La neve dei tempi andati

Tra gli album di debutto di quest’anno mi ero segnato sul calendario uscita di Snows of Yesteryear, omonimo del trio di stanza a Glasgow, composto da Kat Orr (piano e voce), David Mitchell (chitarra) e Yuuka Yamada-Garner (violino). Questo album mi aveva subito incuriosito sia per la voce cristallina, sia per le sonorità folk molto interessanti che si potevano sentire nei singoli pubblicato. L’album è uscito lo scorso agosto e fin dal primo ascolto ho capito che stavo ascoltando un album più sorprendente di quello che mi aspettassi inizialmente.

Snows of Yesteryear
Snows of Yesteryear

Il singolo Wait By The Shore ci introduce al sound di questo trio folk, che mescola la purezza delle sonorità tradizionali con elementi indie di grande effetto. Un esempio di questo perfetto equilibrio lo possiamo sentire in canzoni come Something Shatters che introduce una lieve venatura rock, molto più marcata nella bella Deer Across My Path. La voce della Orr ben si adatta ad ogni sfumatura che il trio sa offrire. La sua voce è centrale nella splendida Counting Stars o nella melodiosa Miles Away. Le sonorità della tradizione scozzese abbracciano tutto l’album anche grazie alle immancabili note del violino della Yamada-Garner che si prendono la scena in modo particolare nel valzer di Danny’s Waltz. Non manca delle ballate davvero ben riuscite e orecchiabili come Love is Like a Snare o la malinconica Bubbles Burst. Più alternativa e moderna l’affascinante Last Thing You Remember. Chiude l’album Rest and Be Thankful una poetica ballata dal gusto folk rock che ancora una volta colpisce nel segno.

Snows of Yesteryear è un album che non si può considerare un semplice debutto ma piuttosto un nuovo inizio per un trio di artisti ben consci dei loro mezzi. Dieci canzoni che richiamano le sonorità di un panorama folk ampio e vario ma saldo nel voler rimanere legato all’immaginario del folk scozzese. Gli Snows of Yesteryear dimostrano ci saper fare folk sotto ogni punto di vista, lasciando spazio a ciascuno dei tre componenti, oltre che affidare tutto alla voce pulita e carismatica di Kat Orr. In conclusione, Snows of Yesteryear, è probabilmente l’album di debutto che più ha sorpreso e deliziato quest’anno, un gioiellino nascosto che invito tutti a scoprire.

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Mi ritorni in mente, ep. 89

Circa un anno fa è uscito l’album New Moon del gruppo folk scozzese Hò-rò ma solo di recente ho avuto il piacere di ascoltarlo. Questo terzo album è una raccolta di brani strumentali e canzoni, anche in lingua gaelica, nelle quali si alternano le voci di Hannah Macrae (violino) e Calum MacPhail (fisarmonica) accompagnati dai musicisti Sean Cousins (chitarra), Paul Martin (tastiere, chitarra elettrica), Ally MacLean (cornamusa), Calum MacQuarrie (basso) e David Calum Macmillan (batteria).

Il folk di Hò-rò è potente e moderno ma capace di conservare tutta le bellezza delle composizioni tradizionali. Brani strumentali come Spot On e Kaylins, ad esempio, dimostrano l’approccio fresco ed energico di questa band. Non mancano le ballate in gaelico, Oran an Amadain Bhoidhich e Beinn a Cheathaich, oppure la bella Follow The Heron e questa Isle Of Eigg, una delle mie preferite dell’album. Vi invito ad ascoltarla perché è davvero una bella canzone. New Moon ne è pieno, per la verità, ed è un peccato averlo scoperto solo adesso, perché sarebbe finito dritto tra i migliori dello scorso anno.

L’inverno non viene mai meno al suo dovere

Cosa può nascere da un gruppo di amici che mette in piedi una band nella quale ognuno porta le proprie esperienze ed influenze? Una risposta potrebbe darcela un “supergruppo” formato da artisti esperti che attraversano Regno Unito. Il suo nome è The Magpie Arc. Personalmente sono venuto a conoscenza di questa band grazie a nomi a me noti, come Nancy Kerr e Findlay Napier. Insieme a loro ci sono Martin Simpson, Tom A Wright e Alex Hunter. Il loro primo album Glamour In The Grey sancisce definitamente l’inizio di un’avventura nata per puro piacere di fare musica insieme, dopo tre EP e registrazioni live. Ero sinceramente curioso di scoprire questo gruppo e così mi sono divorato tutti e tre gli EP (fortunatamente pubblicati poi in un unico pacchetto) e questo album di debutto. Oggi mi limiterò a consigliarvi l’album perché merita davvero un post dedicato su questo blog prima che l’anno volga al termine.

The Magpie Arc
The Magpie Arc

Si comincia subito alla grande con All I Planted, che mescola un folk rock trascinante alla voce inconfondibile della Kerr. Un inizio che cattura subito per le sue sonorità anni ’70 e l’energia messa in gioco. Non è da meno la successiva Don’t Leave The Door Open che è nelle mani sapienti di Napier che dà vita ad un power pop orecchiabile. Spazio alle chitarre che ci ricordano i tempi d’oro del rock inglese. C’è posto anche per la tradizione americana con Pans Of Biscuits. Questa volta è il turno di Simpson al microfono che ci regala un’interpretazione potente e di mestiere, che rimane fedele alle sonorità folk, sostenute però dalla vitalità del rock. Wassail è un salto indietro nel tempo dove psych rock e folk si incontrano in una turbolenta unione. Nancy Kerr guida le danze, aggiungendo fascino e mistero ad un tripudio di chitarre. Tough As Teddy Gardner prende in prestito molto dal rock anni ’70 ed è forse il brano nel quale si percepisce ancora più forte la volontà di questo gruppo di divertirsi e provare ad uscire dagli schemi. Dopo questa abbuffata rock, spazio al folk con Long Gone che racchiude però al suo interno un’anima prog. Un brano che fa da sponda al successivo The Gay Goshawk che rivede la Kerr in sella. Una canzone tradizionale proposta però nello stile che caratterizza la band e questo album. Con I Ain’t Going Nowhere ci si sposta in territori country finora inesplorati dai Magpie Arc che non vogliono porsi limiti, dimostrando così tutto il loro amore per la musica. Segue Jack Frost, una cover dell’originale di Mike Waterson. Una versione più ricca e potente che amplifica il fascino e il mistero dell’originale. The Cutty Wren chiude il cerchio e torna su un vibrante folk rock affidato alla voce della Kerr. Anche questa è una canzone tradizionale ma nelle mani dei Magpie Arc tutto assume una nuova forma.

Glamour In The Grey è un album estremante vario e altrettanto sorprendente. Rock e folk si mescolano, prevalendo a volte uno sull’altro ma restituendo nell’insieme un disco coerente, nato da un’idea comune molto chiara. Ogni canzone trasmette la passione di fare musica, di unire stili ed influenze diverse per fa nascere qualcosa di unico che allo stesso tempo richiama sonorità del passato. The Magpie Arc non è un supergruppo nato con un preciso scopo o con per ragioni commerciali. Per questo motivo è un esperimento perfettamente riuscito, un unione di forze che hanno portato a questo Glamour In The Grey. Ho scelto di farvi ascoltare All I Planted semplicemente a titolo esemplificativo ma ogni canzone merita un ascolto. Tutto l’album merita un ascolto. Non c’è modo migliore per chiudere questo anno, con una sorpresa come questa.

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Lascia che il vento ti riporti a casa

L’avventura delle First Aid Kit è iniziata nel 2008 quando le sorelle svedesi Johanna e Klara Söderberg hanno esordito con l’EP Drunken Trees. All’epoca la più giovane, Klara, aveva solo quindici anni. Nel 2012 è arrivata la consacrazione definitiva con The Lion’s Roar che ha permesso alle due ragazze di arrivare al loro quinto album di studio, Palomino, uscito all’inizio di questo mese. Le First Aid Kit sono note per la loro musica fortemente ispirata al folk americano ma negli anni hanno saputo trovare nuovi spunti, lasciandosi influenzare dal pop e dal rock. Per me questa coppia di artiste è una garanzia, ogni loro album è un acquisto a scatola chiusa. Questo non fa eccezione, fatto salvo che non ho resistito ad ascoltare i suoi singoli.

First Aid Kit
First Aid Kit

Out Of My Head apre l’album con la voce unica di Klara e ci riporta alla luminose e vitali melodie di Stay Gold. La scelta di aprire con una canzone che spazza il buio del suo predecessore non è casuale, “Stuck inside my dreaming / Falling behind / Running on low / Does it matter now? / Let me out, out of my mind / Out of my head, ooh, ooh, ooh / Out of my head, out of my mind“. L’amore, anche se non ricambiato, è l’ispirazione per Angel, un brano folk rock che esplode in un ritornello orecchiabile e liberatorio. C’è un’energia in questa canzone che dimostra tutta la voglia di tornare a fare musica con gioia, “All of this pain that I’ve kept concealed / Thought if I didn’t speak it, it wouldn’t be real / But sometimes, sometimes I feel I have to shout / At the top of my lungs and just let it out“. La successiva Ready To Run riprende le sonorità più vintage alle quali queste sorelle sono più affezionate e ci riporta ai loro brani migliori. L’atmosfera di questo brano è ancora coma di gioia e buoni sentimenti, “Did I disappoint you? / I’m pretty sure I did / You thought I was some kind of rock star / I was a nervous little kid / And I assumed you were someone I could lean myself upon / But with the blink of an eye, you were out the door, gone“. Turning Onto You è una ballata dalle stile americana che si affida alla voce di Klara per regalarci una canzone nostalgica. Inutile sottolineare l’affiatamento delle due sorelle, “Cause you got me hanging on / Like the words to my favorite song / Let the night turn into dawn / I’ll be turning onto you / Oh as time’s moving on / I’m asking you don’t keep me waiting too long“. Il basso guida le voci dolci di Klara e Johanna in Fallen Snow. Una canzone essenziale e ben equilibrata. Orecchiabile e con un ritmo irresistibile. Cosa chiedere di più? “When you think that I’m not watching / I can see a bleakness in your smile / I know all the depths you’ve gone to / To lift the sorrow from your eyes / Oh, was it worth your while?“. C’è ancora tanta nostalgia in Wild Horses II. Un viaggio fa da sfondo a questo brano, lento e accompagnato dalla musica di Gram Parsons e dei Rolling Stones, “We passed a canyon / We passed a fire brigade / Headed up the mountains / They set the woods ablaze and then we got hungry / Stopped at a diner / You flirted with the waitress / And I didn’t even care“. The Last One è una potente canzone d’amore che brilla luminosa, una canzone a due voci con un ritornello perfetto come sempre. Le First Aid Kit hanno ancora un tocco magico come il primo giorno, “When did I become a woman / Who waits, fevered, for a call? / I need a word from you, a touch, a feeling / Oh so desperate to feel anything at all“. Nobody Knows è una canzone elegante e misteriosa, accompagnata dal suono degli archi. L’esperimento di uscire dalla loro comfort zone è pienamente riuscito e non possiamo che goderci il risultato, “Caught in the rain with no protection / Biding my time with no sense of direction / That look in your eyes keeps getting stranger / Caught in the rain, helpless without you“. Segue A Feeling That Never Came è più in linea con lo stile classico delle First Aid Kit. La voce di Klara tratteggia una melodia sempre più ricca e irresistibile. Ancora una canzone solare e dolce che spazza via i cattivi pensieri, “It’s funny how it happened / How fast your world can change / It’s funny how you tricked me / And how you keep fooling yourself / It’s funny how I believed you then / When you said we all try our best / I loved you, I did, but I’ve put that notion to rest“. A seguire una ballata intitolata 29 Palms Highway. Le sonorità anni ’70 di cui sono innamorate queste due ragazze si fanno risentire anche qui, “I hold my arms out to you / I hold my arms out to you / I’m ready to listen / Are you coming through? / I hold my arms out / 29 Palms Highway / Stretches out in the desert sand“. Chiude l’album la title track Palomino. Una delle mie preferite di questo album. Il sound del southern rock si addolcisce con le voci angeliche delle sorelle. Il ritmo, la melodia e il ritornello orecchiabile creano qualcosa di meraviglioso. Da ascoltare, “Where you go my love goes, darling / I can hear the unknown road calling / So let the winds carry you home, my darling / For where I go your love goes, darling“.

Palomino segna un ritorno delle First Aid Kit che dimostrano di essere in grande forma e di aver trovato un sound più personale e maturo. Smessi i panni da ragazze, ore le sorelle Söderberg iniziano una nuova carriera come donne, più consapevoli del loro talento e di ciò che la loro arte può fare. Questo album chiude le porte alla malinconia del precedente Ruins e apre a nuove melodie, più luminose e leggere. Gli anni passano ma le First Aid Kit continuano il loro percorso artistico rimanendo sempre riconoscibili, regalandoci quel dolce mix di folk, pop e rock che però lascia intatta un’anima sincera. Palomino si candida come uno degli album più belli di questo anno che sta per finire, nonché uno dei ritorni più graditi ed attesi. Brave ragazze, anche questa volta avete fatto centro.

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Il proiettile d’argento

Cosa aspettarsi da un’artista che ha vinto un Grammy al suo sesto album in carriera? La domanda mi è sorta spontanea all’annuncio di In These Silent Days, settimo album della cantautrice americana Brandi Carlile, uscito all’inizio di questo mese. Perché non è affatto strano pensare che un riconoscimento così importante possa dare alla testa e provocare un deragliamento dai binari che l’avevano guidata lungo una carriera ineccepibile per qualità. Successo che l’ha portata a pubblicare il suo primo libro intitolato Broken Horses: A Memoir, che ripercorre la sua carriera ultra decennale. Ma poi mi sono reso conto che l’artista in questione era Brandi Carlile e come potevo pensare queste cose di lei? Non restava che scoprire In These Silent Days.

Brandi Carlile
Brandi Carlile

Right On Time è la ballata che apre l’album e sembra un abbraccio di benvenuto. La Carlile ci rassicura con le sue parole e con la sua voce unica. Niente sorprese, è sempre lei, “Don’t look down / I can feel it when your heart starts pounding / It’s beyond your control, you know it is / It’s getting to the point where I can’t carry on / I never held my breath for quite this long / And I don’t take it back, I did what I had to do“. La successiva You And Me On The Rock potete piazzarla in qualsiasi altro album di questa artista. Le parole scorrono via veloci su una melodia country folk orecchiabile, creando una sensazione di affetto e appartenenza, “I built paper planes when I learned to fly / Like a 747 fallin’ out of the sky / I folded ‘em crooked and now I’m wonderin’ why / I could always end up in the water / But nobody’s askin’ why she lookin’ so thin / Why she’s laughin’ too hard, why she drinkin’ again / A falling star, she’s a paper plane / And she was goin’ down when you caught her“. This Time Tomorrow vuole dare conforto per quando arriverà il momento in cui ci dovremo separare dalle persone che amiamo. Brandi Carlile lo fa con la sua consueta sensibilità ed onestà, “But our holy dreams of yesterday aren’t gone / They still haunt us like the ghosts of Babylon / And the breaking of the day might bring you sorrow / You know I may not be around this time tomorrow / But I’ll always be with you / I’ll always be with you“. Broken Horses è un veloce country rock nel quale sfodera la sua voce più graffiante. Si tratta del brano più lungo dell’album, la sua colonna portante, “Tethered in wide open spaces / And fields that lead for miles / Right into the barrel of a gun / Mendin’ up your fences with my / Horses runnin’ wild / Only broken horses know to run“. Letter To The Past è un’altra meravigliosa ballata che solo quest’artista riesce a tirare fuori. Una canzone dedicata alla figlia, nella quale rivede sé stessa nel passato, la sua testardaggine. Una canzone affettuosa e commovente, “You’re a stone wall / In a world full of rubber bands / You’re a pillar of belief / Still bitin’ your shakin’ hands / Folks are gonna lean on you / And leave when the cracks appear / But, darlin’, I’ll be here / I’ll be the last / You’re my letter to the past“. Mama Werewolf crea l’immagine di una mamma che ogni tanto perde il controllo di sé ma sua figlia ha la pallottola d’argento per riportarla alla ragione. Un’altra bella canzone, dolce e carica di vita, “If my good intentions go runnin’ wild / If I cause you pain, my own sweet child / Won’t you promise me you’ll be the one? / My silver bullet in the gun / Would you strike me down right where I stand? / Would you change me back, make me kind again? / Won’t you promise me you’ll be the one? / My silver bullet in the gun“. Segue When You’re Wrong che è una canzone malinconica ma anche rassicurante. Commettere degli errori succede a tutti e ognuno merita di non essere abbandonato a sé stesso, “When the day is winding down, my heart abandons me for you / You forgot yourself so long ago and I wish I could too / But you live inside a quiet hell no one can pray away / Leavin’ would be easy, I understand why you stay“. Stay Gentle è una meravigliosa ballata dallo stile classico e intramontabile. Dedicata ai suoi figli, vuole essere un’esortazione a non abbandonare l’innocenza della gioventù quando le cose si faranno più difficili, “Darling, stay wild if you can (If you can) / The girl with the world in her hands (In her hands) / The kingdom of Heaven belongs to a boy / While his worry belongs to a man“. Arriva anche il momento di una canzone dai toni epici come Sinners, Saints And Fools. Il racconto di un uomo timorato di Dio che però respinge chi chiede accoglienza come clandestino. Lo stesso destino sarà riservato a lui quando giungerà davanti alle porte del paradiso, “To the weary, desperate souls who washed up on the sand / He said, “We hadn’t seen your paperwork” and he withdrew his hand / You know he never felt any safer, all the peace he hoped he’d find / And up until the day he died, he never changed his mind“. Si chiude con una ballate lenta e carica di sentimenti dal titolo Throwing Good After Bad. Brandi Carlile dimostra ancora di non aver perso affatto il suo tocco magico, “And you’re fantasizin’ / You’re takin’ us for granted / I know you’re bored / You always say I’m heavy handed / You got a beautiful mind / And a soul of a coyote / Hunger drivin’ you mad / Throwin’ good after bad“.

La prima cosa che ci rivela questo In These Silent Days, è che il giorno in cui Brandi Carlile farà una brutta canzone è ancora molto lontano. Come ho potuto dubitare di questa cantautrice? Questo album non si prende rischi, anzi rassicura chi ascolta che nulla è cambiato, compreso l’indissolubile sodalizio con i gemelli Phil e Tim Hanseroth. A quarant’anni quest’artista ha molte cose da dire, da raccontare e lo fa con la consueta energia e smisurata sensibilità. Brandi Carlile è arrivata in quel momento della carriera nel quale non a più bisogno di dimostrare nulla a nessuno. Il successo di critica e pubblico del precedente album, non ha scalfito minimamente la sua umiltà di artista capace di creare sempre qualcosa di magico. E io che ho dubitato, perdonami Brandi.

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Diecimila rose in fiamme

Tra le prime novità discografiche arrivate dopo l’estate c’è stata l’uscita del quarto album della cantautrice americana Dori Freeman, dal titolo Ten Thousand Roses. Posso dire che quest’artista è tra le più rassicuranti della mia collezione, il suo country non è mai sopra le righe ed è sempre fatto di piccole semplici cose. Quando ho saputo della pubblicazione di questo album, non avevo dubbi riguardo a ciò che ci avrei trovato dentro. Dori Freeman ormai è una garanzia e non mi restava altro che scoprire quale altro gioiellino country ci avesse regalato.

Dori Freeman
Dori Freeman

Get You Off Of My Mind ci accoglie nel nuovo album con un suono pieno, accarezzato dalla voce dolce della Freeman che ritroviamo in splendida forma. Una canzone orecchiabile che amplifica il suo talento, “Tried to cleanse my mind of you, but you’re still swimming there / Do you find it comfortable, roaming through my head / Going through the catalogues of things we left unsaid”. Tra le mie preferite c’è The Storm, una bella canzone dedicata alle donne che hanno passato momenti difficili. Un bel ritornello che rassicura e dà una speranza, “When you gonna let him go / Listen to the rain and the rolling thunder / Honey don’t you know / That he’s waiting on the flood to pull you under / Don’t you let the storm win“. Almost Home è una canzone malinconica ma dolce che vuole evocare la nostalgia di casa. La voce della Freeman è supportata da un accompagnamento country dallo stile classico, “Left my home with a fiddle on my back / Buttoned up, put my pennies in a stack / Every night I remember what you said / While layin’ in our bed“. La successiva I Am vira verso un folk rock vivace che vuole dirci che a volte le apparenze ingannano. Le fragilità emergono al di là di ciò che sembriamo, “I ain’t a good girl, though everybody thinks I am / I gotta mind that’s dirty as the bottom of a coffee can / Untied, what a wide-eyed thing I am / I am, I am, I am“. Nobody Nothing si riprende le sonorità country e parla d’amore. Ma quello che va oltre la passione del momento. Dori Freeman illumina la canzone con la sua voce cristallina che sovrasta il suono delle chitarre, “Now don’t go trying to please anybody / Unless somebody is pleasing you too / This world is made up of troubles and wonders / They’ll spend forever competing for you“. Appalachian è una dichiarazione d’amore verso le proprie origini, le radici che affondano nella storia. Un’altra bella canzone, nello stile riconoscibile di questa artista, “They’ll try to wither you right down, tear you up from the red ground / If you’re poor then you’re stupid and blind / But I’d say a calloused hand / Is far better than a callous mind“. Walk Away è una ballata lenta, un classico a due in coppia con Logan Ledger. Una canzone romantica vecchia scuola che scalda i cuori, “I tried to tell you that I really loved you / And you walked away / Oh but lovers’ arms, wanna hold you most / Tight and close, just before they say / They’re gonna walk away“. La title track Ten Thousand Roses è un bel country folk luminoso e pieno di belle sensazioni. Si chiede una dimostrazione d’amore, un gesto che esprima qualcosa di grande, “If you can give me a wildflower field / Not a carnation in cellophane / Leave a pink daisy by my window sill / Stand by the glass and I’ll spell out your name“. Echi rock ci raccontano di un amore non corrisposto. Dori Freeman ci incanta come sempre con la voce, in un vivace rincorrersi di chitarre, “No I’m not coming back, you’re on your own / You always wanted to be all alone / So take my name and number off your phone / I won’t be dreaming of you”.L’album si chiude con una cover in chiave country di Only You Know, dall’originale cantata da Dion nel 1975. Una bel modo di finire questo bell’album, “And only you know where you have been to / Only you know what you have been through / There’s better things you’re gonna get into / And I wanna be there too“.

Con Ten Thousand Roses ci regala un’altra prova del suo talento di cantautrice. Il suo approccio sereno e la sua voce pulita nascondono conflitti interiori e un’amore per la vita che emergono attraverso canzoni brevi e semplici. Non c’è la volontà di stupire o di impressionare chi ascolta ma solo renderlo partecipe di un tentativo di condividere qualcosa di profondo ma sfuggente. Dori Freeman ci riesce sempre attraverso i dettagli, le sensazioni di tutti i giorni, la semplicità che la contraddistingue. Ten Thousand Roses è l’album più ricco musicalmente dei suoi, più vivace ma ugualmente riuscito e ben bilanciato. Tutto quello che mi aspettavo da questo album e da Dori Freeman c’è, quindi non posso chiedere altro.

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Il tempo è un grande guaritore

Lo scorso anno ho finalmente potuto ascoltare la musica di Josienne Clarke dopo che per anni era rimasta della mia wishlist. Il suo album In All Weather mi aveva piacevolmente sorpreso e non ho resistito a recuperare poi il suo debutto da solista One Light Is Gone. Quest’ultimo è uscito ad undici anni di distanza dal nuovo A Small Unknowable Thing. Cantautrice e poli-strumentista abile, Josienne Clarke è da anni sulla scena musicale ma non per questo si accontenta di rimanere nella sua comfort zone, finalmente libera dai desideri di una casa discografica e di produttori. Non sapevo cosa aspettarmi da questo nuovo album ma ero sicuro che avrei ritrovato la voce di quest’artista e ciò mi è stato sufficiente per precipitarmi appena possibile su questo disco.

Josienne Clarke
Josienne Clarke

Super Recogniser ci introduce in questa nuova avventura. Una dichiarazione di intenti che viaggia sulle note di una chitarra. La voce della Clarke si prende la scena e taglia l’aria con le parole, “Clarke isn’t being told what to do. / Trying to strike a chord / That you haven’t heard before / You’ll recognise it / You recognise it all“. Il suono distorto della chitarra in Like This apre alle nuove sonorità di questo album ma sembra continuare con il tema di apertura. La libertà di esprimersi attraverso la musica era limitata dagli altri. Non più ora e forse questa chitarra graffia proprio per liberarsi dal passato, “White noise for the ear / Valium to the brain / Same voice mumbling / Over and over / Over and over again / I’m sick and tired of being told it doesn’t stick / When you won’t sing it, / When you won’t sing like this“. Never Lie riprende invece il sound al quale la Clarke ci aveva abituati. Una voce venata di malinconia ma viva e vibrante, canta una riflessione sul peso della verità, “If you can only learn to let it lie / Then all the falling stays up in the sky / I never lie / The truth runs all through my inside / Just pretend you didn’t hear / Nothing good will ever disappear / I can never lie, dear / The truth is like a needle in my ear“. Forse la canzone più oscura dell’album è Chains. Tutti abbiamo delle catene nella vita, che ci trattengono da qualcosa e delle quali fatichiamo a liberarci. Josienne Clarke continua a colpire con la voce e le parole e c’è poco spazio all’interpretazione, “These, these are the chains we forge in life / And I’ve finally found a promise I can keep / But is it too late / Is it all laid to waste / Does it all run too deep ?“. La successiva If It’s Not continua sulla stessa lunghezza d’onda e nella sua breve durata riesce ad esprimere il sentimento di un amore come coronamento e senso della vita, “If it’s not a love I can use / What is it for, what is it for? / If it’s not a dream that I’m in / It’s really no good to me“. Cambio deciso di marcia con Sit Out che svolta verso un sound più rock. Una canzone carica di risentimento che corre sulla voce pulita della Clarke, “I’ve not heard a word of contrition / You don’t learn how to firm your position / All you stand for / Makes me want to sit out“. Sting My Heart è un’altra breve riflessione in musica. C’è una traccia di dolore nella voce e le parole sono pesate una ad una, “No I don’t have a shell / And why can’t you tell / Why don’t you care / Why isn’t it a thing / To sting my heart so badly“. Tra le canzoni che preferisco c’è The Collector. Ispirata dal romanzo di John Fowles, “Il collezionista”, è tessuta su una melodia leggera ed orecchiabile. Ma è solcata da un suono distorto e un senso di oppressione che la voce della Clarke trasmette attraverso le parole, “You’re the collector / You’ll keep me forever / A small unknowable thing / With you as preceptor / Cos you’re the collector / Who owns unownable things / By pinning their wings“. Tiny Bit Of Life riflette ancora sulla vita e sull’amore, su di un tappeto di suoni scorre leggera la voce. Una poesia carica di sentimento che prova tutto il talento di questa cantautrice, “I’m not being maudlin dear / It’s hard a thing to resign / Know all you wanted all at once / And lose it at the same time“. A Letter On A Page sembra continuare la riflessione sulla vita e il tempo intrapresa nel album precedente. La musica e l’arte si legano alla vita e di essa diventano espressione, “Love is like setting sun / Like a letter on a page / One will burn / The other slowly fades / So I love you like a setting sun / Like I’ll know no other day / All temporary truth / Sung upon a stage“. Ma le sonorità rock si riprendono la scena con Deep Cut, questa volta smorzate da un approccio folk. Un taglio netto con qualcosa che appartiene al passato, vecchie canzoni e antichi rancori. A volte arriva il momento di dire basta, “You’re nothing but a deep cut in my back catalogue / You’re nothing but wasted time / A rejected line / From a song I never sing anymore / I wish you whatever you want / But don’t come darkening my door“. Out Loud è un’altra canzone della quale è facile innamorarsi. Voce melodiosa e una chitarra sostengono parole di rivalsa e rinascita. Josienne Clarke non sbaglia e tutto funziona a meraviglia, “I married this guy / And I didn’t lie but I barely told a soul / Pretty cold / And the next guy I had, well I didn’t share that / And no one even knows“. Repaid è ancora una poesia e forse anche il testo più criptico di questo album. Un accompagnamento ricco e vario da profondità alla canzone, illuminata come sempre dalla canto, “I cannot be maligned / Or mislaid / I will not be defined / Or displayed / For all that I remain / I will not give way“. Unbound segna la fine dell’album e suona come un saluto. Un arrivederci ad un tempo che ci vedrà ancora una volta diversi, “Time is a great healer / And I’d wager space can do that to / As I look out at all the water / I feel damage beginning to undo“.

A Small Unknowable Thing è un album che vede rinnovarsi in Josienne Clarke l’amore per la musica, per ciò che è il suo lavoro, la sua vita. E lo fa con una ritrovata libertà d’espressione e la volontà di sperimentare nuovi suoni. Josienne Clarke però non può nascondere quella sua voce così pulita ma sempre venata da una malinconia che può diventare rabbia o gioia. Nulla può mascherarla. Sono quattordici le tracce che compongono A Small Unknowable Thing ma la maggior parte di esse resta sotto i tre minuti, a testimonianza dell’urgenza creativa ed espressiva che ha accompagnato la sua nascita. I pensieri affiorano frammentari, portati dalla mente e dal cuore, impressi in istantanee sincere e libere da condizionamenti. A Small Unknowable Thing è un ottimo album, uno di quelli che ti fa riflettere se sia necessario scrivere di esso oppure limitarsi all’ascolto e lasciare quindi che tutto vada da sé.

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Persi in questo incantesimo

A distanza di due anni dal precedente Old Country, torna la cantautrice americana Andrea von Kampen e lo fa con l’album That Spell, uscito lo scorso agosto. I singoli che lo hanno anticipato confermavano intatto lo stile di quest’artista, con le sue melodie folk e la voce delicata ed eterea. Come sempre, quando giunge il momento di ascoltare il secondo album di un artista, la curiosità è alta perché non si può mai sapere cosa si troverà al suo interno. Alcuni artisti però, come la von Kampen, non danno mai l’impressione di voler sorprendere e quindi cambiare radicalmente il loro approccio alla musica. Puntano piuttosto su ciò che esprime meglio la loro personale visione, lasciando che sia più naturale e semplice possibile.

Andrea von Kampen
Andrea von Kampen

Un solo verso per poco più di un minuto, dal titolo Of him, I Love Both Day And Night, apre l’album. Un’introduzione gentile e sfuggente alla musica di quest’artista, ispirata alle parole di Walt Withman, “Of him, I love both day and night / Though I heard somewhere he had gone / That was the first time that I lived / Now it all seems so twisted and wrong“. Segue Take Back Thy Gift che conferma lo stile poetico della von Kampen. Una canzone malinconica che insegue una melodia fragile e sognante, che sembra voler intrappolare piacevoli ricordi, “Oh, the woods decay, so do they / Plow the fields, then lie beneath / I remember wild and sweet melodies / In April, hear those lips that kiss so sweet“. La title track That Spell è carica di speranza e di sogni. La melodia è luminosa e dolce, accarezzata da un canto morbido. Un canzone che trasmette positività e ottimismo ma che invita a combattere per tutto ciò che è ingiusto, “Lost inside that spell for a while / All of us learn the trick of a silent smile / And, ladies, they now hold the keys / And I don’t say yes to you because you want me to“. Celilo si poggia sul suono della chitarra e si ispira alle sonorità più classiche del folk americano. Questo brano vuole trasmettere le sensazioni, i cambiamenti di questa località dell’Oregon caratterizzata dalla presenza di nativi americani, “Goodbye to the place my mother knew / The lives we lost just to benefit the few / This land is your land and this land is mine / Where are my wheat fields and dust clouds rolling by?“. The Wait è una lenta ballata, che parla di vita e di amore. La von Kampen prende in prestito le parole del poeta Ranier Maria Rilke e le trasforma in canto nel migliore dei modi, “It is life in slow motion / It’s the heart in reverse / It’s a hope-and-a-half / Too much and too little at once“. Water Flowing Downward è forse la canzone più oscura e malinconica di questo album. Il testo è criptico, composto di cose dette e non dette, che affascina e carica di mistero questa canzone, “Take what’s given / And don’t ask questions / Do your best to look away / But I can’t go softly / I won’t go gently / I’ll choose the water everyday“. Carolina è una canzone nostalgica, poetica e toccante, ispirata da Carolina in My Mind di James Taylor. La voce della von Kampen la illumina con la sua delicatezza e leggerezza. Una delle canzoni più belle di questo album, “I want the Carolina James told me / From my childhood / And all the while Mom sang along / I knew she understood / That all of us need to go / Where we can be heard / And I know my time has come / I think my time has come / Maybe my time frame’s getting blurred“. La successiva Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder) è introdotta dalle note di un pianoforte. Le sonorità folk vengono messe da parte in favore di un sognante e romantico pop che meglio di fa apprezzare la voce di quest’artista, “Don’t talk, put your head on my shoulder / Come close, close your eyes and be still / Don’t talk, take my hand and let me hear your heartbeat“. Si torna alle sonorità folk con la bella Wedding Song. Una canzone romantica, come lascia presagire il titolo, ma nient’affatto scontata. Il testo è molto poetico e sensibile, ispirato dalla storia di Romeo e Giulietta, “Father, bless us both with hearts to share / My pure invocation of a lover’s prayer / Please don’t hesitate for time only takes / Still be in love when the morning breaks“. Si chiude con Magdalene che ricalca le sonorità dell’esordio. Il suono della chitarra e la voce malinconica bastano per darci ulteriore prova del suo talento ed emozionarci un po’, “Ohh, ohh / History is wrong from time to time / Ohh, ohh / The winners, oh, the winners always lie / Mm, mm / My Magdalene“.

That Spell è un album nato durante la quarantena dello scorso anno, in quel tempo sospeso che tutti noi abbiamo affrontato. Andrea von Kampen tira fuori una serie di canzoni che vogliono racchiudere ricordi e riflessioni, sensazioni sfuggenti che solo grazie ad una scrittura sicura e pulita, riescono a sopravvivere. Rispetto all’esordio c’è una maggiore varietà di suoni, sempre prevalentemente acustici, che rispecchiano le diverse emozioni che la von Kampen vuole trasmettere. That Spell è un album breve, apparentemente semplice ma che richiede più ascolti prima di apprezzarne lo sforzo creativo che si traduce in un delicato e lento viaggio fatto di pensieri. Andrea von Kampen fa un passo avanti molto importante, senza rinunciare a nulla di ciò che di buono aveva fatto all’esordio, anzi migliorandosi ulteriormente.

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Non c’è posto dove scappare

Come due anni fa la primavera ha portato un nuovo album per la cantautrice inglese Billie Marten, da sempre autrice di canzoni folk, moderne e delicate, dalle melodie dolci. Il nuovo Flora Fauna si inserisce nel percorso di crescita di questa artista ventiduenne che non ha nulla da dimostrare ma semmai ha tanto ancora da raccontare. Sapete bene quanto mi piaccia veder crescere gli artisti attraverso la loro musica e devo ammettere che la Marten è stata una delle più equilibrate durante il suo percorso. Ma la sorpresa in questi casi può essere dietro l’angolo. Sarà il caso di Flora Fauna oppure no? Non resta che immergersi ancora una volta nel poetico ed incantato, ma realista, mondo di questa cantautrice.

Billie Marten
Billie Marten

Garden Of Eden apre l’album ed è un inno alla forza della Natura, alla vita che da essa prende forma. La voce delicata della Marten si contrappone ad un trascinante folk pop che la rende orecchiabile, “In my garden, I sleep through the day / Soaking rays like it’s food for the morn / There’s no place I would rather escape / Look at me, I’m a flower in springtime“. Ma la Natura, lo sappiamo è costantemente in pericolo, oggi più che mai e Creature Of Mine ce lo ricorda. Bisogna vivere nel suo rispetto e non solo a parole, un messaggio che si nasconde in questo pop leggero nell’apparenza,”Old Mother Nature says it’s all getting worse / There is no room for another / We signed the wager to be on planet Earth / Wasting hours to be together“. Human Replacement sprofonda verso melodie più scure e notturne. Bille Marten sembra volerci trasmettere una sensazione di insicurezza di cui si fa fatica a liberarsi, “You’re just not safe in the evening / Walking around / You could be taken / You’re just not safe in the evening / Darker than dark / Human replacement“. La successiva Liquid Love è di tutt’altro tenore. Il folk viene accantonato in favore di un beat elettronico che accompagna la voce sussurrata di questa cantautrice. Abbandonarsi, lasciare che tutto scorra, anche solo per un attimo ed smetterla di correre, godendosi la giornata, “I kiss the lips of / Every sun coming / Wanting to wake up / As a human every morning / I’m in the kitchen / I am free pouring / No destination / Liquid love under my skin“. Heaven si rifà alle melodie e alle tematiche dei precedenti album. Una canzone fatta di immagini diverse, come un flusso di coscienza che parla d’amore, di vita, di ricordi, “Been sitting here / Mouth full of blood / And a heart full of love / Still not enough / Yes, I am good enough / Yes, we deserve our love / Yes, I am good enough“. Ruin è una canzone tanto essenziale quanto solare ma solo nelle apparenze. Il testo è difficile da decifrare ma resta il linea con la tematica principale di questo album, “I’ve been committing a crime / Locked up for killing the time / Cold cut, a natural fine / Give me a go on your mind / Freedom to feeling alright“. Segue Pigeon, una ballata irrequieta nel testo ma sempre morbida nella melodia e nella voce. La Marten riesce a restare dolce senza annoiare, “I am sick of branding and one-legged pigeons / They have no idea as to our sour position / Another day on modern Earth / Suffocating all our worth“. Kill The Clown offre ancora questo contrasto in un indie pop frammentario tenuto insieme da un ritornello orecchiabile. Una canzone dimostra il passo in avanti fatto da quest’artista,”Take the heat and you / Crush it in your teeth / It is natural to think / Everything’s your fault / After all I am / Not a baby doll / I got bills to pay / And they never go away“. Walnut si spinge verso melodie rock distese e appena accennate. Si muove lenta e sinuosa questa canzone, sbocciando nel ritornello, “But, oh, to dance around you / Fruit of Eden’s tree / Can’t come back around here / You know I’d never leave you be / I’d never leave you be“. Si chiude con Aquarium, ballata acustica e scarna nello stile della Marten. Qui è nel suo territorio sicuro e l’ascoltatore viene messo a suo agio dala voce rassicurante, “Now I am afraid of the noise / Rattling my brain like a toy / Excuse me while I lay here in the shade / I can feel no pain here, I am made here / Just the same“.

Flora Fauna ci fa riscoprire Billie Marten sotto una nuova forma. Non troppo diversa dalle precedenti, per la verità, ma pur sempre fatta di scelte coraggiose, fuori dalla sua comfort zone. La ritroviamo impegnata con battaglie personali e una ricerca di armonia con la natura, il tutto ben mescolato, fatto di indizi nascosti e immagini. Senza che mai nulla prenda il sopravvento, pop, rock e folk si scambiano i ruoli, ricordando, in diverse occasioni le scelte fatte dalla connazionale Laura Marling. Dal suo primo EP a Flora Fauna sono passati sette anni ma sembra un’eternità, vista la crescita artistica di Billie Marten che questa volta dà vita ad un album perfetto per l’estate in arrivo, un’estate un po’ pigra, nella quale fermarsi a pensare un po’.

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Ritorno al Nord

Sono passati cinque anni dall’ultimo album di questa artista e, se devo essere sincero, avevo perso le speranze di poter sentire da lei nuove canzoni. L’uscita del nuovo Ravensdale mi ha colto di sorpresa e per poco non me la perdevo. Monica Heldal, cantautrice norvegese, è tornata lo scorso marzo con questo album di otto tracce intitolato come una sua canzone dell’ultimo The One In The Sun, quasi a voler sottolineare la volontà di riprendere un discorso interrotto tempo fa. Non resta altro che scoprire cosa ci ha riservato la Heldal per questo suo inatteso ma benvenuto ritorno.

Si comincia proprio con Ravensdale Reprise che si aggancia all’album precedente. Ritroviamo tutte le caratteristiche di questa artista. Il suono delle chitarre che tratteggiano un’atmosfera eterea che fa da sfondo alla voce della Heldal. It Could Still Be A Good Day si apre verso melodie più luminose che accompagnano una delle canzoni più orecchiabili di questo album. Le sonorità in questo caso ricordano di più quelle degli esordi, con influenze indie pop e rock, con un tocco più ricercato nel finale. La successiva Wallowa Lake ci fa assaporare le atmosfere del nord Europa con influenze di americana e folk. Una melodia gentile e malinconica ci accompagna lungo tutta la sua durata. Da ascoltare. Síocháin è una canzone nel tipico stile della Heldal. Il suono affascinante e misterioso della chitarra si sovrappone alla voce magnetica di quest’artista ed entrambe si snodano su un tappeto di suoni evocativi. Peacetown è una canzone intima e riflessiva che ci svela un lato più personale di Monica. Immancabile è la chitarra ma questa volta non c’è mistero né la volontà di sorprendere. Ad emergere è un senso di pace e di serenità. Praire torna ad esplorare territori sconosciuti, le terre sconfinate dell’animo che sembrano attrarre da sempre la Heldal. Segue la bella Glitter In Golden non a caso scelta come singolo. Qui Monica da sfoggia del suo talento di cantautrice confezionando una canzone che sa di libertà ed amore. Una delle canzoni più affascinanti di questo album. Si chiude con Fair. Ritornano le sonorità più scure e magiche dell’album precedente e la musica gioca un ruolo di primo piano. Monica Heldel tratteggia il suono e la sua voce impreziosisce ed amplifica l’etereo gioco di questo brano.

Ravensdale è un album nel quale Monica Heldal vuole chiaramente riprendere in mano la sua carriera artistica che per anni è rimasta in attesa. Mentre il precedente album aveva alzato l’asticella rispetto all’esordio, qui si torna almeno in parte a melodie più orecchiabili e meno ricercate. Questo ritorno, breve per numero di tracce ma non nella sua durata, è quello che si potrebbe definire il classico album di transizione. L’importante era tornare, sembra volerci dire Monica Heldal, tornare a suonare, cantare e scrivere nuove canzoni lasciando che musica si parte della vita. Sono soddisfatto di aver avuto la possibilità di riascoltare la musica di quest’artista e di ritrovare tutto così come era cinque anni fa. Bentornata Monica.

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