Ancora un altro libro, ep. 13

Ecco il consueto appuntamento con una veloce recensione dei libri che ho letto negli ultimi mesi. Alcuni ottimi e altri un po’ meno.

Black Jesus. The anthology di Federico Buffa è una raccolta di aneddoti sul mondo della pallacanestro USA infarciti di termini gergali, nomi noti, altri meno, soprannomi e curiosità varie. Incomprensibile per chi non mastica un po’ di basketball. Fortunatamente non è il mio caso, altrimenti mi sarei trovato ancora più spaesato. Lo stile di Buffa è difficile da seguire su carta, spesso e volentieri si perde il filo. Mi sono ritrovato a rileggere più volte le stesse righe nel tentativo di capirne il significato. A tutto questo si aggiungono numerosi refusi (mai visti così tanti in un libro solo!) e ripetizioni inutili. Sarebbe bastato un minimo di editing, indicare almeno l’anno in cui è stato scritto ciascun capitolo e rivedere lo stile di scrittura per ottenere un libro tutto sommato godibile e interessante. Invece, così com’è, è francamente illeggibile.

Con la raccolta di racconti Scheletri, King si conferma essere un abile narratore anche quando lo spunto per una storia si dimostra un po’ debole. Quando questo autore sceglie di condensare la sua fantasia in poche pagine, viene a mancare la profonda caratterizzazione dei personaggi, caratteristica fondamentale dei suoi romanzi. Inoltre è in raccolte come questa che emergono, in maniera più evidente, le influenze di autori come Lovecraft (La nebbia, La scorciatoia della signora Todd, La nonna) e Poe (L’uomo che non voleva stringere la mano, L’immagine della falciatrice, Nona). Alcuni racconti sono stati inseriti più per “beneficio di inventario” che per altro ma altri sono dei piccoli capolavori (L’arte di sopravvivere, su tutti). Un’ottima raccolta che offre un’ampia panoramica sullo stile e l’immaginario di Stephen King.

Frank Herbert ha avuto il merito di aver creato un mondo complesso, un vero e proprio universo. Eppure anche in questo terzo volume della saga, intitolato I Figli di Dune, tutto si riduce ad una questione di famiglia. Leto II ripercorre i passi del padre Paul, affrontando pari pari le stesse visioni e facendo le medesime riflessioni anche se con esiti differenti. Gli altri personaggi sono gli stessi di sempre e mettono in piedi complotti e contro-complotti che sono difficili da seguire. Herbert, con il suo stile dico/non dico, non aiuta affatto il lettore nel districarsi tra di essi. Manca empatia con i protagonisti, in particolare con Leto che sa sempre cosa succederà (ma non lo dice a nessuno, anche perché se lo facesse sarebbe inutile continuare a leggere il resto del romanzo). La cerchia ristretta di personaggi rende vani alcuni colpi di scena ed è un peccato, soprattutto quando si ha a disposizione un intero universo. Il ritmo è lento e un buon centinaio di pagine sono di troppo. In definitiva un capitolo che porta avanti le incredibili vicende di Arrakis, appoggiandosi su di un intreccio complesso ma frastagliato, con dinamiche per larga parte prevedibili, salvandosi in un finale che lascia presagire importanti cambiamenti ma non soddisfa appieno.

Se nel primo volume di questa trilogia Mervyn Peake ha costruito il microcosmo di Gormenghast, in questo seguito, intitolato per l’appunto Gormenghast, lo distrugge pezzo dopo pezzo. Dopo una prima parte che ricalca le atmosfere grottesche e bizzarre del suo predecessore, il romanzo prosegue poi su un binario differente, più cupo e malvagio. Il personaggio chiave è Ferraguzzo sempre più disposto a tutto per ottenere il potere. Il giovane conte Tito è un ribelle che mina dall’interno le fondamenta del castello di Gormenghast mettendo a dura prova le solide mura di pietra e i suoi immemorabili rituali. Lo stile di Peake è unico, fatto di descrizioni dettagliate ma mai noiose, dialoghi scorrevoli (sempre divertenti gli scambi di battute tra il dottor Floristrazio e la sorella Irma) e colpi di scena spiazzanti. Non so sinceramente cosa aspettarmi dal terzo capitolo ma anche se non dovesse essere all’altezza di questi primi due, sono contento di essermi perso ancora una volta per gli immensi corridoi e le infinite stanze di Gormenghast.

C’è ruggine dalla pioggia

Le canzoni di Siv Jakobsen mi hanno sempre affascinato perché sfuggono quando cerco di ricordare una melodia, un ritornello. Prendono forma nell’istante in cui le ascolto e subito dopo spariscono lasciando solo una debole traccia. Per quanto mi possa sforzare a capire da dove nasce la natura eterea della musica di questa cantautrice norvegese, non ci riuscirò mai davvero. Anche se non sembra lusinghiero definire la musica in questi termini (inevitabile pensare che all’aggettivo “dimenticabile”), trovo invece che in alcuni rari casi lo sia. La conferma che a Siv Jakobsen piaccia giocare con queste sonorità arriva anche con il suo terzo album, Gardening, uscito lo scorso gennaio.

Siv Jakobsen
Siv Jakobsen

Un esempio perfetto di quello che intendo riguardo alla musica della Jakobsen arriva da canzoni come Small, scarna ed essenziale ma carica di significato e profondamente liberatoria, oppure la conclusiva The Bay. Non mancano brani più luminosi come la bella Romain’s Place o Birthday che prende il volo leggera. Tra le mie preferite c’è la viscerale ma poetica, Tangerine. Non è da meno Most Of The Time che ricompone i fili della memoria mentre un turbine di sentimenti contrastanti ispira la delicata Blue. Il contrasto con la musica evanescente e il testo duro di Bad By Design, ci fanno apprezzare un’altra delle caratteristiche della Jakobsen che continua ad incantare con la voce, sempre fragile e sommessa ma capace di toccare le corde giuste. Succede anche quando sceglie di affiancarsi ad un’altra artista di talento con Ane Brun nella misteriosa Sun, Moon, Stars. La title track Gardening è forse la canzone più orecchiabile di questo album, riproponendoci le sonorità tipiche di quest’artista.

Gardening conferma le mie impressioni che da sempre accompagnano la musica di Siv Jakobsen. Atmosfere rarefatte, melodie fragili e voce sommessa sono le caratteristiche che, probabilmente, sono connaturate nello stile di questa cantautrice e difficilmente lasceranno posto ad altro in futuro. L’album, anche questa volta, scorre via senza intoppi, sempre coerente con sé stesso, sempre legato ad una precisa scelta stilistica, in bilico tra parole e musica. Non sempre infatti la scelta dell’accompagnamento riflette il tono della parole ma è proprio qui che risiede gran parte del fascino della musica della Jakobsen. Gardening, come gli altri suoi album, non rappresenta un ascolto semplice ed immediato e anche se si riuscisse a cogliere qualcosa in più di una melodia o di un ritornello, questo sfuggirà inevitabilmente, lasciandoci la voglia di riascoltare di nuovo questa o quella canzone, riscoprendola, come fosse la prima volta.

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Mi ritorni in mente, ep. 88

Tra le uscite dello scorso anno mi sono lasciato scappare, per così dire, l’album Peculiar, Missouri del cantautore e poeta statunitense Willi Carlisle. Si tratta del suo secondo disco ma non mancherò di approfondire la sua discografia il prima possibile. Inutile aggiungere che sono bastati pochi ascolti per ammirare la sua capacità di raccontare storie ed essere sincero con chi ascolta, catturato dalla sua voce e dal carisma del classico artista country un po’ scapestrato.

Oggi vi propongo Vanlife solo perché ho dovuto fare una scelta e questa canzoni è anche accompagnata da un bel video. Ma ci sono molte canzoni che meritano un ascolto in questo Peculiar, Missouri. Come ad esempio la splendida ballata Tulsa’s Last Magician o Este Mundo dalle melodia messicane. Non posso non invitarvi ad ascoltare anche l’intensa I Won’t Be Afraid o Rainbow Mid Life’s Willow che ricorda le sonorità folk anglosassoni. Oppure se vi piace il bluegrass, The Down and Back fa per voi ma se preferite qualcosa di più particole c’è la title track Peculiar, Missouri, interamente recitata. Insomma c’è un po’ di tutto in questo album e questa Vanlife ne è solo un assaggio.

Una mentina in tasca e una pallottola tra i denti

Ho l’abitudine a non lasciarmi influenzare troppo da ciò che gli artisti raccontano riguardo alla loro musica. Le varie interviste che rilasciano in occasione dell’uscita del nuovo album sono numerose (tanto più sono famosi) ma io non le leggo spesso, quasi mai a dire la verità. Da quel che so, Margo Price, è riuscita a dire definitivamente addio all’alcol che le stava causando non pochi problemi ma a quanto pare non sa rinunciare al fumo e a occasionali “viaggi” indotti dai funghi allucinogeni. Molte di queste cose sono anche scritte nel suo libro autobiografico Maybe We’ll Make It uscito lo scorso anno e che racconta gli anni più difficili della sua carriera e della sua vita. Anche se personalmente preferisco mettere da parte tutte queste cose almeno per un momento quando ascolto per la prima volta un album, il nuovo Strays è frutto di tutti questi cambiamenti che spingono la Price a superare le regole del country.

Margo Price
Margo Price

In Been To The Mountain è una carrellata di immagini legate ai ricordi e alle contraddizioni di una vita al limite. Il country rock dalle contaminazioni psichedeliche è la cifra stilistica dell’album e questa traccia di apertura lo mette subito in chiaro. Lo stesso vale per la bella Change Of Heart, una delle canzoni più potenti che io ricordi di Margo Price, soprattutto musicalmente. Non è da meno Light Me Up che è un crescendo country rock che vede la partecipazione di Mike Campbell. Insieme a Sharon Van Etten dà vita a Radio un orecchiabile inno al diritto di poter stare un po’ in santa pace, lontano da tutto e da tutti. Forse la canzone più inedita per questa cantautrice è Time Machine dalle tinte luminose e dal gusto pop. Il resto dell’album si muove tra ballate country come la splendida County Road che si dispiega in un fiume di parole lungo i suoi sei minuti, oppure la poetica e solitaria Landfill che chiude l’album. Alle collaborazioni partecipa anche la band statunitense Lucius nel rock lento di Anytime You Call. Completano l’album la dolorosa Hell In The Heartland e la cupa e scarna Lydia, che scava a fondo, senza mezzi termini o giri di parole. Una delle canzoni più dure della Price, non solo di questo album.

Strays ci restituisce l’immagine di una Margo Price in pieno controllo della sua musica e della sua carriera artistica. Tanto spazio a canzoni liberatorie ma anche a quelle più riflessive, tutte con la volontà di ribadire ancora una volta che le cose cambiano e si può iniziare una vita nuova. Un album che in qualche modo sancisce una rinascita personale e una maggiore convinzione di percorrere la strada intrapresa già con il precedente That’s How Rumors Get Started. Ciò che ho sempre amato della musica di Margo Price è il contrasto tra la sua voce pulita e apparentemente innocente con la sua immagine di cattiva ragazza e la sua storia difficile. Anche se, per sua stessa ammissione e senza dimenticare che nella vita privata è anche moglie e madre, non tutto è come appare e c’è anche un po’ di costruzione del personaggio ma Strays è finora è il suo album che rimarca di più questo contrasto. Un ottimo album senza alti e bassi che viaggia a velocità costante e, senza trovare resistenza, si fa spazio con energia per le strade della vita.

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