L’ultimo album della cantautrice inglese Gabrielle Aplin risale al 2015 e si intitola Light Up The Dark. Da allora questa giovane artista ha pubblicato un paio di EP, Miss You e Avalon, dove lasciava intendere che la decisa svolta pop era una cosa seria. Seguo Gabrielle Aplin sin dai suoi esordi e l’evoluzione della sua musica è stata rapida e decisa. Il nuovo Dear Happy ha avuto una lunga gestazione ma alla fine ha visto la luce, ribaltando, a partire dalla copertina, il buio grigiore del suo predecessore. Anche se i singoli tendevano ad un pop moderno e mainstream, non incontrando i miei gusti musicali, non potevo tirarmi indietro. Gabrielle Aplin è una di quelle artiste che, avendole seguite fin dagli inizi, hanno un posto speciale nella mia musica.
Until The Sun Comes Up apre l’album con il suo pop che inizia in modo sommesso per esplodere poi nel ritornello. La Aplin non rinuncia alla melodia ma lascia ampio spazio ai ritmi elettronici del pop di oggi, “We’ve got a life but it’s never enough / It got us down so we’re givin’ it up / We don’t care if it’s right or it’s real love / We’re not lettin’ go of tonight till the sun comes up“. La successiva Invisible ribadisce le atmosfere del brano precedente, rafforzandole con maggiore convinzione. Si muove bene, la Aplin, facendo attenzione a non risultare troppo scontata, “Gettin’ through to you can feel like runnin’ on flames / You’re tryna chase your troubles away / And you’re burnin’ like a storm that’s gettin’ ready to break / Give nothin’ away, no“. Non mancano le ballate e One Of Those Days è una di queste. Una canzone che è una riflessione sulla vita, sui momenti difficili che si possono presentare e hanno toccato da vicino questa artista e la sua musica, “It’s just one of those days / It’s just one of those days / It’s just one of those days / When grace seems far away / Maybe I will never change / Tell me I’m goin’ through a phase / ‘Cause it’s just one of those days / When grace seems far away“. Kintsugi prende spunto dalla pratica giapponese di riparare la ceramica con l’oro. Qui c’è da rimettere insieme i pezzi della vita e chissà se c’è qualcuno in grado di farlo rendendola ancora più preziosa, “My life will be a map you can trace / Every little part of the story / Make it beautiful and golden with grace / But keep a little stain to remind me“. Strange prende spunto da buona parte delle sonorità del pop moderno. Una venatura dark e un groove ben riuscito, danno dimostrazione del talento della Aplin, “Isn’t it strange? / I don’t wanna walk away / I just wanna go wherever heaven takes me / Even through the flames / Isn’t it strange, / How I don’t want to play it safe? / This ain’t gonna be forever / Like the petals on the rose you gave / But isn’t it strange?“. La canzone più bella è My Mistake. Gabrielle Aplin si mostra fragile in una toccante dichiarazione di debolezza. La voce sembra sul punto di spezzarsi più volte e il messaggio è chiaro e intenso, dando prova di maturità. Da ascoltare senza indugi, “Am I jaded? / Am I meant to feel this way? / I’m a loser, getting beat by my own game / But if I falter, well at least it was my mistake / Oh, at least it was my mistake / ‘Cause I choose to be this way / I’m a loser, and I self-deprecate / So when I falter, well at least it was my mistake“. Con Like You Say You Do si torna al pop leggero e spensierato. Orecchiabile e di presa facile, questa canzone si incastra alla perfezione nello spirito dell’album, “Oh, maybe I’m blind, losing my mind, but / I just can’t see it, the way you say you’re feeling / I don’t want your words, give me a sign / Just act like you mean it / ‘Cause I’m only gonna tell you one more time“. Losing Me vede la partecipazione JP Cooper trascina anche la Aplin in un pop rappato che non brilla di originalità ma che vince facile, “Just take a breath love / Fill your lungs up / Rest your head / There’s no sense in losing sleep“. Segue So Far So Good che si poggia sulle pulsazioni elettroniche che accompagnano le parole, scelte più per il loro suono che il significato, “We’ve come so far / And so far, it’s been out of sight / We’ve come so far / And so far, it’s been what I like / We’ve come so far / And so far, so good / So good, so good, so good, so good“. Anche Nothing Really Matters punta tutto sull’energia del pop e la vitalità della sua interprete. Deve ammettere che ha un buon tiro ed è tra quelle che salverei, “I always thought that the grass somewhere was greener / And I accept that I’ve always been a dreamer / Tryna control, I learn to let go, just / Don’t let me go, no“. Magic prova a riscoprire la magia dell’amore, che si è un po’ persa nella frenesia dei giorni nostri. Gabrielle dimostra di essere a suo agio e la canzone scivola via, leggera, “No we don’t feel the need for colorful displays / ‘Cause it’s not the kind of game we play / And why should we show the world how we feel / When it’s not about them anyway“. Love Back si allontana dalla strada tracciata in precedenza e si appoggia ad un bel pop rock. Quasi sorprende trovare una canzone come questa, dal gusto dei duemila, all’interno di questo album. Brava Gabrielle, “Always your way / Won’t bend, we break / I give, you take / And now I’m runnin’ out / Of patience, I’m waitin’ / You’re so disappointin’ / ‘Cause I give, you take / And now I’m runnin’ out“. Miss You non è inedita, faceva già parte dell’EP omonimo ma ben si inserisce in questo disco. In qualche modo a precorso i tempi, svelandoci la nuova veste di questa artista, “Will you be my best friend? / Will you be my last? / I need somebody who can love me like that / You be my best friend / Will you be my last? / I need somebody who can love me like that“. La title track Dear Happy è una deliziosa ballata al pianoforte che cresce verso un pop epico. La Aplin ben interpreta lo spirito della canzone, lasciando che la sua voce diventi veicolo di sensazioni più delle parole, “Dear Happy, don’t go / Not there but I’m close / I just always thought I’d never win / Dear Happy, you see / It’s not easy for me / But I know that I’m close“.
Non posso nascondere le perplessità che nutrivo riguardo al nuovo corso intrapreso da Gabrielle Aplin e il suo Dear Happy che avrebbe potuto rappresentare un definitivo abbandono delle sonorità acustiche e il pop cantautorale. Se il precedente album si poneva a metà tra pop mainstream e indie, questo nuovo lavoro pende decisamente a favore del primo. Delle quattordici tracce che lo compongono forse due o tre potevano essere tenute da parte ma dato che si tratta del primo album dopo cinque anni, è giusto che vadano a completare l’opera. Al di là del pop moderno, che non mi fa impazzire ma per il quale la Aplin si fa comunque apprezzare, ci sono delle ottime canzoni lì in mezzo. La Gabrielle che ho conosciuto in passato non è affatto scomparsa, è solo un po’ nascosta, fagocitata forse, dal pop facile. Come ho già scritto in passato, queste canzoni sono come caramelle, non placano la fame e una ogni tanto non fa male.
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