Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 4

Questa è una di quelle volte in cui non so come iniziare un post. Di solito arriva per caso, al momento giusto o quasi, ma questa volta non è arrivata un’idea abbastanza decente da meritarsi di essere messa per iscritto. E allora perché non scrivere proprio di questa assenza di idee? In realtà una mezza idea mi era anche venuta ma non mi aveva convinto molto, perciò per ora la lascio in un cassetto, magari torna utile la prossima volta. Bene, nonostante oggi sia in debito di fantasia e l’unica soluzione e scrivere di questo, la mia introduzione al post in qualche modo l’ho fatta. Il resto del post, con i consueti consigli musicali è qui sotto. La prossima volta mi impegnerò di più…

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Non mi giudicate – 2023

Un altro anno è arrivato in fondo e come di consueto mi fermo un momento per tirare le somme e cercare di riassumere qui quanto di meglio ho ascoltato quest’anno. Dei 73 album pubblicati quest’anno e che ho ascoltato ho dovuto fare una scelta e a malincuore lasciarne fuori parecchi altrettanto meritevoli. Ecco dunque la mia personalissima lista di fine anno.

  • Most Valuable Player: Margo Price
    L’album Strays e la sua successiva versione estesa, ci fanno ascoltare una Margo Price ispirata e finalmente sobria. Ormai questa cantautrice sembra aver trovato la sua strada.
    Una mentina in tasca e una pallottola tra i denti
  • Most Valuable Album: Thank God We Left The Garden
    Questo album di Jeffrey Martin aveva già un posto prenotato in questa lista, tanto era la fiducia in lui. Fiducia pienamente ripagata da un album profondo e personale.
    Alla fine, niente ha importanza, figliolo
  • Best Pop Album: Lauren Daigle
    Lauren Daigle ci regala un album pieno di vita e colori, per tutti i gusti. Una voce meravigliosa che sa toccare le corde giuste e andare al di là del suo particolare genere musicale.
    Vedo angeli che camminano per la città
  • Best Folk Album: A Seed Of Gold
    Scelta non facile ma ho voluto premiare il folk tradizionale di Rosie Hood e la sua band. Un ritorno fatto di ottime canzoni caratterizzate dalla voce unica di quest’artista.
    Un regalo riservato agli amici lontani
  • Best Country Album: Ain’t Through Honky Tonkin’ Yet
    Nonostante la spietata concorrenza, la spunta Brennen Leigh, con un album ben scritto e orecchiabile. Il suo stile unico e riconoscibile rendono questo album semplicemente perfetto.
    A volte sento di non avere un posto dove andare
  • Best Singer/Songwriter Album: Dreamer Awake
    Tanti ottimi album potevano rientrare in questa categoria ma questo di Rachel Sermanni è un ritorno molto gradito e rende giustizia al suo talento di cantautrice.
    Lascia che i segreti entrino dalla porta
  • Best Instrumental Album: Haar
    Lauren MacColl è una delle violiniste più prolifiche della scena folk scozzese, anche grazie alle sue numerose collaborazioni. Quando si mette in proprio ci regala sempre ottimi brani strumentali.
  • Rookie of the Year: Snows of Yesteryear
    Non sono pochi i debutti di quest’anno a questo trio ma Snows of Yesteryear mi ha sorpreso più degli altri con il suo album omonimo. Un ottimo mix di canzoni folk con contaminazioni rock e alternative che conquista subito.
    La neve dei tempi andati
  • Sixth Player of the Year: Ida Wenøe
    Pochi dubbi, la sorpresa di quest’anno si rivela essere la riscoperta di questa cantautrice danese con il suo Undersea. Un  album di canzoni folk di ottima fattura.
    Non ho mai saputo niente dell’amore
  • Defensive Player of the Year: Bille Marten
    Drop Cherries è l’album che ci si aspettava da questa cantautrice che continua a portare le sue sonorità distese e riflessive. Sempre un piacere ascoltarla.
    Non è rimasto niente per cui piangere
  • Most Improved Player: Kassi Valazza
    Con il suo Kassi Valazza Knows Nothing, dimostra un cambio di approccio alla sua musica, ora fatto di ballate in bilico tra classico e moderno. Un nuovo interessante inizio per lei.
    Non sai come funziona il fuoco
  • Throwback Album of the Year: Peculiar, Missouri
    Non sono molti gli album che sono andato a pescare dagli anni passati ma la scelta non è stata semplice. Willi Carlisle però si è distinto particolarmente con il suo country vario e carismatico.
    Mi ritorni in mente, ep. 88
  • Earworm of the Year: The Coyote & The Cowboy
    Non volevo lasciare fuori il buon Colter Wall da questa lista e dopotutto questa canzone, una cover di Ian Tyson, è così riuscita ed orecchiabile che mi è entrata subito in testa.
    Si deve riempire il grande vuoto con piccole canzoni
  • Best Extended Play: Forever Means
    Angel Olsen non delude mai anche quando si limita a proporre una manciata di canzoni. Ormai questa cantautrice è una garanzia e anche in questa occasione si dimostra una delle migliori del suo genere.
  • Honourable Mention: Jamie Wyatt
    Questo suo nuovo album intitolato Feel Good è un deciso passo in avanti e un cambio di rotta davvero sorprendente e non poteva mancare in questa lista di fine anno.
    Non abbiamo bisogno di morire senza ricordi

Alla fine, niente ha importanza, figliolo

Sei anni. Tanto si è fatto attendere il cantautore americano Jeffrey Martin. Sei anni nei quali ho consumato il suo album One Go Around e ascoltato e riascoltato il precedente Dogs In The Daylight, aggiungendoci anche l’EP Build A Home. Finalmente è arrivato il momento di ascoltare undici nuove canzoni raccolte sotto il titolo di Thank God We Left The Garden, il quarto della sua carriera. Undici tracce registrate in un piccolo capanno con due microfoni, con l’idea di farne delle demo da portare in studio ma che poi sono finite direttamente nell’album. Voce e chitarra (e il contributo di Jon Neufeld) sono più che sufficienti a Martin per regalarci ancora delle canzoni straordinarie.

Jeffrey Martin
Jeffrey Martin

Lost Dog apre l’album e ci propone un Martin notturno e triste, dalle sonorità vicine agli esordi. Proseguendo poi con Garden si può scoprire quali nuove melodie ci riserva. Un testo personale, pervaso da sentimenti più positivi e di speranza. Tutta la forza della scrittura di Martin emerge nella splendida Quiet Man. Un susseguirsi di riflessioni e immagini di vita che scavano a fondo dell’animo con la consueta onestà. Red Station Wagon affronta, in maniera chiara e sincera, il tema del pregiudizio nei confronti dell’omosessualità, non facendo la morale ma, anzi, ammettendo di essere stato lui stesso colpevole e esprimendo così un sincero pentimento. Da ascoltare. Paper Crown è una di quelle canzoni di Martin che ti fanno drizzare le orecchie. Una riflessione sul nostro tempo, spesso pieno di cose vuote e superficiali, fatte per nascondere altro. There Is A Treasure ci mette di fronte alla fragilità della vita in un mondo che va avanti lo stesso, qualsiasi cosa succeda. Anche se può sembrare una canzone triste e rassegnata, c’è un sentimento di speranza che la pervade, un sentimento che corre lungo tutte le tracce di questo album. La successiva All My Love ci fa ascoltare la poesia della penna di questo cantautore, capace di regalarci anche un gioiellino come Daylight. Ma Martin ha ancora in serbo tre ottime canzoni, cominciando da I Didn’t Know. Una canzone molto personale fatta di commoventi e toccanti ricordi d’infanzia. Segue Sculptor, uno dei momenti più alti dell’album, che con il suo susseguirsi di immagini ci restituisce qualcosa su cui riflettere, grazie al talento di questo cantautore. Si chiude con Walking, altra meraviglia, un affresco di un mondo che va sempre avanti e nel quale è importante trovare un momento per sé per guardarsi intorno.

Thank God We Left The Garden è Jeffrey Martin nella sua forma più intima ed essenziale. La sua voce e le sue parole sono l’essenza stessa delle sue canzoni e la sua scelta di tenere buone queste registrazioni dimostra quanto non sia necessario aggiungere altro a queste undici tracce. Martin non perde la lucidità della sua visione del mondo, riesce sempre ad andare oltre le apparenze e a trovare la chiave per esprimere qualcosa che va al di là delle parole, sempre con onestà e sincerità. In questa occasione riesce a farlo senza restare sopraffatto dalla malinconia, rimanendo aggrappato a quel filo di speranza e riscatto che la raggiunta maturità artistica gli suggerisce di tenere ben saldo. In definitiva Thank God We Left The Garden è un ottimo album che soddisfa appieno ogni aspettativa e ci dà riprova di tutto il talento di Jeffrey Martin.

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Non ho mai saputo niente dell’amore

Nel 2020 mi incuriosì, dopo aver letto diverse recesioni positive, l’album The Things We Don’t Know Yet della cantautrice danese Ida Wenøe. Ricordo che lo trovai di mio gusto ma per qualche motivo non riportai tra queste pagine le mie impressioni di allora. Ascoltai l’album subito prima che scoppiasse la pandemia e, travolto dagli eventi, finì presto per essere dimenticato. Per la verità il nome di Ida Wenøe non lo dimenticai del tutto. Infatti non è passato inosservato il suo nuovo Undersea che, devo ammettere, ero molto indeciso se ascoltare o meno. Ma io sono sempre per dare una seconda possibilità e anche questa volta non ho fatto eccezione. Ho fatto bene.

Ida Wenøe
Ida Wenøe

La traccia di apertura, Not Here, ci cattura subito con le note di una chitarra e la voce cristallina della Wenøe. Il suo è folk contemporaneo dalle influenze alternative e noir, come possiamo sentire nella bella ed essenziale Don´t You Grow Weary, nella poetica Shapeshifting o nella delicata Curtains. Le origini nordiche della Wenøe sono un altro aspetto che influenza inevitabilmente la sua musica, come succede nell’oscura Pretend e nella leggera With The Wind. Atmosfere malinconiche prendono forma grazie ad un’attenzione particolare alla melodia e ai dettagli. Halfway Nowhere e Walking Mantra ne sono degli esempi. Tra le mie preferite in assoluto ci sono la cupa Mourning Time e la straordinaria e affascinante The Lighthouse / Bay of Woe.

Con Undersea riscopro Ida Wenøe nella sua forma più folk ed essenziale. Un album che mi ha sorpreso per la sua spontaneità, che emerge soprattutto grazie alla cura nei dettagli, apprezzabili ascolto dopo ascolto. Un album fatto di emozioni diverse ma percorso da un’ispirazione comune di grande forza e chiarezza. Undersea si candida ad essere una delle sorprese di questo anno che sta per finire. Il consiglio di non buttare via niente va bene anche quando si tratta di musica. Anche un nome già conosciuto può rivelarsi una piacevole novità, come in questo caso.

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La neve dei tempi andati

Tra gli album di debutto di quest’anno mi ero segnato sul calendario uscita di Snows of Yesteryear, omonimo del trio di stanza a Glasgow, composto da Kat Orr (piano e voce), David Mitchell (chitarra) e Yuuka Yamada-Garner (violino). Questo album mi aveva subito incuriosito sia per la voce cristallina, sia per le sonorità folk molto interessanti che si potevano sentire nei singoli pubblicato. L’album è uscito lo scorso agosto e fin dal primo ascolto ho capito che stavo ascoltando un album più sorprendente di quello che mi aspettassi inizialmente.

Snows of Yesteryear
Snows of Yesteryear

Il singolo Wait By The Shore ci introduce al sound di questo trio folk, che mescola la purezza delle sonorità tradizionali con elementi indie di grande effetto. Un esempio di questo perfetto equilibrio lo possiamo sentire in canzoni come Something Shatters che introduce una lieve venatura rock, molto più marcata nella bella Deer Across My Path. La voce della Orr ben si adatta ad ogni sfumatura che il trio sa offrire. La sua voce è centrale nella splendida Counting Stars o nella melodiosa Miles Away. Le sonorità della tradizione scozzese abbracciano tutto l’album anche grazie alle immancabili note del violino della Yamada-Garner che si prendono la scena in modo particolare nel valzer di Danny’s Waltz. Non manca delle ballate davvero ben riuscite e orecchiabili come Love is Like a Snare o la malinconica Bubbles Burst. Più alternativa e moderna l’affascinante Last Thing You Remember. Chiude l’album Rest and Be Thankful una poetica ballata dal gusto folk rock che ancora una volta colpisce nel segno.

Snows of Yesteryear è un album che non si può considerare un semplice debutto ma piuttosto un nuovo inizio per un trio di artisti ben consci dei loro mezzi. Dieci canzoni che richiamano le sonorità di un panorama folk ampio e vario ma saldo nel voler rimanere legato all’immaginario del folk scozzese. Gli Snows of Yesteryear dimostrano ci saper fare folk sotto ogni punto di vista, lasciando spazio a ciascuno dei tre componenti, oltre che affidare tutto alla voce pulita e carismatica di Kat Orr. In conclusione, Snows of Yesteryear, è probabilmente l’album di debutto che più ha sorpreso e deliziato quest’anno, un gioiellino nascosto che invito tutti a scoprire.

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Non mi lascerai entrare con questo tempo

Esattamente dieci anni fa debuttavano con l’EP The Weight Of The Globe, seguito dall’album omonimo del duo, le sorelle Jurkiewicz, note con il nome Lily & Madeleine. Questo mese hanno pubblicato il loro quinto album, Nite Swim, a distanza di quattro anni dal precedente. Le sonorità folk degli esordi sono ormai un ricordo e il loro posto è stato preso da un indie pop etereo e disteso. I singoli che hanno anticipato questo disco confermano la scelta di proseguire per la strada intrapresa ma gli anni passano e, ascolto dopo ascolto, Nite Swim, rivela un cambiamento, a tratti impercettibile, ma presente.

Lily & Madeleine
Lily & Madeleine

Canzoni come Windowless Bedroom e Rolling Rock lasciano intendere che c’è continuità con il precedente album Canterbury Girls, a partire dal tratto più caratteristico, ovvero l’armonia della due voci. La title track Nite Swim si affida ad un’essenziale indie pop nel tipico stile del duo, con l’aggiunta di distorsioni a contrasto. Un po’ di rock lo si ritrova anche successivamente e in maniera più marcata in Good Things e nella poetica Embers. La conclusiva Lost Boys mescola pop e rock, addolcito dalla voce morbida della sorelle. Nonostante tutto però, il folk prova a riemergere nella bella Ocean Ave e sottotraccia anche nell’affascinante Decaying Rules. L’elettronica non manca e si fa sentire in Part Of Me o nella sfuggente Cologne.

Nite Swim ci offre la possibilità di ascoltare Lily & Madeleine in una varietà di forme più ampia di quanto sia stato possibile finora ma non è questo a rendere l’album diverso dai precedenti. C’è un cambiamento più profondo ed inevitabile. Queste due ragazze appaiono artisticamente più mature, consapevoli e coraggiose, intenzionate a lasciarsi alla spalle l’immagine di giovani promesse. Sì, Nite Swim è l’ennesimo passo in avanti per le sorelle Jurkiewicz, un passo verso un’identità sempre più definita, che in questa occasione, come mai prima, riparte anche dagli esordi, abbracciando un processo di crescita inesorabile che le vede sempre più padrone del loro destino.

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Lascia che i segreti entrino dalla porta

Era il 2012 quando ascoltai per la prima volta la musica di Rachel Sermanni e il suo album di debutto Under Mountains. Ebbene sì, questa cantautrice scozzese può vantare una carriera ormai ultra-decennale, scandita da quattro album, tra cui il nuovo Dreamer Awake. Questo album vede la luce a distanza di quattro anni dal precedente So It Turns, seguito poi dai due EP, Swallow Me e Every Swimming Pool Runs To The Sea. Anche se nel corso degli anni lo stile della Sermanni è cambiato, ciò che è rimasto lo stesso è lo spirito poetico e delicato che da sempre la caratterizza. Eppure con questo nuovo album sembra voler provare ad accarezzare le sonorità più acerbe degli inizi.

Rachel Sermanni
Rachel Sermanni

Dreamer, che apre l’album, è una canzone delle caratteristiche tipiche del folk della Sermanni. Tinte scure e voce morbida sono da sempre parte della sua musica e le ritroviamo anche in Big Desire. Se si vuole ascoltare la parte più intimistica e fragile della Sermanni si devono ascoltare canzoni come la luminosa Choosing Me o l’essenziale Death Mermaids. Qui si coglie tutta la purezza della voce dei quest’artista, capace di rievocare le sonorità dell’esordio, quel indie folk delicato e sognante. Lo si può ascoltare ancora più chiaramente nella splendida Grace Of Autumn Gold, oppure nella scarna True Love Lets Go. La dolce e poetica In Her Place, ispirata dalla maternità, ci fa ammirare l’abilità della penna della Sermanni. Non è da meno la conclusiva Liminal o l’evanescente Killer Line. Il singolo Jacob ben racchiude l’anima di questa raccolta di canzoni.

Dreamer Awake ci offre la possibilità di ascoltare una Rachel Sermanni nel pieno della sua forma, dove le sue prime sonorità si incontrano con quelle più recenti. Il risultato è poetico ed evocativo ma allo stesso tempo forte e sicuro. Ogni canzone è un gentile approccio alla vita, un delicato tentativo di racchiudere un sentimento, anche il più piccolo e sfuggente. Dreamer Awake è un album semplicemente perfetto e ben bilanciato, fatto con il cuore, quasi un regalo a chi ascolta. Rachel Sermanni sembra aver trovato la giusta quadra, grazie ad una maturità artistica acquisita sul campo. Grazie Rachel.

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Non mancano mai le donne con gli stivali

Queste ultime settimane sono state davvero ricche di nuove uscite e paradossalmente ho avuto meno tempo da dedicare loro. Spero nelle ferie estive nelle quali recuperare le mie mancanze. In qualche modo però la musica trova sempre spazio nella mia giornata e il nuovo album della cantautrice texana Jess Williamson è riuscito a ritagliarsi il suo spazio. S’intitola Time Ain’t Accidental e si tratta del suo quinto album, il secondo che ho avuto il piacere di ascoltare e riportare qui sul blog e il primo dopo l’esperienza con Katie Crutchfield e il loro progetto Plains, che ha esordito lo scorso anno.

Jess Williamson
Jess Williamson

L’album si apre con la title track Time Ain’t Accidental che, senza sorprese, riprende le sonorità del duo Plains. Una scelta più che azzeccata che si ripete in canzoni come la bella God In Everything, orecchiabile e ben scritta, e nella conclusiva Roads, una canzone di speranza e rinascita. Anche Something’s In the Way si potrebbe inserire nel gruppo, grazie all’accompagnamento vario ed originale. Il singolo Hunter punta su eteree sonorità pop per raccontare la voglia di riabbracciare le cose reali dopo gli anni difficili della pandemia. Chasing Spirits è una canzone riflessiva e persona, una canzone sulle canzoni d’amore nella quale brilla tutto il talento della Williamson. Non manca una ballata di grande impatto e porta il titolo di Stampede. Un impossibile amore a distanza è l’ispirazione per una canzone che viaggia sulle note di un pianoforte. A Few Season, scritta per un amore finito, non si allontana da quelle atmosfere, aggiungendo però una buona dose di tristezza. Ancora l’amore, questa volta non ricambiato, è protagonista nell’essenziale e fragile I’d Come To Your Call. Completano l’album la coppia di brani intitolati Tobacco Two Step e Topanga Two Step due canzoni notturne e malinconiche, una più folk e l’altra di ispirazione più pop.

Time Ain’t Accidental è un album che ci presenta una Jess Williamson ispirata e meno inaccessibile che in passato. Buona parte di queste canzoni sono orecchiabile ma mai banali, capaci di farci cogliere con facilità il messaggio che ognuna di esse porta con sé. Difficile inquadrare lo stile o il genere della musica di quest’artista che abbraccia tutte le sfumature dell’americana e del country alternativo, senza disdegnare influenze indie rock. Time Ain’t Accidental segna dunque un punto importante della carriera della Williamson che prende confidenza con le proprie capacità di autrice ed interprete, dando alla luce l’album che potrebbe dare il via ad una carriera ricca di soddisfazioni, meno in ombra di quanto lo sia stata finora.

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Meglio tardi che mai, ep. 4

In questo mese di maggio ho lasciato da parte il blog qualche settimana di troppo nonostante qualche nuova uscita musicale interessante. Cercherò di rimediare nelle prossime settimane e intanto concedetemi di raccogliere in un unico post gli album che ho ascoltato e che meritano comunque una citazione tra queste pagine. Non vorrei affidarmi a questa forma di post spesso ma dopotutto dall’ultimo “episodio” è passato un mese. Ah, come passa il tempo!


Avrei voluto scrivere una recensione per il nuovo album di Lael Neale ma poi le cose sono andate diversamente. Il nuovo Stars Eater Delight segue lo sperimentale Acquainted With Night del 2015. Allora il cambio di sonorità fu piuttosto drastico, molto distante dalle atmosfere indie folk dell’esordio. In quest’ultima occasione invece la Neale torna sui suoi passi facendo però tesoro delle sperimentazioni precedenti. Il risultato è un album meno frammentario e più accattivante anche se non facilmente accessibile. Insomma, Stars Eater Delight mi piace più del suo precedessore che ammetto essere finito nel dimenticatoio.


The Sun era destinato ad una suo post dedicato, anche solo per il fatto che le sorelle Closner, Allison, Meegan, e Natalie le seguo dal 2014, anno del loro debutto sotto il nome di Joseph. Il loro pop è una fuga dai soliti generi musicali che ascolto e il precedente Good Luck, Kid ha segnato un passo in avanti molto deciso, soprattutto in termini di produzione. Questo The Sun di fatto prosegue per la stessa strada senza aggiungere nulla di più. La musica dello Joseph resta piacevole da ascoltare ed è carica di energia (forse troppa) e sentimento. A chi piace il pop fatto di inni esplosivi e vitali, qui troverà pane per i suoi denti.


Chiudo con due consigli folk, partendo da Wise As A Fool della cantautrice e arpista Georgie Buchanan. Il suo è un folk che prende spunto dalla tradizione inglese ma che, nelle sue mani, si trasforma in qualcosa di più alternativo ed etereo. Tra contaminazioni celtiche e magiche, questo album cattura fin dai primi ascolti. Ogni volta è come entrare in un mondo sconosciuto e misterioso. Otto brani che mi hanno sorpreso positivamente perché pensavo di ascoltare qualcosa di più tradizionale.


Ultimo ma non ultimo, l’esordio della cantautrice scozzese Beth Malcom, intiolato Kissed And Cried. Anche in questo caso ero pronto per ascoltare un altro ottimo album di canzoni tradizionali scozzesi e invece non è stato esattamente così. La Malcom abbraccia tutte le sfumature del folk, sconfinando a volte anche in sonorità vagamente jazz. Il tutto si poggia sulla voce calda e delicata di quest’artista, una voce con la quale può permettersi di fare qualsiasi cosa. Un album molto piacevole da ascoltare che spiazza per i suoi repentini cambi di rotta e la sua vitalità. Consigliato.

Non è rimasto niente per cui piangere

Quasi dieci anni fa ascoltavo per la prima volta la voce e la musica della cantautrice inglese Billie Marten. Da allora molto è cambiato intorno a noi ma le canzoni di questa artista sembrano rimaste sospese nel tempo. Album dopo album, Billie Marten, si è mossa sulla scena musicale con la sua consueta delicatezza e serenità proponendo sempre un folk genuino e sincero. Questa sua caratteristica è rimasta pressoché inalterata nel corso degli anni, arrivando fino ad oggi con l’album Drop Cherries, il quarto della sua carriera. A soli ventiquattro anni questa cantautrice ha saputo ritagliarsi il suo spazio all’interno del panorama indie folk, decisamente inflazionato negli ultimi anni, grazie al suo stile particolare e la coerenza che l’ha contraddistinta.

Billie-Marten
Billie-Marten

L’album si apre con la strumentale New Idea nella quale la voce della Marten è uno strumento aggiunto. Ritroviamo il canto e le parole nella bella God Above, una luminosa poesia folk arricchitta da archi e fiati. La successiva Just Us riporta a sonorità più consuete per quest’artista che ritroviamo poi anche in I Can’t Get My Head Around You, una canzone che parla d’amore con un piglio pop. Willow è un altro esempio della poetica della Marten, fatta di immagini famigliari e malinconiche. Acid Tooth rallenta ancora di più e ci fa apprezzare una Billie ancora più riflessiva, caratteristica che ritroviamo poi in Devil Swim in maniera più intima e sognante. I Bend To Him è un canzone scarna ed essenziale che si poggia quasi esclusivamente sulla fragile voce della cantautrice. Le sonorità luminose si possono tornare a sentire in Nothing But Mine per continuare in maniera più dolce e delicata in Arrows. Bille Marten non accelera e non rallenta mai, continua costante con il suo passo arrivando alla bella Tongue che si apre con le note di un pianoforte. Poesia e archi danno forma ad un piccolo gioiellino di semplicità e naturalezza. Il singolo This Is How We Move è tutto quello che ci si aspetta da questa cantautrice che chiude poi l’album con la title track, Drop Cherries. Una gentile riflessione sulla vita e sull’amore.

Drop Cherries è un album essenziale come i precedenti, che fa leva sui sentimenti e sulle nostre fragilità piuttosto che sulle melodie orecchiabili e ricchi accompagnamenti. Billie Marten ci offre così ben tredici brani, ognuno di essi non vive di vita propria, non c’è uno singolo che spicca sugli altri, tutti sono immersi in un’atmosfera distesa e malinconica. Non c’è tristezza ma la perenne ricerca di un equilibrio, di una pace interiore che nasce dalle piccole cose. Drop Cherries dimostra la costanza di Billie Marten nel proseguire per la sua strada, ricalcando all’infinito le sue sonorità ma trovando sempre ispirazione nella fasi della sua vita. Ascoltando quest’artista ci si ritrova sempre in uno stato di placida ammirazione per il suo genuino talento.

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