Io, lettore – Tempi moderni

Prima parte: Io, lettore – Le origini

I classici che volevo assolutamente leggere si esaurirono velocemente anche se in tempi più o meno recenti ho continuato a leggerne altri, come Moby Dick di Hermann Melville e Il Processo di Franz Kafka. A questi ci aggiungerei anche Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien che sarà importante per me in tempi più recenti. Ma il filone horror non poteva chiudersi con i classici e iniziai ad avvicinarmi al nome di Howard Phillips Lovecraft, con una breve raccolta di racconti. Mi accorsi di essermi addentrato in un mondo oscuro fatto di terribili mostri dalle origini antiche e misteriose. Il solitario di Providence, devo ammetterlo, non mi hai mai appassionato quanto Poe. Il suo modo di scrivere sempre tra sogno e realtà, i lunghi monologhi e le infinite descrizioni oniriche non sempre agevolano la lettura. Dovevo cercare qualcosa d’altro, qualcosa di più moderno e contemporaneo.

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Io, lettore – Le origini

L’Italia, almeno secondo l’Istat, non è un paese di grandi lettori. Sembrerebbe che meno del 40% della popolazione legga libri. Meno della metà di loro arriva a 3 libri all’anno, un po’ pochini per definire una persona “un lettore” ma accontentiamoci. Chi legge almeno un libro al mese rappresenta poco più del 16% di queste strane creature che provano piacere ed un perverso bisogno di dedicarsi a questa attività. Io faccio parte di questo ristretto gruppo di italiani. Un giorno però ho alzato gli occhi dal libro che stavo leggendo e ho pensato: ma come sono diventato un lettore? Quali sfide ho affrontato, quali mondi ho attraversato, quante vite ho vissuto? Perché lo faccio? Che senso ha abbassare lo sguardo per l’ennesima volta su quel muro di parole e lettere, da solo, pagina dopo pagina, ore dopo ore? Ho deciso così di provare a capire, passo per passo, che lettore sono e come lo sono diventato e di metterlo per iscritto. Ne è venuto fuori un lungo post che ho deciso, per chiarezza, di dividere in più parti e pubblicarle separatamente.

Non ricordo quale sia stato il primo libro che ho letto, è più facile ricordarsi quale sia stato il primo libro “per adulti” affrontato in tenera età. Attualmente nella mia libreria fanno ancora capolino alcuni volumi del Battello a Vapore, ottimi per cominciare ma troppo fanciulleschi perfino per i miei gusti di allora. Ho di gran lunga preferito Roald Dahl ma soprattutto R.L. Stine e i suoi Piccoli Brividi. Ed a questo punto che capii cosa volevo leggere. Non mi interessavano le storie di bambini alle prese con formative avventure con gli amici. No, volevo sfidare le mie paure, esplorare l’ignoto. Non volevo leggere libri per bambini.

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Ancora un altro libro, ep. 16

È giunto il momento di dare spazio alle mie letture, l’ultimo post di questo genere risale alla metà dello scorso dicembre. Qui brevemente cercherò di riassumere le mie impressioni raccolte di volta in volta termino un libro.

Cominciamo da Le strade di Laredo di Larry McMurtry. Ambientato circa vent’anni dopo i fatti narrati nel precedente Lonesome Dove, questo romanzo racconta una caccia all’uomo tra Texas e Messico. I protagonisti sono più o meno gli stessi, solo più vecchi e abituati ad una vita diversa, a parte il capitano Woodrow Call che si mette sulle tracce di un pericoloso assassino. La storia però procede lentamente e bisogna attendere tre quarti di libro prima che succeda qualcosa di significativo. Nel frattempo gli assassini psicopatici diventano due e uno è di troppo e, a conti fatti il suo peso nella trama è praticamente nullo. Inoltre ci sono troppe coincidenze, comportamenti inspiegabili da parte di alcuni personaggi, situazioni poco credibili e numerose ripetizioni. Anche i dialoghi non sono all’altezza del suo predecessore ma in generale è un romanzo ben scritto. Le strade di Laredo è una storia profondamente triste e diversa da quella di Lonesome Dove, nella quale non c’è redenzione per nessuno.

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Ancora un altro libro, ep. 15

Prima che finisca questo 2023 è bene che io raccolga qui le mie impressioni su gli ultimi libri che ho letto dallo scorso mese di luglio.

Il sesto volume della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind, intitolato La fratellanza dell’ordine, vede Richard e Kahlan impegnati ancora contro la minaccia dell’Ordine Imperiale. Come al solito sono costretti a dividersi e, come al solito, pensano sia per sempre. Ed ecco che il dramma della separazione inizia a diventare troppo ricorrente in questa saga. Questa volta è colpa di Nicci, una Sorella dell’Oscurità che inizialmente sembra essere un personaggio spietato e pericoloso ma poi Goodkind finisce per stravolgere tutto troppo velocemente, rendendolo anonimo. Richard, al solito, è bravo a fare tutto e questo spesso lo fa diventare prevedibile e in questa occasione anche un po’ insopportabile. La trama è meno complessa dei precedenti, con un finale insipido, piena di riempitivi (il capitolo 19 è inutilmente lungo) e carica di un significato piuttosto banale. Sappiamo bene che Goodkind voleva diffondere il relativismo ma per ora non mi sembra niente di così eccezionale. Sarebbe stato meglio si fosse preoccupato di essere meno infantile e semplicistico in alcuni passaggi e avremmo avuto un più che discreto fantasy d’intrattenimento.

Il secondo libro della trilogia di Stoccolma, intitolato 1794 e scritta da Niklas Natt och Dag, riprende le atmosfere del precedente e in parte anche le tematiche. Un thriller storico arricchito dalle descrizioni della città e dei suoi vicoli. Sembra quasi di vederla e di sentire gli odori nauseanti che le pervadono e di toccare le difficili condizioni di vita di allora. La scrittura è pulita, con capitoli spesso brevi e significativi, mai inutili. La struttura del romanzo è particolare, si passa da un punto di vista all’altro e si fanno dei passi indietro che poi permettono di comprendere meglio le vicende successive. Non mancano violenza e volgarità, le quali possono impressionare qualche lettore. Alla fine restano alcune questioni in sospeso che si concluderanno nel terzo volume.

Underworld di Don Delillo è così denso di contenuti che è difficile descrivere in poche parole che cosa racconta. I temi più ricorrenti che ho potuto cogliere sono: la spazzatura, i complotti, la guerra fredda, il nucleare, il numero tredici, l’educazione, l’arte e la cultura italo-americana. I personaggi che prendono parte a questo romanzo in realtà non sono molti e tutti entrano in qualche modo in contatto tra loro. Nella parte centrale, forse la più brillante ed eterogenea del libro, troviamo brevi spezzoni di vita americana, tutti rigorosamente scritti nello stile postmoderno di Delillo. L’autore fa avanti e indietro nel tempo, terminando, prima dell’epico epilogo, con un lungo flashback che va a chiudere il cerchio. Qualcosa rimane in sospeso, va a perdersi nel flusso di parole, negli ottimi dialoghi e nelle lunghe disamine. Ma così deve essere, è nello stile pulito e discorsivo di Delillo e nella sua visione postmoderna. Un libro che si deve leggere per il piacere di farlo, cogliendone i numerosi spunti di riflessione, e non per trovare colpi di scena (che non mancano) o per seguire una trama lineare.

Robert Harris prende in prestito l’idea di Philip K. Dick per il suo Fatherland, immaginando un mondo nel quale la Germania nazista vince la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è perfino migliore del precedente tentativo, più realistico e plausibile nel suo complesso. L’unico difetto è che non rappresenta davvero un valore aggiunto, anzi in un certo qual modo ne smorza la tensione. Se questo thriller fosse stato ambientato negli ultimi anni del conflitto, o subito dopo, invece che in un ipotetico 1964, a mio parere, sarebbe stato più interessante e la trama, con qualche accorgimento, sarebbe stata in piedi lo stesso. Il detective protagonista, solitario e tormentato, e la bella e brillante americana che lo aiuta nelle indagini, rendono questo romanzo piuttosto prevedibile nelle dinamiche. Il movente degli omicidi è quasi scontato, compensato però da un buon colpo di scena finale. Quello che resta è un buon thriller godibile, dal ritmo serrato e dalla particolare ambientazione ucronica ma non privo dei cliché del genere.

Il sesto volume de Le storie dei re sassoni, dal titolo La morte dei re, conferma le ottime qualità di narratore di Bernard Cornwell e il suo amore per la storia del regno d’Inghilterra. Come di consueto le note storiche ci rivelano le fonti, le quali, proprio perché esigue, permettono all’autore di prendersi numerose libertà nel rispetto della storia. Uhtred è figlio del suo tempo, intelligente ma superstizioso, irrispettoso ma fedele al suo giuramento, con comportamenti che alla morale moderna ci appaiono violenti ma purtroppo non lontani da quelli testimoniati nelle guerre di oggi. Tanto tempo è passato ma poco sembra essere cambiato. Sempre ottimo il giusto peso che Cornwell dà agli eventi paranormali e al ruolo delle donne del tempo. Lascio Uhtred alle sue avventure ancora una volta pienamente soddisfatto e con il desiderio di ritornare al più presto nelle terre della futura Inghilterra.

Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle, è un classico della fantascienza ormai entrato nell’immaginario comune anche grazie alle numerose trasposizioni cinematografiche. Un breve romanzo dallo stile scorrevole e serrato, con un deciso cambio di ritmo nella terza parte. I colpi di scena sono probabilmente ciò che rendono questo libro così famoso ma che però rischiano di oscurare il resto della storia che offre numerosi spunti di riflessione sul rapporto tra umani e animali. Su questo punto forse soffre di una visione un po’ datata, non più in linea con quella moderna, ma del tutto comprensibile se si considera che è stato pubblicato nel 1963.

Ancora un altro libro, ep. 14

Mi sono accorto che l’ultimo episodio di questa rubrica risale addirittura allo scorso febbraio. Credo sia arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Cominciamo con La ragazza dai capelli strani, breve raccolta di racconti in cui possiamo ammirare il talento, ancora acerbo, di David Foster Wallace e la sua capacità di analisi della società moderna. Ogni racconto ha un tono e uno stile diversi, spesso con una struttura frammentata, con continui cambiamenti nel punto di vista e persino della forma. Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, lo stile di questo autore continua ad essere innovativo e sorprendente. I periodi lunghissimi, le continue associazioni mentali e le situazioni assurde e geniali sono le caratteristiche che più emergono dalla sua lettura. Sotto la superficie c’è la volontà di Wallace di dare forma ai pensieri più complessi senza rinunciare alla sua visione lucida del mondo nel quale viviamo, una visione che è ha anticipato i tempi. Se cercate racconti con una trama ed un finale, in questa raccolta, non ne troverete nemmeno uno.

Decisamente una lettura più leggera quella de La spada del destino, ovvero il secondo volume della saga dello strigo Geralt di Rivia. Si tratta ancora una raccolta di racconti ma a differenza del primo, ho trovato questo un po’ meno avvincente. Nei tre primi racconti lo strigo non ha un ruolo attivo all’interno della storia, è uno spettatore al pari di alcuni personaggi secondari, pure poco caratterizzati. Nei successivi tre invece, Geralt mette finalmente mano alla spada e rende giustizia al suo ruolo. Una raccolta divisa in due metà, una trascurabile e un po’ lenta, e l’altra più convincente e in linea con lo spirito della saga mostrato finora. Indubbiamente Andrzej Sapkowskici sa fare, il suo stile è diretto e asciutto, con una particolare attenzione ai dialoghi. Forse solo le vicende amorose tra Yennefer e Geralt risultano, a volte, un po’ stucchevoli e fuori luogo. Non mi resta che scoprire cosa riserva il primo romanzo della saga.

Solo Stephen King poteva scrivere un romanzo su di un’automobile assassina senza essere banale e grottesco. Non sapevo cosa aspettarmi da Christine ma ha saputo sorprendermi anche questa volta. Nella prima parte King definisce i personaggi, i rapporti che li legano e il contesto nel quale vivono la loro vita serena. Finché il giovane Arnie non sceglie Christine. Nella seconda parte tutto cambia e si entra in un susseguirsi di eventi che sembra impossibile da fermare. Il male che continua oltre la vita e non conosce riposo. Il passato che apre vecchie ferite e il futuro incerto dei giovani protagonisti. Il finale riserva delle sorprese nel perfetto stile di questo autore, evitando spettacolari colpi di scena. Senza dubbio tra i migliori romanzi di questo autore che ho letto finora e consigliato anche a chi vuole iniziare a scoprire il Re.

La repubblica dei ladri è terzo capitolo della saga dei Bastardi Galantuomini e quello nel quale facciamo finalmente la conoscenza di Sabetha, personaggio fin qui solo nominato. Scott Lynch ci racconta anche di più sul passato di questa banda di ladri, svelandoci l’episodio del teatro già citato nei libri precedenti. Nel frattempo ritroviamo Locke e Jean impegnati nelle elezioni nella città dei maghi. Forse queste elezioni sono un pretesto un po’ debole per portare avanti la storia, soprattutto perché non è chiarissimo il ruolo dei due protagonisti, ma alla fine si spiega tutto o quasi. Questo romanzo appare più come un prologo per quello che seguirà. Il colpo di scena finale, infatti, apre a nuovi e inquietanti sviluppi. L’unico modo per scoprire quali saranno è leggere il prossimo The Thorn of Emberlain che però è in attesa di pubblicazione da dieci anni.

La battaglia di Ravenspur, il finale della quadrilogia della Guerra delle Due Rose, è quanto ci si poteva aspettare dopo il deludente terzo volume. Conn Iggulden non riesce a dare forma al romanzo che diventa così in una sorta di docufilm, dove alcune parti sono caratterizzate da dialoghi e azione, altre, più frequenti, non sono altro che una voce fuori campo che riassume velocemente i fatti più salienti. La sensazione è che l’autore non avesse le idee ben chiare e questo a portato all’assenza di una struttura, con personaggi poco caratterizzati e approfonditi. Le riflessioni dei protagonisti sono spesso ripetitive e alla lunga annoiano, dando l’impressione che servano solo ad riempire qualche pagina in più. La gran quantità di personaggi che hanno preso parte a questo conflitto, durato trent’anni, forse avrebbe meritato ben più di quattro libri o, in alternativa, un solo libro meno dettagliato ma più chiaro di quello che ha realizzato Iggulden. Questa serie di libri si è rivelata una delusione, soprattutto dopo i primi due buoni volumi. Non entro nel merito della fedeltà ai fatti storici che sono esposti nella nota storica in chiusura ma, a ben vedere, riassume, in una decina di pagine e in modo più chiaro, le altre centinaia appena concluse. Nota a margine: il titolo italiano è fuorviante. Non c’è stata nessuna battaglia a Ravenspur, anche se ha un ruolo centrale nelle vicende. Molto meglio il titolo originale: Wars of the Roses. Ravenspur: Rise of the Tudors.

Ancora un altro libro, ep. 13

Ecco il consueto appuntamento con una veloce recensione dei libri che ho letto negli ultimi mesi. Alcuni ottimi e altri un po’ meno.

Black Jesus. The anthology di Federico Buffa è una raccolta di aneddoti sul mondo della pallacanestro USA infarciti di termini gergali, nomi noti, altri meno, soprannomi e curiosità varie. Incomprensibile per chi non mastica un po’ di basketball. Fortunatamente non è il mio caso, altrimenti mi sarei trovato ancora più spaesato. Lo stile di Buffa è difficile da seguire su carta, spesso e volentieri si perde il filo. Mi sono ritrovato a rileggere più volte le stesse righe nel tentativo di capirne il significato. A tutto questo si aggiungono numerosi refusi (mai visti così tanti in un libro solo!) e ripetizioni inutili. Sarebbe bastato un minimo di editing, indicare almeno l’anno in cui è stato scritto ciascun capitolo e rivedere lo stile di scrittura per ottenere un libro tutto sommato godibile e interessante. Invece, così com’è, è francamente illeggibile.

Con la raccolta di racconti Scheletri, King si conferma essere un abile narratore anche quando lo spunto per una storia si dimostra un po’ debole. Quando questo autore sceglie di condensare la sua fantasia in poche pagine, viene a mancare la profonda caratterizzazione dei personaggi, caratteristica fondamentale dei suoi romanzi. Inoltre è in raccolte come questa che emergono, in maniera più evidente, le influenze di autori come Lovecraft (La nebbia, La scorciatoia della signora Todd, La nonna) e Poe (L’uomo che non voleva stringere la mano, L’immagine della falciatrice, Nona). Alcuni racconti sono stati inseriti più per “beneficio di inventario” che per altro ma altri sono dei piccoli capolavori (L’arte di sopravvivere, su tutti). Un’ottima raccolta che offre un’ampia panoramica sullo stile e l’immaginario di Stephen King.

Frank Herbert ha avuto il merito di aver creato un mondo complesso, un vero e proprio universo. Eppure anche in questo terzo volume della saga, intitolato I Figli di Dune, tutto si riduce ad una questione di famiglia. Leto II ripercorre i passi del padre Paul, affrontando pari pari le stesse visioni e facendo le medesime riflessioni anche se con esiti differenti. Gli altri personaggi sono gli stessi di sempre e mettono in piedi complotti e contro-complotti che sono difficili da seguire. Herbert, con il suo stile dico/non dico, non aiuta affatto il lettore nel districarsi tra di essi. Manca empatia con i protagonisti, in particolare con Leto che sa sempre cosa succederà (ma non lo dice a nessuno, anche perché se lo facesse sarebbe inutile continuare a leggere il resto del romanzo). La cerchia ristretta di personaggi rende vani alcuni colpi di scena ed è un peccato, soprattutto quando si ha a disposizione un intero universo. Il ritmo è lento e un buon centinaio di pagine sono di troppo. In definitiva un capitolo che porta avanti le incredibili vicende di Arrakis, appoggiandosi su di un intreccio complesso ma frastagliato, con dinamiche per larga parte prevedibili, salvandosi in un finale che lascia presagire importanti cambiamenti ma non soddisfa appieno.

Se nel primo volume di questa trilogia Mervyn Peake ha costruito il microcosmo di Gormenghast, in questo seguito, intitolato per l’appunto Gormenghast, lo distrugge pezzo dopo pezzo. Dopo una prima parte che ricalca le atmosfere grottesche e bizzarre del suo predecessore, il romanzo prosegue poi su un binario differente, più cupo e malvagio. Il personaggio chiave è Ferraguzzo sempre più disposto a tutto per ottenere il potere. Il giovane conte Tito è un ribelle che mina dall’interno le fondamenta del castello di Gormenghast mettendo a dura prova le solide mura di pietra e i suoi immemorabili rituali. Lo stile di Peake è unico, fatto di descrizioni dettagliate ma mai noiose, dialoghi scorrevoli (sempre divertenti gli scambi di battute tra il dottor Floristrazio e la sorella Irma) e colpi di scena spiazzanti. Non so sinceramente cosa aspettarmi dal terzo capitolo ma anche se non dovesse essere all’altezza di questi primi due, sono contento di essermi perso ancora una volta per gli immensi corridoi e le infinite stanze di Gormenghast.

Ancora un altro libro, ep. 12

L’ultimo episodio di questa rubrica risale allo scorso luglio e da allora di libri ne ho letti diversi. Quindi direi che è arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Bloodline è un romanzo storico che racconta le vicende della Guerra delle Rose, il terzo di quattro che compongono la saga scritta da Conn Iggulden. Rispetto ai due precedenti, questo non mi è sembrato all’altezza di essi. L’autore non riesce a portarci indietro nel tempo anche a causa della scarsa caratterizzazione dei personaggi, un difetto già riscontrato nel primo e nel secondo volume. Molti sono solo dei nomi e uno dei pochi personaggi di fantasia, nonché uno dei più riusciti, Derry Brewer, il deus ex machina, che spiccava sugli altri, viene inspiegabilmente relegato a poche apparizioni. In alcuni capitoli più che un romanzo sembra una cronaca, con un susseguirsi di avvenimenti che servono solo a coprire lunghi intervalli di tempo. Bloodline è un buon romanzo storico che si prende alcune libertà (è tipico di questo genere) ma prova a rimanere fedele ai fatti per quanto possibile. L’autore però appare comunque più schierato dalla parte dei Lancaster piuttosto che da quella degli York ma se si cerca qualcosa di imparziale e veritiero meglio un saggio.

Prosegue la mia avventura (tra alti e bassi) nel mondo della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind. Il quinto volume, L’anima del fuoco, ricalca la struttura dei precedenti, introducendo nuovi personaggi e nuove ambientazioni. Richard e Kahlan si ritrovano alla prese con i “rintocchi” che minacciano la presenza della magia nel mondo fantastico creato dall’autore. I pregi e i difetti rimangono gli stessi dei capitoli precedenti. Lo stile asciutto e scorrevole dell’autore contrasta con le numerose ripetizioni e banalità. Ad esempio i continui rifermenti al cibo, del tutto inutili all’interno della narrazione, e la tendenza a sottolineare le vicende amorose di personaggi, spesso ininfluenti sulla loro psicologia e sull’intreccio. Inoltre, ma forse è solo una mia impressione, Goodkind sembra avere qualche problema con la gestione del tempo. Settimane che sembrano giorni e viceversa. Le varie linee temporali non sembrano intrecciarsi a dovere e il finale mi è parso affrettato e un po’ campato in aria. Non importa, il prossimo volume chiude un ciclo narrativo e lo leggerò sicuramente ma non subito. Sono nella fase: devo sapere almeno come va a finire.

Questo è uno di quei libri che compaiono un po’ per caso mente si cerca altro ma che sentiamo il bisogno di leggere subito, lasciando in attesa altri libri che aspettano il loro turno da mesi, se non addirittura anni. 1793 è un romanzo storico che segna il debutto dello scrittore svedese Niklas Natt och Dag. Si potrebbe definire un giallo o un thriller storico ma in realtà è qualcosa di più di questo. La coppia di investigatori, il tisico Cecil Winge e il reduce Mickel Cardell, è quella classica. La mente e il braccio. Entrambi sono ben integrati nel contesto storico in cui vivono, la Stoccolma del 1793. Più originale è la struttura del romanzo, che non segue semplicemente le indagini e, nella parte centrale, lascia che sia il lettore a scoprire parte della verità con occhi diversi, con gli ultimi capitoli che servono a chiudere il cerchio. Lo stile dell’autore è incalzante e condito da ottimi dialoghi. Le scene forti non mancano e la violenza potrebbe disturbare i lettori più sensibili ma nel contesto rende tutto più vivido. Un ottimo esordio che tiene sulle spine fino all’ultima pagina ma non privo di qualche difetto, come le ripetizioni, le espressioni ricorrenti e qualche colpo di scena di troppo. Leggerò sicuramente il suo seguito che si presenta come una storia indipendente ma in continuità rispetto a questo libro. Ovviamente, come d’uopo, anche questa è una trilogia.

Altro che di trilogia si tratta, quella del Le Storie dei Re Sassoni che è arrivato al suo tredicesimo volume. Modestamente non sono nemmeno arrivato a metà con Il signore della guerra, quinto libro di questa serie di romanzi storici del maestro Bernard Cornwell. Nonostante si tratti del quinto capitolo di una lunga saga, questo autore riesce a mantenere alto il livello della narrazione, anche grazie agli elementi storici inseriti in essa. Data la scarsità di evidenze storiche, il nostro non manca di dare spazio alla fantasia ma lo fa senza mai risultare poco credibile come avviene spesso in alcuni romanzi storici d’avventura. Il protagonista Uhtred, nonché voce narrante, è sempre più spavaldo e strafottente almeno nelle apparenze ma la sua fedeltà a re Alfredo è messa ancora una volta a dura prova. Le note storiche dell’autore, seppure brevi, sono sempre interessanti perché chiariscono cosa è vero e cosa no del romanzo appena terminato. Non vedo l’ora di tornare con Uhtred sulle colline inglesi per vedere cosa ne sarà del sogno di Alfredo.

Chiudo in bellezza con un capolavoro ovvero Lonsome Dove (le prime edizioni in Italia avevano l’inspiegabile titolo di Un volo di colombe). In questo grande romanzo western affrontiamo, insieme ai ranger Call e Augustus, un lungo viaggio che ci porterà dal Texas al Montana di fine ‘800. Tra personaggi indimenticabili e dialoghi cinematografici (non a caso è nato come sceneggiatura), Larry McMurtry ci fa conoscere la dura vita sulla pista. Si sente, tra le sue righe, la polvere delle pianure, il caldo torrido, la tensione dei pericoli, i sogni e le speranze degli uomini. Nonostante la mole e il ritmo lento, questo romanzo scorre senza intoppi tra scene divertenti e altre tristi e dolorose. Ci sono numerose riflessioni sulla vita e la morte, sempre ben inserite nel contesto e alleggerite dalla simpatia di Gus e di altri personaggi bizzarri. La capacità di McMurtry di dare “voci” differenti a ciascun protagonista ha dell’incredibile (non per niente questo romanzo vinse il premio Pulitzer nel 1986). Difficile lasciare i suoi protagonisti al loro destino e infatti esiste un seguito che leggerò sicuramente (anche se mi dicono inferiore), perché questa strana compagnia di cowboy già mi manca. Qui sotto un paio di citazioni che mi sono segnato.

– Dove credi che andrà a finire Jake?
– In una fossa, come me e te.
– Non so perché continuo a farti domande.

– Avete fretta di arrivare da qualche parte. È un grosso errore andare di fretta.
– Perché? – domandò Joe. Quasi tutto ciò che diceva il viaggiatore lo lasciava perplesso.
– Perché la nostra destinazione è la tomba. Chi va di fretta di solito ci arriva prima di chi procede con calma.

Ancora un altro libro, ep. 11

In queste settimane il blog si prenderà qualche momento di pausa, anche se le ferie vere arriveranno ad agosto. Per non perdere il passo, faccio un breve riepilogo delle letture delle scorse settimane.

Dopo aver letto tutti i libri della Guida, pensavo di ritrovare in Dirk Gently, agenzia investigativa olistica la stessa inventiva folle e divertente tipica di Douglas Adams. Ma a parte qualche scena degna di nota, il personaggio del Monaco Elettrico e lo stesso Dirk Gently, il resto non convince. L’immaginazione brillante di Adams è annegata in una trama rigida ma allo stesso tempo confusionaria, che non trova compimento nel finale, anch’esso ai limiti dell’incomprensibile. Tutto succede troppo in fretta rispetto al resto della storia e si rischia più volte di perdere il filo. Conosco quello che sa fare Adams e questo libro non rivela a sufficienza il suo talento ed è meglio partire dalla Guida se lo si deve affrontare per la prima volta.

Come sempre Tolkien non delude e offre una versione accessibile a tutti del poema medievale di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, riscrivendolo quasi in prosa e conservandone il ritmo ed il linguaggio antico. Altrettanto ottima la traduzione italiana e la postfazione sulla simbologia dei poemi contenuti nella raccolta Sir Gawain e il cavaliere verde. Perla e sir Orfeo. Rispetto alla traduzione del Beowulf, sempre di Tolkien, ci sono molti meno suoi appunti e note, nonostante gli sforzi del figlio Christopher di raccoglierne il più possibile. Il poema Perla è forse il più impegnativo da leggere mentre Sir Orfeo è più semplice e breve. In definitiva una lettura interessante e per certi versi sorprendente nella modernità dell’eroe imperfetto e per il colpo di scena finale.

Con Cujo, ritorno da Stephen King ci rende partecipi di un incubo che dura pochi giorni e gira intorno alle vicende di pochi personaggi. Un San Bernardo idrofobo tiene in ostaggio nella loro auto un donna e suo figlio per giorni a causa di una serie di sfortunate coincidenze. La prima metà ci presenta la situazione, e qui alcuni potranno trovarla inutile ma al contrario io ritengo sia fondamentale ed è ciò che rende King un maestro. Senza quella prima parte, la seconda risulterebbe solo un horror sanguinario, una corsa contro il tempo fine a sé stessa. Invece il Re ci porta nelle campagne, nella abitazioni isolate e i suoi abitanti. Il cane Cujo è al solito un pretesto per raccontare altro, per raccontare l’uomo, la società americana. King ha forse scritto di meglio ma Cujo è un ottimo esempio di quello che è questo autore nel bene o nel male. I protagonisti sono verosimili e la situazioni in cui si trovano le due vittime anche. Il terrore di trovarsi in una situazione senza via d’uscita è palpabile. Forse ambientarlo al giorno d’oggi sarebbe più difficile, basterebbe un cellulare per risolvere tutto per il meglio. Sempre ammesso che King lo avesse voluto ben carico e con un buon segnale…

Ancora un altro libro, ep. 9

Al termine dello scorso anno ho consigliato qui una manciata di libri, ora è arrivato il momento di consigliarne (o sconsigliarne) altri tre, partendo da Il guardiano degli innocenti di Andrzej Sapkowski, primo capitolo della serie di The Witcher. Conoscevo in parte le vicende dello strigo Geralt di Rivia attraverso il videogioco (che non ho mai finito, non sono un abile videogiocatore) e in questa raccolta di racconti ho ritrovato le stesse atmosfere. Sapkowski è un abile narratore che non si perde in lunghe descrizioni del mondo nel quale si muove Geralt ma si concentra piuttosto sull’intreccio e sui personaggi che sono spesso ambigui e ben delineati. Lo stesso Geralt non è il perfetto eroe d’azione e ma preferisce usare prima la testa della spada. Mi hanno sorpreso i numerosi riferimenti alle fiabe classiche, ben nascosti in un’ambientazione decisamente poco fiabesca. Un fantasy nel quale non mancano scene forti, linguaggio volgare e qualche momento divertente. Era quello che cercavo in un fantasy. Credevo in qualcosa di più classico e invece Sapkowski ha saputo mettere su carta un fantasy molto più interessante. Pare che questo libro sia molto diverso dai successivi che per ora dovranno aspettare. Tornerò sulle tracce di Geralt appena ne avrò voglia.

Sono sempre scettico riguardo un certo tipo di letteratura italiana ma le ottime recensioni che avevo letto riguardo Le ripetizioni di Giulio Mozzi. Difficile scrivere qualcosa riguardo questo romanzo. I suoi capitoli sono frammenti di memoria, quasi tutti del protagonista Mario, spesso in bilico tra realtà e fantasia. Mario vive tre vite o almeno così sembra, tutte raccontate senza ordine cronologico e, a volte, nemmeno logico. Al di là di questo, volto a generare una sensazione di smarrimento nel lettore, il romanzo si sofferma troppo sulle vicende morbose dei suoi personaggi. Le pratiche estreme sembrano nascere dal nulla, non hanno una genesi che in qualche modo le giustifichi. L’autore non riesce a creare empatia tra i personaggi, a cominciare proprio da Mario, e il lettore, nonostante l’ottima scrittura. Il suo stile è scorrevole e brillante ma diventa indigesto nel capitolo “Una lettera” e in quelli successivi, con continue ripetizioni (appunto) e un paranoico soffermarsi su dettagli inutili. Non so se Mozzi voleva suscitare disgusto o liberare le sue fantasie perverse ma, questo dubbio è la sola cosa che alla fine mi è rimasta del romanzo. Nient’altro. Non un libro per tutti, questo è certo.

Ho voluto spazzare vie le brutture del precedente libro, gettandomi in qualcosa di decisamente fantasioso, ma per me ignoto, come Tito di Gormenghast di Mervyn Peake. Ebbene, ci sono autori in grado di fare uscire i personaggi dalle pagine in cui sono stati rinchiusi e Peake è uno di questi. Questo primo capitolo della trilogia di Gormenghast è bizzarro, grottesco. La scrittura di Peake è straordinaria, le sue descrizioni dei protagonisti sono incredibili. Il loro aspetto sembra uscito da un cartone animato ma è così minuziosamente riportato, anche più volte ma in modi sempre diversi, da risultare verosimile. Si alternano momenti divertenti ad altri drammatici. Alcuni tesi e scorrevoli (lo scontro finale tra Sugna e Lisca ad esempio) altri lenti e forse un po’ superflui (i capitoli di Keda). Ma il microcosmo di Gormenghast vive nella scrittura di Peake, nella sua prosa ricca ma mai inutilmente prolissa che compensa alcuni passaggi lenti e ridondanti. La nascita Tito sconvolge le abitudini e le tradizioni del castello, scuotendo le sue fondamenta anche per colpa dell’abile Ferraguzzo, uno dei personaggi più enigmatici del romanzo. Una storia senza tempo, una vera sorpresa almeno per me.

Ancora un altro libro, ep. 8

Prima che finisca anche questo anno mi sembra doveroso dare spazio anche alle mie letture. Questa rubrica infatti è ferma dallo scorso maggio e mi sembra il momento adatto per ricapitolare qui tutti i libri che ho letto da allora.

Cominciamo con Il diavolo e l’acqua scura di Stuart Turton che ci porta nel 1634 a bordo della misteriosa Saardam, una nave mercantile diretta ad Amsterdam. Dopo l’ottimo Le sette morti di Evelyn Hardcastle non vedevo l’ora di buttarmi su questo romanzo, il secondo dell’autore. Anche se potrebbe sembrare un giallo storico, la ricostruzione storica è appena accennata, per stessa ammissione dell’autore, in modo da concedere più spazio a trama e personaggi. Turton riesce sempre a creare una tensione costante nei suoi romanzi, disseminando indizi e intrecciando le vite dei vari protagonisti. Tutto molto bello se non fosse che l’impianto narrativo messo in piedi dall’autore si sofferma spesso su alcuni dettagli e lascia tempo al lettore di ragionare troppo sulla soluzione del mistero. Questo smorza la sorpresa finale, che di fatto arriva in anticipo se si escludono man mano i possibili sospettati. Va dato atto però a Turton di non lasciare nulla al caso e sono sicuro che saprà migliorarsi nei prossimi romanzi.

Il filo della spada è quarto capitolo delle avventure di Uhtred durante la nascita del regno d’Inghilterra. Bernard Cornwell è un grande narratore che questa volta lascia più spazio alla fantasia. Un’ambientazione meno vasta rispetto al solito e un obiettivo chiaro, rendono questo romanzo scorrevole e appassionante. Nuovi personaggi e vecchie conoscenze si alternano mantenendo alta la qualità di questa saga. Non vedo l’ora di continuare a seguire le avventure di questo signore della guerra, sempre diviso tra re Alfredo e il richiamo degli dei pagani.

Al mio radar dei classici gotici, per qualche motivo, è sempre sfuggito Il monaco di Matthew Gregory Lewis. Romanzo del 1796, ricco di tutte le caratteristiche del genere gotico. Fantasmi, demoni, tentazioni e cripte ammuffite fanno da sfondo alla torbida storia del monaco Ambrosio. Lewis riserva diversi capitoli agli altri personaggi che girano attorno a Lorenzo, i buoni della storia, e per un attimo ti fa credere che forse stai leggendo il libro sbagliato. Ma poi riprendono le vicende del monaco e tutto torna. Lettura scorrevole, anche grazie alla traduzione, cosa non scontata per un’opera di fine ‘700, con vivide descrizioni degli aspetti più macabri. Ma quando si parla di sesso, molto è lasciato all’immaginazione. Ritmo serrato e ben congegnato che ti tiene incollato fino al diabolico finale. Peccato per le parti in versi che non aggiungono nulla alla storia anzi spezzano inutilmente la narrazione e sembrano più un spot per l’autore che vuole vendersi come poeta.

Prosegue la mia avventura nella saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind che vede sempre protagonisti Richard e Kahlan con l’aiuto del mago Zedd. Il tempio dei venti è poco vario nelle ambientazioni e comunque alcune di questa già viste in precedenza e soprattutto piuttosto lento rispetto agli altri. Kahlan a volte va in paranoia e Richard sembra tanto risoluto ma basta poco per fargli cambiare idea. La storia è piuttosto debole ma resta comunque una lettura piacevole. La violenza gratuita rende questo fantasy adulto anche se il linguaggio usato da Goodkind non sconfina mai nel volgare. E non ne capisco sinceramente il perché. Incredibile ma vero nell’edizione italiana manca un intero capitolo ma non preoccupatevi, non si nota nemmeno. Questo è chiaramente un segno che il romanzo ha qualche pagina di troppo comunque.

I Wu Ming con L’armata dei sonnambuli danno il meglio in questo romanzo storico ambientato nei primi anni della rivoluzione francese. Tre protagonisti, le cui storie convergono nei capitoli finali, e un antagonista, si muovono in una Parigi instabile e confusa. Ci sono momenti horror vagamente paranormali, scene d’azione e le immancabili riflessioni sociopolitiche, il tutto intervallato da documenti, articoli di giornale e gazzettini vari. Divertenti i resoconti sgrammaticati ma genuini di chi “in piazza c’è stato davvero”. Forse un’introduzione alla situazione in Francia sarebbe stata d’aiuto per districarsi tra le varie fazioni ma si può porre rimedio comunque per proprio conto. Come al solito i Wu Ming mostrano l’altra faccia della Storia, supportati da una documentazione a volte esile ma ricca di fascino e mistero, senza disdegnare scene di puro intrattenimento.

Primo libro di DeLillo che leggo dopo averlo sentito associare a David Foster Wallace. In Rumore bianco ho notato delle somiglianze tra i due ma DeLillo fa uso dell’ironia più raramente, limitandola alle situazioni più grottesche. Un romanzo raccontato in prima persona, fatto di episodi e salti temporali brevi ma frequenti. L’autore sembra scegliere le parole una per una, senza lasciare nulla al caso. Un romanzo che parla di morte, ne è pervaso dalla prima all’ultima riga. Questo perché il protagonista ne è terrorizzato e non riesce a smettere di pensare ad essa. Più si va avanti nel racconto e meno trovano spazio le battute un po’ nonsense del postmodernismo, a beneficio di un ritmo più serrato. Non un libro semplice da leggere ma sicuramente ricco di spunti di riflessione. Mi sono rivisto spesso nei pensieri e nelle idee del protagonista e un po’ mi ha fatto impressione. Leggerò senza dubbio altro di DeLillo.

Da parecchio tempo non leggevo Deaver e La scimmia di pietra è una delle prime indagini di Lincoln Rhyme che mi ero lasciato indietro. Ne ho letti molti ma questo non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto. Ho intuito il principale colpo di scena con largo anticipo ma la spiegazione di Deaver lascia qualche buco e il resto è poco credibile. La prevedibile imprevedibilità di questo autore non è un meccanismo perfetto e ogni tanto si inceppa. Resta una lettura piacevole e tornerò di nuovo sulla scena del crimine con Linc e Amelia.

Una cosa divertente che non farò mai più è il reportage di David Foster Wallace a bordo un una crociera superlusso ed è irresistibile. Tutto il talento di questo scrittore condensato in poche ma divertenti pagine che raccontano la sua esperienza in modo lucido e dettagliato. Sono molti i passaggi che strappano una risata sincera. La capacità di DFW di scrivere di ogni cosa che gli passa davanti a gli occhi e per la testa con una facilità disarmante ed efficacia, è sorprendente. Difficile comprendere cosa sia stato “romanzato” e cosa no ma la mia idea è che la penna di questo autore sia più vera del vero e anche questa volta, nella sua superficiale leggerezza, sia riuscita a scavare nella profondità dell’animo umano e della cultura americana e occidentale. Consigliato a chi vuole scoprire lo stile di DFW senza impegno.

Con Le creature del buio – Tommyknockers, Stephen King si dà alla fantascienza ma senza rinunciare al suo immaginario horror. Perfetta come sempre la costruzione dei personaggi che popolano Haven, anche se in un paio di occasioni si dilunga troppo e inutilmente. King riesce a rendere verosimile perfino una storia che racconta di dischi volanti, arricchendola di dettagli. Gli alieni ci sono ma non si vedono mai per davvero e l’idea della mutazione è ben congegnata. Lettura scorrevole come di consueto per King anche se lui stesso lo considera il peggiore dei suoi. Il finale un po’ assurdo e sopra le righe toglie un po’ di magia ma poco male, c’è tanto di buono in questo libro.