game è un brano che offre all’ascoltatore le diverse facce della musica della Del Rey, da quella più cantautorale a quella più pop e sfrontata. Una mix di sound ben congegnato che rappresenta un po’ un unicum nella sua discografia, “We keep changing all the time / The best ones lost their minds / So I’m not gonna change / I’ll stay the same / No rose left on the vines / Don’t even want what’s mine / Much less the fame / It’s dark but just a game“. Not All Who Wander Are Lost cita addirittura Tolkien, mettendo in luce le doti poetiche e riflessive della Del Ray. Uno splendido ritornello fa da cornice a strofe delicate e immagini di viaggio, “The thing about being on the road / Is there’s too much time to think / About seasons of old / As you pour yourself a drink / ‘Cause every time I said no / It wasn’t quite what I meant / If you know what I mean“. Con Yosemite si affacciano delle sonorità più folk, agevolate da un accompagnamento acustico che ben si sposa con la voce malinconica della Grant. Una decisa variazione dal punto di vista musicale, meno a livello di tematiche, “You make me feel I’m invincible / Just like I wanted / No more candle in the wind / It’s not like I’m invisible / Not like before when I / Was burning at both ends“. La successiva Breaking Up Slowly vede la partecipazione, un po’ a sorpresa di Nikki Lane, quasi a sottolineare la volontà della Del Rey di avvicinarsi alle sonorità dell’americana. Il duetto è riuscito, la canzone è buona ma la presenza di Nikki non è sufficiente a completare la metamorfosi, “‘Cause breakin’ up slowly is a hard thing to do / I love you only, but it’s makin’ me blue / So don’t send me flowers like you always do / It’s hard to bе lonely, but it’s the right thing to do“. Ci riprova con Dance Till We Die, tra citazioni e riferimenti all’immaginario country. Lana Del Rey rimane fedele a sé stessa e, a mio parere, c’è poco da fare ma non è necessariamente una cosa negativa, “I’ve been covering Joni and dancing with Joan / Stevie’s calling on the telephone / Court almost burned down my home / But, God, it feels good not to be alone“. Si chiude con For Free, cover dell’originale di Joni Mitchell che suggella le intenzioni della Del Rey. Insieme a quest’ultima ci sono Zella Day e Weyes Blood che ne confezionano una riuscita versione, “Now me I play for fortunes / And those velvet curtain calls / I got a black Limousine and two gentlemen / Who escort me through these halls / And I’ll play if you got the money / Or if you’re a friend to me / But the one man band / By the quick lunch stand / He was playing real good for free“.

Chemtrails Over The Country Club è un timido tentativo di Lana Del Rey di cambiare registro, scivolando verso sonorità che vanno alternative folk all’americana. Tutto ciò non mi è sembrato così marcato come certe recensioni che ho letto lasciavano intendere. Il folk americano è ben altra cosa e se anche musicalmente, in poche occasioni, ci si può avvicinare, il modo di cantare di Lana Del Rey resta immutato e ci riconduce inevitabilmente, di nuovo a Lana Del Rey. Questo è l’ennesimo ottimo album di quest’artista e ne ricalca le caratteristiche che tutti ormai, dopo dieci anni, ben conosciamo. Il tentativo di coinvolgere altre colleghe e di citare le paladine del folk ha prodotto una serie di canzoni ben bilanciate tra loro, sempre riflessive e malinconiche e quindi non molto distanti dalle ultime uscite. Insomma con Chemtrails Over The Country Club, Lana Del Rey fa di nuovo centro ma se l’obiettivo era quello di esplorare nuove sonorità allora non mi sento di dire “missione compiuta”, rimandando il mio giudizio al prossimo disco, forse già in uscita quest’anno.

Sito Ufficiale / Facebook / Twitter / InstagramYouTube