Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 5

In queste settimane, nonostante i vari ponti, ho ascoltato poca musica in termini puramente legati al numero di ascolti. Perché in realtà aprile è stato un mese ricco di uscite interessanti ed attese da tempo ma che non ho ancora ascoltato un soddisfacente numero di volte. Sì, perché prima di abbandonare un album e riporlo nel dimenticatoio o quasi, concedo sempre una seconda possibilità a tutti. A volte, così facendo, mi accorgo che il mio giudizio era stato affrettato, altre invece confermo le mie prime impressioni. Questo vale soprattutto per i nuovi artisti, perché per i miei preferiti difficilmente un loro album cade presto nel suddetto dimenticatoio. Siccome maggio si presenta anche lui ricco di nuove uscite, è bene ricapitolare qui sotto gli album più meritevoli che ho ascoltato ultimamente. Tra conferme e nuove scoperte, alla fine non è andata male nemmeno stavolta.

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Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 4

Questa è una di quelle volte in cui non so come iniziare un post. Di solito arriva per caso, al momento giusto o quasi, ma questa volta non è arrivata un’idea abbastanza decente da meritarsi di essere messa per iscritto. E allora perché non scrivere proprio di questa assenza di idee? In realtà una mezza idea mi era anche venuta ma non mi aveva convinto molto, perciò per ora la lascio in un cassetto, magari torna utile la prossima volta. Bene, nonostante oggi sia in debito di fantasia e l’unica soluzione e scrivere di questo, la mia introduzione al post in qualche modo l’ho fatta. Il resto del post, con i consueti consigli musicali è qui sotto. La prossima volta mi impegnerò di più…

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Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 3

Questa settimana ho letto un interessante articolo che riguardava la fruizione della musica nel mondo e in Italia. Per correttezza pubblico il link dal quale l’ho letto: La musica in download vicina all’estinzione. Lo streaming a pagamento è quasi metà del fatturato globale.
Tra l’altro ultimamente, ho l’abitudine di appuntarmi, a chissà quale scopo, gli articoli più interessanti che trovo online. A volte devo ammettere che mi tornano utili, altre volte sinceramente non so perché li metto da parte. Ma torniamo al tema di questo articolo. Il titolo è eloquente, lo streaming musicale si sta divorando il download ma ha ancora pietà per CD e vinili. In Italia chi scarica ancora musica (legalmente s’intende) rappresenta solo l’1% del totale. Sapevo che la mia abitudine di comprare musica in digitale era da tempo passata di moda ma non credevo di essere parte di una così ristretta minoranza.

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Due torti non fanno una ragione

Per sorprendere non è necessario essere originali. Lo sa bene la band britannica The Lathums che nel 2021 con l’album How Beautiful Life Can Be ha dato spolvero alle chitarre, rilanciando uno stile che ha caratterizzato l’epoca d’oro della musica del Regno Unito. Anche se le canzoni che lo componevano non brillavano certo d’originalità, è stata, senza dubbio, la determinazione di questi giovani artisti a percorrere una strada in controtendenza rispetto ai loro coetanei la chiave dell’accoglienza positiva di pubblico e critica. Quest’anno sono tornati con il loro secondo album From Nothing To A Little Bit More che ha visto l’addio del bassista Johnny Cunliffe e l’arrivo di Matty Murphy, che ricompone così la formazione a quattro con Scott Concepcion, Ryan Durrans e il leader Alex Moore. Il secondo album è uno scoglio difficile da affrontare e i Lathums sono chiamati ad affrontarlo due anni dopo il fortunato debutto.

The Lathums
The Lathums

L’album comincia con la ballata rock Struggle, nella quale Moore riflette sulle difficoltà dell’infanzia, per poi lasciare spazio a qualcosa di più movimentato, in continuità con l’album precedente, dal titolo Say My Name. Sulla stessa lunghezza d’onda la trascinante Facets, nella quale possiamo ascoltare tutta l’energia delle chitarre che hanno caratterizzato l’esordio della band. Sad Face si affida ad un pop rock energico e tirato che alza i decibel, affidandosi quasi esclusivamente alla voce e al carisma di Moore. Spazio al romanticismo con I Know Pt 1 che suona un po’ vintage ma funziona, così come la spensierata Lucky Bean. In Rise And Fall tornano la melodia tracciate dalle chitarre, dando vita ad una canzone luminosa e ispirata. C’è tempo anche per lasciarsi andare in canzoni più malinconiche come Crying Out che non rinuncia alle sonorità indie rock più energiche, contrariamente alla bella Turmoil che si affida principalmente al pianoforte, svelandoci una dolce ballata. Land And Sky è la canzone più oscura dell’album, dalle sonorità che ricordano gli anni ’90. Senza dubbio un esperimento riuscito e dal fascino particolare. La conclusiva Underserving è la classica ballata riflessiva che abbraccia l’album e lascia buone sensazioni.

Anche in questa occasione i Lathums riescono nell’impresa, non facile di questi tempi, di rimanere fedeli alle scelte fatte al loro esordio. In questo From Nothing To A Little Bit More viene meno l’effetto sorpresa del suo predecessore ed è più difficile fare affidamento solo su questo aspetto. Per compensare questo Alex Moore e soci provano qualcosa di diverso, affidandosi meno ai riff di chitarra e più all’energia del front-man, rischiando così di perdere una delle loro peculiarità più evidenti. Ma niente che pregiudichi questo lavoro,che è pur sempre un secondo album e c’è ancora tempo per la band di trovare una strada più definita. From Nothing To A Little Bit More è il degno successore di How Beautiful Life Can Be, che ci regala momenti di nostalgia per un indie rock che i Lathums sanno mantenere vivo dandoci la sensazione che, se si vuole, questo genere riserva ancora qualche sorpresa e ha ancora la capacità di attrarre i giovani.

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Mi ritorni in mente, ep. 86

Questo mese è stato pubblicato l’album I Walked With You A Ways che segna il debutto del duo Planis, composto dalle cantautrici americane Jess Williamson e Katie Crutchfield. Questo album troverà sicuramente spazio su questo blog prossimamente perché oggi vorrei consigliare un altro album. Se Jess Williamson era già un nome di mia conoscenza, quello di Katie Crutchfield meno. In realtà vedendo le foto della coppia mi è sembrato di riconoscerla. Infatti si tratta di un’artista nota anche con il nome di Waxahatchee e il suo ultimo album, uscito nel 2020 s’intitola Saint Cloud.

Ho deciso quindi di recuperare questo album che ricordo fu ben accolto nonostante segni una svolta folk americana per questa cantautrice. Personalmente l’album mi è piaciuto fin dal primo ascolto, un ottimo mix di indie folk e indie rock, caratterizzato da melodie orecchiabili e una voce carismatica. Non è stato facile sceglierne una. L’invito è ascoltare tutto Saint Cloud. Non è mai troppo tardi per ascoltare della buona musica.

È così che ci nascondiamo dalla vita moderna

Quando una band come gli Editors annuncia un nuovo album, l’unica cosa che sicura è che sarà qualcosa di diverso dal precedente. Fatta eccezione dei primi due, in qualche modo paragonabili, i successivi sono sempre stati orientati alla sperimentazione, nella vana ricerca di un’identità. Questo non è necessariamente un problema, anzi ha reso più interessante la carriera di Tom Smith e soci, che hanno saputo assorbire bene qualche critica di troppo. Il loro settimo disco si intitola EBM, che sta per “Electronic Body Music” oppure “Editors Blanck Mass” per sancire l’ingresso di Benjamin John Power, aka Blanck Mass, in via definitiva. I singoli lasciavano intendere una forte influenza elettronica ma era chiaro che l’album nascondeva qualcosa di più sperimentale, l’ennesimo tentativo della band inglese di sorprendere e mantenersi viva senza campare di rendita dopo quasi vent’anni sulle scene.

Editors
Editors

Heart Attack apre l’album con un crescendo di pulsazioni elettroniche dal quale emerge l’inconfondibile e carismatica voce di Smith. Dichiarazioni di un amore malato e possessivo si dispiegano in una nube di suoni che si rincorrono l’uno con l’altro. Non ci poteva essere scelta migliore come primo singolo, orecchiabile ma non troppo e non lontana dalle ultime sonorità della band, “No one will love you more than I do / I can promise you that / And when your love breaks, I’m inside you / Like a heart attack / No one will love you more than I do / I can promise you that / And when your love breaks, I’m inside you / Like a heart attack“. La successiva Picturesque scioglie ogni dubbio, siamo dentro al nuovo album degli Editros. La svolta elettronica e l’apporto di Blanck Mass si fa sentire e corre a briglia sciolta con Smith che tiene insieme le stratificazioni sonore. Un esperimento interessante che stranisce ad un primo ascolto, “When your hate don’t cut it / Through the mess you started / I confess I find it picturesque / Are you livid? / When my love boils over / When my shame grows colder / It’s a mess / Picturesque“. Karma Climb invece torna alle sonorità del recente passato. Smith gioca con la voce come solo lui può fare e per qualche attimo sembra di tornare indietro nel tempo. Ancora una canzone accattivante e non troppo scontata, “Just give me cold stares, give me polluted air / ‘Round and around, we go down / A little truth or dare, euphoria or despair / Karma climbs quick without a sound“. Lo stesso si potrebbe dire di Kiss che sembra ripescato dagli anni ’80. Il primo dei brani più dance di questo album, forse fin troppo semplice e lineare ma si lascia ascoltare anche se non regge bene lungo i suoi otto minuti, “How do I feel tonight? / Light up what’s lost inside / So we’ll pass the time / In who I can’t confide / We could do anything / Oh, when I’m feeling low / If I could only sing / Any song that you know“. Silence invece è di tutt’altro tenore. Qui si rivede il lato epico e riflessivo degli Editors. La voce magnetica attira su di sé le attenzioni di chi ascolta riportandoci molto vicino alle sonorità degli esordi ma senza illudere nessuno, “Wherever you are now you’re making me feel / These walls are a real life, I miss you, I’m still / When my body aches / Gimme uncomplicated conversation / When my body aches / Gimme uncomplicated conversation“. Ci pensa Strawberry Lemonade a confondere le idee. Torna di nuovo la musica elettronica che finisce per avvolgere tutto. Smith ci guida con la voce in una foresta di suoni riuscendo a dare vita ad un ritornello orecchiabile. Un esperimento ben riuscito che soffre ancora però di una durata eccessiva, “I’m not your renegade / Strawberry lemonade / Looking for someone to get lost in / Come may / I’m not your renegade / Help me to demonstrate / All the things I don’t believe in“. A proposito di canzoni lunghe, Vibe si attesta come l’unica sotto i cinque minuti. Un canzone più danzereccia che gli Editors abbiano mai fatto. Godibile per carità ma da loro mi aspetto qualcosa di meno dimenticabile, “Just because you feel it / Don’t forget where your vibe comes from / It’s coming from a cold, hard night / Just because you feel it / Don’t forget where your vibe comes from / It’s coming from a cold, hard night“. Decisamente più dura e ruvida è l’enigmatica Educate. Toni scuri e una rabbia repressa sono gli ingredienti che questo gruppo sa mescolare bene. Anche qui ci sono echi del lontano passato che non si possono non notare, “I don’t wanna be wasting your time / Over and over / This is how we hide from modern life / Under the covers / You saved my soul with a drive / Don’t you remember / What it was when it was what it was / It was only an ember“. Si chiude con Strange Intimacy, nella quale si fanno largo le pulsazioni elettroniche per oltre un minuto e mezzo, prima che emerga la voce di Smith, anch’essa distorta. Gli Editors tutto sommato chiudono bene lasciandoci con una canzone che alterna melodia, ritmo e distorsioni con sapienza, “Strange intimacy / This party is over / Let the rain pour down on me / Eclipsing the loneliness / Of strange intimacy / This party is over / Let the rain pour down on me / Eclipsing the loneliness“.

EBM è un album potente e solido, con un’idea chiara e ben realizzata. Tom Smith ormai sa che lui può reggere qualsiasi gioco e lo fa con esperienza. La presenza di Blanck Mass ha di fatto amplificato ma non stravolto le scelte stilistiche che il gruppo aveva già abbracciato negli ultimi album. Non manca qualche momento un po’ discutibile, soprattutto quando entra in scena uno strano tentativo di proporre qualcosa di dance ma dai toni dark. Gusti personali e nient’altro ma gli Editors non mi sembrano tagliati per questo genere di canzoni. Poco male però se queste sono bilanciate da altre decisamente più cattive e sporche. Non so se è una mia impressione ma ho trovato diversi rimandi al passato della band, alcuni brevi passaggi, melodie o accelerazioni che mi hanno restituito l’immagine del vecchio cuore pulsante degli Editors, che dopotutto batte ancora forte. Il cuore di una delle band più sottovalutate della sua generazione.

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Portando le speranze di una vita precedente

A sei anni di distanza dall’ultimo Jet Plane And Oxbow, ha visto finalmente la luce il nuovo album degli Shearwater, intitolato The Great Awakening. La sua realizzazione è stata messa alla prova dalle difficoltà economiche della band capitanata da Jonathan Meiburg, che ha dovuto ricorrere ad una fortunata campagna di crowdfunding. Lo stesso Meiburg nel frattempo ha anche pubblicato il suo primo libro, A Most Remarkable Creature: The Hidden Life and Epic Journey of the World’s Smartest Birds of Prey, ne quale racconta la sua passione per il caracara, uno dei rapaci più intelligenti del pianeta. L’arrivo della pandemia ha poi ulteriormente rinviato l’uscita del disco. The Great Awakening dunque si è fatto attendere ma è giunto finalmente il momento di ascoltarlo.

Jonathan Meiburg
Jonathan Meiburg

Highgate si apre subito con la voce carismatica di Meiburg. Una canzone che riporta alle sonorità precedenti ad Animal Joy e non è un illusione. Gli Shearwater tornano al loro sound più caratteristico, “Here comes your heart attack / Starless and bible black / And here is the endgame / Lightning flicks down again / Back in the wilderness / And inside of the sanctum“. No Reason procede lenta ed inafferrabile. La voce tratteggia parole che riecheggiano su un tappeto sonoro essenziale ma stratificato, “If one could only understand / All this speaking / And all the little boats rising / Encephalon ranging through time / (You’re wrong, you’re right) / That’s no reason to cry / It’s no reason to cry / You won’t look in its eyes“. Il singolo Xenarthran è una canzone dalle atmosfere notturne dove è la suggestione musicale e il suono della voce di Meiburg a fare la differenza. Un viaggio nel buio, ispirato dal mondo animale, chiuso dalla registrazione del richiamo delle scimmie urlatrici realizzata dallo stesso Meiburg, “While the night / Circles round the day / While the night / Circles round the day / The question is / How can you fool the mind / You fool the body / What’s in the box in the backseat / And dial down the senses / Flares as far as the eye can believe“. Laguna Seca è forse il brano che più si avvicina alla produzione recente della band. Una canzone inquieta soffocata dalle distorsioni che possiede un fascino particolare, “Walk into traffic / Or settle down / A sudden shiver / From underground / The hollow feeling / The yellow sky / And fortune favors / The bigger lie / Of ugliness / Offer me something / I’ll never return / The end of all respect / The lives on the brink / Of ugliness“. Everyone You Touch torna ad un suono pulito e meno stratificato che gira intorno alla voce unica del frontman di questa band. Una canzone che solo gli Shearwater possono fare, “Endlessly rustling / Talk and don’t pause for breath / Everyone coming here / Looking for someone else / Watching them tearing up / The tracks along the line / Mirror ball standing in / For galaxies of light“. Empty Orchestra è tra le mie preferite oltre che essere decisamente più orientata verso il lato più rock del gruppo. Torna quel sentimento di rabbia e di speranza che emergeva nei due album precedenti, “And what have you done? / What have you learned / From all these stubborn people? / It doesn’t bear thinking / When you look at it now / When it’s all against the needle / I couldn’t believe / You were never ashamed“. La successiva Milkweed è un brano profondamente essenziale e introspettivo. Il testo è scarno e soggetto ad interpretazioni e si rivela come emergendo dall’oscurità, “Sift through / What’s shining / Watering down the weeds / I think you enjoyed it / Look at him / He’s wrong / And he knows / He enjoys it / Warm bodies / Cold energy / Tungsten / Radium / Hexane / He enjoys it“. Detritivor procede lenta ed eterea. La voce di Meiburg è uno strumento musicale che si confonde con la musica. Inafferrabile ma densa di suoni, “Do you remember / Everyone look at your hands / The sun came over the mountains / And when I looked back / I didn’t see anyone / Where do you come from / And where do you go / I think I / Was sleeping / Until the first / Of the day’s / Fresh demands“. Segue Aqaba che incarna perfettamente lo stile degli Shearwater ma rappresenta anche un’eccezione. Infatti è una rara canzone d’amore, anche se non particolarmente esplicita in tal senso, “And floods the iris / Unfurls the waves / Ride them up, ride them up, ride them up / Ride them up, ride them up, ride them up / In the threshing of love’s / Distortions and shimmerings / The stubbornest husk / Flakes away“. There Goes The Sun è la canzone più lunga dell’album, sfiora infatti gli otto minuti, ma capace allo stesso tempo di scorrere via leggera, carica di speranza, “Under pallid skies / Endless traveling / All this rising and receding / Uncertain soldier / Doubled in, doubled in distress / Doubled in distress / Could you save yourself? / Staring long enough / Will the clouds relent / And show the moon / In strong relief? / Strung out or taken in“. Si chiude con The Wind Is Love che non solo racchiude lo spirito dell’album ma sul finale riproduce, sovrapposte, alcune delle tracce precedenti, “Far across the day / Carrying the hopes of a former life / That never fully died / Holding its shape in your mind again / It overruns your eyes / Fills the storm drains / Start now“.

The Great Awakening segna un ritorno potente di un band unica, da tempo ormai nelle mani salde di Jonathan Meiburg. Abbandonato il rock e la rabbia dei due album precedenti, gli Shearwater tornano a quelle sonorità dilatate e eteree che dagli esordi ne hanno caratterizzato la produzione. Non è un album semplice, né orecchiabile ma ogni ascolto rivela un pezzo di sé. Molte canzoni superano i cinque minuti di durata ma nonostante ciò The Great Awakening non risulta pesante, grazie alla sapiente scelta di non caricare troppo la musica e di lasciare, come sempre, spazio alla voce di Meiburg che rende gli Shearwater riconoscibili ed unici nel panorama alternativo. Bentornati.

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Inciso tra le lettere

I miei radar sono sempre all’erta quando si tratta di cercare nuova musica da ascoltare. Quando però l’artista in questione non è particolarmente noto a livello internazionale, tanto meno in questo paese, capita che perda qualche colpo. Ma ogni tanto scorro i nomi della mia collezione e mi aggiorno su i più silenti. Mi è balzato all’occhio il nome di Kristoffer Bolander, cantautore svedese ex frontman degli Holmes. Scopro così solo pochi giorni fa che lo scorso anno a pubblicato il suo terzo album solista, intitolato semplicemente 3. Mi sono subito precipitato ad ascoltare la voce unica di Bolander senza perdere altro tempo, ero già clamorosamente in ritardo.

Kristoffer Bolander
Kristoffer Bolander

L’album si apre con The Child, introdotto dalle fragili note di una chitarra. La voce di Bolander si conferma magnetica e unica e da sempre dà un tratto riconoscibile alla sua musica, “Head off and walk alone, let it reach you boy / Head off and walk alone, through the storm / Head off you’re not alone, find your reasons boy / Get up we’re all alone, you’ve seen it“. Am I Wrong? percorre sonorità più indie rock, sulle quale si rincorrono le parole. Una delle canzoni che preferisco di questo album, nel quale si mescolano passato e presente di questo cantautore, “I’ve been stalling out / Pretending I’ve come to fight it off / And have ascended high / If I had a coin for every time I’ve lied / I’d retire alone, to a private isle“. La successiva Evelyn è un delicato folk pop che rivela tutta la sensibilità di Bolander. Il desiderio di confidarsi, di cercare una spalla per i momenti difficili. Una canzone orecchiabile e ben scritta, “Evelyn, I’m in the city / And I’ll no longer hide from you / Evelyn, it’s somewhat silly / But I would like to confide in you / It’s been years since I saw you / I’ve been spinning / It’s been years since I broke the truce“. Replace Me è una canzone che riprende le sonorità più più oscure degli album precedenti. La voce emerge sulla musica, graffiata dal suono della chitarra, “There’s someone caught up / That’ll obtain my spot / Let someone else be brought up / I’m not the one that you thought / I’ve given all I’ve got / Now let me be absolved“. The Rogue segna un ritorno al folk. Una chitarra acustica in sottofondo lascia spazio al canto di Bolander nella prima metà, per poi essere spazzata via dal suono più profondo della sorella elettrica, “I outgrew remorse / Portrayed what they saw / I’d lie and steal to sustain / Once I’d hasten to help / I was shunned because I strayed / And now what you’ve dealt we shall play / Had you known“. Le sonorità degli Holmes riemergono prepotentemente nella bella Attaboy. La chitarra di Bolander galoppa tracciando la melodia e regalandoci una delle canzoni più belle dell’album, “And the wealth she’ll offer you / Carrying ease and gold / You’ll be walking around asleep, send her on / And the gray suits will come for you / Trying to plead enrollment / You’ll be marching to their beat / Let em leave alone“. Her World è una delicata ballata indie rock poetica e luminosa. Kristoffer Bolander dimostra tutto il suo talento di cantautore, “Winter sleeps / The frost is thawed / She’ll abdicate her throne / The birds in return / Relieve my concerns / I fall asleep alone“. L’album si chiude con The Animal, un brano teso ed oscuro. Il canto si insinua tra le note di una chitarra, dando vita ad immagini vivide e potenti, “I thought it would come together / The soon I’d become / Engraved amongst the letters / And then I’d belong / And I have been brought along / Leeching like an heir / But it’s like I’ve forgotten something / You seem to share“.

Kristoffer Bolander con 3 mette a fuoco la sua carriera solista, trovando maggiore equilibrio tra il suo passato folk e la sua anima rock. Si alternano canzoni delicate e positive ad altre più malinconiche e criptiche. La voce e la chitarra restano le sue uniche due costanti, sempre riconoscibili ed efficaci, capaci di toccare le corde giuste di chi ascolta. 3 è un album prezioso e per certi versi fragile che mette in evidenza la sensibilità di questo autore, un po’ in contrasto con la sua immagine sicura e severa, che appare sempre più come una corazza che come lo specchio della sua anima.

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Il cuore su questi ciottoli

È possibile sorprendere senza fare nulla di nuovo? La risposta è sì. Ci sono riusciti quattro giovani ragazzi inglesi che si presentano sotto il nome di The Lathums. In mezzo a rapper, trapper e compagnia ecco spuntare una paio di chitarre, un basso e una batteria. Tutto già visto, già sentito. Eppure era da un po’ che non si sentiva nulla del genere. How Beautiful Life Can Be segna l’atteso esordio di una band che ripropone tutte le sonorità più note che hanno caratterizzato gli anni d’oro del pop rock made in UK. Sono tante le influenze che si possono citare ascoltando questo album, una su tutti i The Smiths. Ma non mi piace fare confronti, se posso li evito. Quindi non resta che ascoltare questo How Beautiful Life Can Be dimenticando per un attimo quel senso di déjà vu che può suscitare.

The Lathums
The Lathums

Cirles Of Faith apre l’album e subito si è immersi nel suono delle chitarre e dalla voce di Alex Moore. Un sound familiare ma che vibra di un’energia giovane, un testo ispirato e un ritornello orecchiabile. Serve altro? “Circles of faith in an undisputed land / I’ve taken up my refuge / I’m sticking to my plan / We all carry things we dare not speak / It’s humbling down here / At the bottom of the heap / And I will define the things I’vе seen“. Più luminosa e leggera I’ll Get By. La band rivela un lato sentimentale che non è per nulla scontato di questo tempi. Una canzone gioiosa che non cade mai nel banale e non può non far piacere ascoltare, “I’ll get high on the things you like / And we’ll be alright, I know / And if you want to, I can help you / Help you feel alright“. Fight On si apre con le note di una chitarra che ci cattura subito, lasciando poi spazio alla voce che canta un testo di resistenza alle battaglie di tutti i giorni. Una voce che corre veloce e sicura, “So fight on / My little bird / Oh I’m running jumping flying / Gunning faster fighting / Faster than the world / So fight on / My little bird / Oh I’m running jumping flying / Gunning faster feeling / Faster than the world“. How Beautiful Life Can Be è la title track, nonché singolo di punta dell’album. Una rasserenante riflessione sulle cose belle e semplici della vita. Un gioiellino da ascoltare, “Just how beautiful life can be / When one allows her to breathe / Let the children have their chance to see / Just how beautiful life can be“. The Great Escape è un po’ il cavallo di battaglia di questa band. Un piccolo compendio del brit pop, fatto di immagini lucide e tenute insieme da una melodia orecchiabile e un giro di chitarra che ti entra in testa, “And they could call it the great / The great escape of the world / And I don’t need diamonds and pearls / Just to vanish off the face of the earth / Is there any life on Mars / Or will I be arriving first? / Will I be arriving first?“. Segue I Won’t Lie, è una scanzonata cavalcata pop rock che galleggia leggera, lasciando che i pensieri scorrano liberi. Questa band mette a segno un altro punto a loro favore, “I’ll wait beside her, a constant reminder of when we were young / But I’ll let my guard down, pour all my heart out on these here cobblestones / In good time, lay my-my / In my life, I’ve been hurt some / I won’t lie, I won’t lie“. I See Your Ghost mette in mostra le capacità di Alex Moore, le sue parole sono veloci e corrono sulle note delle chitarre, “My chain, I know it, is particularly fancy / Means a lot to me, but if you come a little closer, you might find / Is there anything you’d like to say to me? / I find it very funny but I likely turn to anger very quick“. Segue Oh My Love che ancora una volta ci sorprende con la sua leggerezza e vitalità. La vita è troppo breve per viverla con negatività, “Time is weak and demanding of me / They will crumble at your fingertips / If you want to be happy / Then happy you will be / Oh, my love / Oh, my love“. I’ll Never Forget The Time I Spent With You è una ballata molto bella, guidata dal suono di una chitarra acustica. Questo dimostra di avere una spiccata sensibilità, senza paura di fare affidamento a melodie collaudate, “I won’t forget the time I spent with you / Before we’d even met I’d spent a lifetime with you / If only in your imagination but where else can we go? / You’re a shooting star I know / You’re a shooting star I know“. I Know That Much è una canzone che nasce dai sogni di questi ragazzi, la voglia di lasciare volti e luoghi conosciuti per esplorare il mondo e la vita, “But I put names to their faces / So I don’t make the same mistakes / And I’ve seen grey clouds up above / But I won’t let them take my love / I’ve come too far and I’ve lost too much / I won’t stop now I know that much / I know that much“. Artificial Screens si riferisce alla dipendenza dagli schermi degli smartphone, un tema moderno supportato da chitarre d’altri tempi. Un’altra canzone riuscita alla perfezione, “I think you are / Under a spell / And you don’t even know yourself / Everywhere I go / Everybody that I see / They’re looking down on the artificial screens“. Si chiude con l’epica The Redemption Of Sonic Beauty, un inno alla musica. Una canzone diversa del resto dell’album, che inizia al piano ma cresce in tripudio rock, “The redemption of sonic beauty / Here to save your souls / It’s the redemption of sonic beauty / I wonder do you know your role / It’s the redemption of sonic beauty, oh“.

How Beautiful Life Can Be è un debutto eccezionale, nel quale il talento della band è ancora coperto dai numerosi riferimenti del passato. Ma non c’è nulla di male in tutto questo. Non importa quali artisti vi possano ricordare, non importa se avete la sensazione di aver già ascoltato qualcosa di simile, i The Lathums sanno scrivere canzoni. Basta ascoltarli per rendersi conto che le basi di questa band sono solidissime e in controtendenza con le mode. Un ritorno alle chitarre, ai ritornelli orecchiabili e alla gioia di fare musica. Un ritorno nelle strade delle periferie inglesi dove quattro ragazzi hanno inseguito un sogno di mettere su una band e provare a vedere se la storia si può ripetere.

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La luce rossa

A cinque anni di distanza dal suo debutto, intitolato Hold Your Mind, è tornata la cantautrice inglese Bess Atwell con il nuovo Already, Always. L’approdo alla corte di Lucy Rose, fondatrice della etichetta discografica Real Kind Records, ha finalmente sbloccato la realizzazione di questo disco. L’esordio mi aveva fatto scoprire un’artista di sicuro talento e dalla voce cristallina, che con il suo folk moderno e minimale si era rivelata una delle sorprese di quell’anno. Non vedevo l’ora di tornare ad ascoltare qualcosa di nuovo di Bess Atwell e scoprire come era cambiata la sua musica in seguito all’EP Big Blue del 2019.

Bess Atwell
Bess Atwell

L’album si apre con la bella Co-op, nella qual ritroviamo le sonorità alla quale la Atwell ci ha abituato. Una canzone malinconica fatta di ricordi frammentari, tracciati da una voce delicata e pulita, “I slip my hands into my pockets / Lean against the wall at a Blondie tribute concert / We had that same old talk in the car / On the way over, I said I love him / I said I’m not in love“. All You Can Do si affida ad un indie rock lento che accoglie il canto. Un brano dolce ed essenziale che vive di un melodia piacevole e leggera, “I know I’m in love with your cheeks / You’re my sweet puppy / Is man’s best friend on a lead? / Are you coming through / Is this what you’d choose / I can’t unring that bell I rang for you“. La successiva Silver Fir si appoggia su pulsazioni elettroniche che conferiscono un’atmosfera densa, tagliata dalla voce della Atwell. Sono ancora i ricordi a popolare i suoi testi, “The smell of leather in your mother’s car / The peppermints she kept in the glove compartment / Does she have a car in Barcelona? / I know she banked on everybody coming over“. Tra le mie preferite c’è Dolly, un’altra canzone nostalgica e fragile. La voce è sommessa ed eterea, una delle tante caratteristiche che la rendono speciale, “I wanna cleanse your body, clean your arm and kiss your head / I want to wrap you up in cotton wool and make your bed / I want you to let go so you can see what you have left / Choose your wars wisely ahead, choose your wars wisely ahead“. Segue Love Is Not Enough, una canzone d’amore che vuole essere una riflessione sulla sua forze. Non sembra essere abbastanza in questo caso e la voce delicata ne incarna il sentimento, “But what if love is not enough to keep us? / The biggest joke the big man’s had, and we bear the brunt / You are how I learned to feel fine / I can’t hold you in my hands and walk away at the same time“. How Do You Leave si lascia andare verso un indie pop affascinante. Bess Atwell con voce calda evoca immagini sfuggenti ma capaci di evocare qualcosa di profondo, “How do you leave someone you trust? / Who built you like a boat / Can you mourn somebody breathing / Now that you can float?“. Time Comes In Roses sceglie una via più acustica, vivendo ancora di ricordi. Una riflessione sulla vita, sul tempo che scorre inesorabile. Un ritornello perfetto e oscuro, “But time comes in roses, I really love ya / I’m tired of being like my mother / I get excited, I get depressed / I’m never happy with how I’m dressed“. Il singolo Red Light Heaven è un bel pezzo indie pop nel quale quest’artista dà il meglio di sé. Un ritornello orecchiabile e ancora un testo che sembra un flusso di coscienza ma sempre ispirato e ben interpretato, “I can’t stop looking for that red light / Heaven is below my feet / And I could beat around the fucking bush all week / And I won’t be funny or fast / I won’t make you dance / I won’t help you forget / You need a bit of that“. Olivia, In A Separate Bed è una canzone che una musica che cresce pian piano e accompagna la voce della Atwell, assoluta protagonista, “I chose the love of strangers / I chose the fickle crowd / And the woman I wagered / Won’t look at me right now / Not now“. L’album si chiude con Nobody, nella quale si sceglie ancora un approccio più acustico, lasciando spazio alla melodia del canto. Una canzone triste e riflessiva, di poche parole scelte,”Nobody is meant for me / I crossed the river to find / Love was made for watering / If I don’t believe in us / Nobody is meant for me“.

Already, Always ci permette di tornare a riascoltare un voce unica, unita ad una capacità di fondere melodia e parole che si vede raramente. La velocità è lenta e costante, senza strappi né saliscendi. Bess Atwell ripropone la sua ricetta vincente, senza perdersi alcun rischio, confermandosi così tra le cantautrici più interessanti della sua generazione. Already, Always è un album che vive di ricordi e sensazioni, spesso slegate tra loro e non sempre di facile comprensione. Non importa però. Bess Atwell sa come attrarre a sé l’ascoltatore, accompagnandolo negli intricati meandri della sua mente e del suo cuore. Lasciando sempre la piacevole sensazione di essere partecipi di qualcosa di speciale.

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