Errori, felicità e caramelle

L’ultimo album della cantautrice inglese Gabrielle Aplin risale al 2015 e si intitola Light Up The Dark. Da allora questa giovane artista ha pubblicato un paio di EP, Miss You e Avalon, dove lasciava intendere che la decisa svolta pop era una cosa seria. Seguo Gabrielle Aplin sin dai suoi esordi e l’evoluzione della sua musica è stata rapida e decisa. Il nuovo Dear Happy ha avuto una lunga gestazione ma alla fine ha visto la luce, ribaltando, a partire dalla copertina, il buio grigiore del suo predecessore. Anche se i singoli tendevano ad un pop moderno e mainstream, non incontrando i miei gusti musicali, non potevo tirarmi indietro. Gabrielle Aplin è una di quelle artiste che, avendole seguite fin dagli inizi, hanno un posto speciale nella mia musica.

Gabrielle Aplin
Gabrielle Aplin

Until The Sun Comes Up apre l’album con il suo pop che inizia in modo sommesso per esplodere poi nel ritornello. La Aplin non rinuncia alla melodia ma lascia ampio spazio ai ritmi elettronici del pop di oggi, “We’ve got a life but it’s never enough / It got us down so we’re givin’ it up / We don’t care if it’s right or it’s real love / We’re not lettin’ go of tonight till the sun comes up“. La successiva Invisible ribadisce le atmosfere del brano precedente, rafforzandole con maggiore convinzione. Si muove bene, la Aplin, facendo attenzione a non risultare troppo scontata, “Gettin’ through to you can feel like runnin’ on flames / You’re tryna chase your troubles away / And you’re burnin’ like a storm that’s gettin’ ready to break / Give nothin’ away, no“. Non mancano le ballate e One Of Those Days è una di queste. Una canzone che è una riflessione sulla vita, sui momenti difficili che si possono presentare e hanno toccato da vicino questa artista e la sua musica, “It’s just one of those days / It’s just one of those days / It’s just one of those days / When grace seems far away / Maybe I will never change / Tell me I’m goin’ through a phase / ‘Cause it’s just one of those days / When grace seems far away“. Kintsugi prende spunto dalla pratica giapponese di riparare la ceramica con l’oro. Qui c’è da rimettere insieme i pezzi della vita e chissà se c’è qualcuno in grado di farlo rendendola ancora più preziosa, “My life will be a map you can trace / Every little part of the story / Make it beautiful and golden with grace / But keep a little stain to remind me“. Strange prende spunto da buona parte delle sonorità del pop moderno. Una venatura dark e un groove ben riuscito, danno dimostrazione del talento della Aplin, “Isn’t it strange? / I don’t wanna walk away / I just wanna go wherever heaven takes me / Even through the flames / Isn’t it strange, / How I don’t want to play it safe? / This ain’t gonna be forever / Like the petals on the rose you gave / But isn’t it strange?“. La canzone più bella è My Mistake. Gabrielle Aplin si mostra fragile in una toccante dichiarazione di debolezza. La voce sembra sul punto di spezzarsi più volte e il messaggio è chiaro e intenso, dando prova di maturità. Da ascoltare senza indugi, “Am I jaded? / Am I meant to feel this way? / I’m a loser, getting beat by my own game / But if I falter, well at least it was my mistake / Oh, at least it was my mistake / ‘Cause I choose to be this way / I’m a loser, and I self-deprecate / So when I falter, well at least it was my mistake“. Con Like You Say You Do si torna al pop leggero e spensierato. Orecchiabile e di presa facile, questa canzone si incastra alla perfezione nello spirito dell’album, “Oh, maybe I’m blind, losing my mind, but / I just can’t see it, the way you say you’re feeling / I don’t want your words, give me a sign / Just act like you mean it / ‘Cause I’m only gonna tell you one more time“. Losing Me vede la partecipazione JP Cooper trascina anche la Aplin in un pop rappato che non brilla di originalità ma che vince facile, “Just take a breath love / Fill your lungs up / Rest your head / There’s no sense in losing sleep“. Segue So Far So Good che si poggia sulle pulsazioni elettroniche che accompagnano le parole, scelte più per il loro suono che il significato, “We’ve come so far / And so far, it’s been out of sight / We’ve come so far / And so far, it’s been what I like / We’ve come so far / And so far, so good / So good, so good, so good, so good“. Anche Nothing Really Matters punta tutto sull’energia del pop e la vitalità della sua interprete. Deve ammettere che ha un buon tiro ed è tra quelle che salverei, “I always thought that the grass somewhere was greener / And I accept that I’ve always been a dreamer / Tryna control, I learn to let go, just / Don’t let me go, no“. Magic prova a riscoprire la magia dell’amore, che si è un po’ persa nella frenesia dei giorni nostri. Gabrielle dimostra di essere a suo agio e la canzone scivola via, leggera, “No we don’t feel the need for colorful displays / ‘Cause it’s not the kind of game we play / And why should we show the world how we feel / When it’s not about them anyway“. Love Back si allontana dalla strada tracciata in precedenza e si appoggia ad un bel pop rock. Quasi sorprende trovare una canzone come questa, dal gusto dei duemila, all’interno di questo album. Brava Gabrielle, “Always your way / Won’t bend, we break / I give, you take / And now I’m runnin’ out / Of patience, I’m waitin’ / You’re so disappointin’ / ‘Cause I give, you take / And now I’m runnin’ out“. Miss You non è inedita, faceva già parte dell’EP omonimo ma ben si inserisce in questo disco. In qualche modo a precorso i tempi, svelandoci la nuova veste di questa artista, “Will you be my best friend? / Will you be my last? / I need somebody who can love me like that / You be my best friend / Will you be my last? / I need somebody who can love me like that“. La title track Dear Happy è una deliziosa ballata al pianoforte che cresce verso un pop epico. La Aplin ben interpreta lo spirito della canzone, lasciando che la sua voce diventi veicolo di sensazioni più delle parole, “Dear Happy, don’t go / Not there but I’m close / I just always thought I’d never win / Dear Happy, you see / It’s not easy for me / But I know that I’m close“.

Non posso nascondere le perplessità che nutrivo riguardo al nuovo corso intrapreso da Gabrielle Aplin e il suo Dear Happy che avrebbe potuto rappresentare un definitivo abbandono delle sonorità acustiche e il pop cantautorale. Se il precedente album si poneva a metà tra pop mainstream e indie, questo nuovo lavoro pende decisamente a favore del primo. Delle quattordici tracce che lo compongono forse due o tre potevano essere tenute da parte ma dato che si tratta del primo album dopo cinque anni, è giusto che vadano a completare l’opera. Al di là del pop moderno, che non mi fa impazzire ma per il quale la Aplin si fa comunque apprezzare, ci sono delle ottime canzoni lì in mezzo. La Gabrielle che ho conosciuto in passato non è affatto scomparsa, è solo un po’ nascosta, fagocitata forse, dal pop facile. Come ho già scritto in passato, queste canzoni sono come caramelle, non placano la fame e una ogni tanto non fa male.

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Come limonata rosa

Alexandra Saviour fu una delle belle scoperte che feci sul finire del 2018. L’album che ascoltai era Belladonna Of Sadness uscito l’anno precedente. Un album per certi versi misterioso che ci faceva conoscere, al suo esordio, un’artista dall’indubbio talento e fascino. Quest’anno ha pubblicato The Archer, che ripercorre gli ultimi tre anni, nei quali ha dovuto cambiare casa discografica non senza conseguenze sulla sua produzione. Essendo una cantautrice sulla rampa di lancio che propone un genere un po’ diverso dai miei soliti, non volevo perdermi il secondo capitolo della sua carriera.

Alexandra Savior
Alexandra Savior

Si inizia con Soft Currents. Una ballata al pianoforte, notturna e poetica. La sfortuna, gli errori e la tristezza fanno parte della vita. La Saviour canta con voce fragile e ci regala uno dei momenti più toccanti dell’album, “Seven years / I’ve had seven years of bad luck / And I’m just fine / Happiness / I find happiness in the wrong places / Every time / My fate is at the hands of my mistakes / And that’s alright“. Saving Grace riprende le sonorità alternative rock del suo esordio. Le chitarre prendono il sopravvento e la voce si fa tagliente. Una canzone dal significato oscuro, nella quale perdersi e trarre ciascuno le proprie impressioni, “Saving grace / Come here to petrify me / She’s not an angel, my dear / She is a beast“. Crying All The Time ripercorre i momenti difficile legati alla fine di una relazione e al cambio di vita. Alexandra Saviour mette nero su bianco tutto il suo dolore, senza nascondere le sue emozioni, in un rock vintage dalle tinte scure, “My death, it haunts him like a ship / Without a sail / I know I’ll be gone soon / But just for him, I will prevail“. Segue Howl che ritorna sullo stesso argomento. La Saviour prende il comando della canzone e la guida su più strati di synth che si sovrappongono. Emergono le difficoltà di questa relazione attraverso le parole e la musica, “Handsome dictator of my crimes / I can’t tell if they’re yours, I can’t tell if they’re mine / Sweet revelation bitter wine / I’m dreaming but mostly I’m feeling behind“. Send Her Back è un brano criptico, prevalentemente musicale nel quale la Saviour incanta con la voce, giocando a fare la misteriosa, “Life must go on / Spite it all, you’ve been guilty / Last kiss, hold your horses / Why don’t you send her back where she came from? / Why don’t you send her back where she came from?“. La successiva Can’t Help Myself illumina questo album con un pop rock vintage ma sempre affascinante. Una canzone nel quale l’amore è protagonista ma non è esente da quel malessere di fondo che è l’anima dell’album, “Light dims as he walks my way / I’ve been running for a reason I could never retain / Sweet lips like pink lemonade / When he’s feeling generous he’s gonna give me a taste“. The Phantom sembra uscito direttamente dal precedente lavoro della Saviour. Due linee vocali si sovrappongono su un sfondo di chitarre distorte. Il mistero di un amore e di un dolore, “Fell in love as a lone disciple / His altar at the root of my fate / Fell in love on a lonely night / Could predict every word he’d never convey“. In Bad Disease ritroviamo le immagini horror che hanno caratterizzato l’esordio di questa cantautrice che spicca per immaginazione e fantasia. Una canzone che affonda ancora di più un buio senza uscita, “His jacket calls me with obsidian blade / He’s got a knack for spittin’ blood over red lipstick stains / I drank the venom from the cobra ‘round his neck / Made it my life mission to feel that again“. But You è una solitaria ballata rock. Alexandra non smette di fare la misteriosa e ci trascina in un turbine ammaliante di musica e parole, “The wilted edge of a lonesome mattress / I lay my head there until the feeling passes / It’s sinking in just as time relapses / I hope that you can feel it / ‘Cause nobody else can heal it but you“. L’album si chiude con la title track The Archer. Una ballata riflessiva nella quale la Saviour ripercorre quella relazione sfortunata che ha segnato le atmosfere di questo album, “Don’t need to tell you but your arrow’s made of stars / And the shot that you’ve made punched it straight into my heart / It’s a little ignorant but everybody’s saying that forever is the place where you and I were made“.

The Archer è la naturale prosecuzione del precedente Belladonna Of Sadness, nel quale si percepiva un maggiore distacco emotivo e un minore coinvolgimento personale. Nel nuovo album, Alexandra Saviour, non rinuncia alle sonorità che l’hanno caratterizzata ma trova più spazio per sé stessa all’interno di esse. C’è spazio per la sua vita, una relazione finita male che si riversano prepotenti in ogni strofa. Non c’è spazio per momenti leggeri e spensierati, tutto appare ripiegato su sé stesso senza via d’uscita, ma la voce, quella voce così fragile e carica di mistero, può essere la chiave per rivedere la luce. Insomma, The Archer, è un album per sua natura oscuro e triste ma capace di rivelarsi ricco di spunti poetici affascinanti.

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Un altro tipo di incantesimo

Si comincia con le nuove uscite discografiche del 2020 e per farlo ho scelto, Valley In The Mirror, debutto della giovane cantautrice americana Erin Rea, in arte Rorie. In passato avevo già apprezzato i suoi due EP, Singing & Silence del 2016 e Dawn uscito l’anno successivo. Il suo album di debutto uscirà il prossimo 31 gennaio ma ho potuto riceverlo in anticipo per il semplice fatto che ho partecipato alla sua campagna di crowdfunding. Mi piace partecipare a queste iniziative, se si tratta di musica, perché mi sento coinvolto della realizzazione di un album, regalandomi spesso la soddisfazione di ascoltarlo in anticipo. Ero curioso di scoprire l’evoluzione della musica di Rorie e non ci ho pensato due volte ad aiutarla a realizzare Valley In The Mirror.

Rorie
Rorie

Si parte con l’eccellente Dance, una canzone ispirata dalla forza dell’amore. La musica elettronica è potente, addolcita dalla voce di Rorie. Mi ha ricordato Papillon degli Editors e questo è un bene, “Train rides up and down the coast / Kissing you standing in the snow / Oh we know it won’t be easy / But I promise it’ll be the real thing“. Segue Train un evocativo pop riflessivo. Una delle canzoni più belle di questo album, ben bilanciata tra ritmi elettronici e canzone d’autore, “We’ve been running circles in this town / Caught a cab and rode it round and round / I know I’ve been driving you insane, but / We will, we will catch that train“. Drift mette da parte l’elettronica e sceglie un accompagnamento più acustico e vario. Una canzone con una struttura delicata, pervasa da una sentimento malinconico che trova compimento nella voce di questa cantautrice, “I know it’s time to face this life / And take some time to figure it out cause / How can I explain the ways of someone else / When I don’t understand myself?“. Lion On The Highway vira verso un pop moderno ma il linea con il resto dell’album. Melodia e ritmo si incontrano a formare un’altra canzone non priva di fascino e mistero, arricchita da un testo forte, “Heard there’s a grace that meets you where you’re at / Wanna believe in a love like that / A seat at the table, place to hang your hat / Knows what we need before we ask“. La successiva Love Alive vede Rorie alle prese con un brano ambizioso e spirituale. Una canzone celebrativa nella quale non manca un approccio dance moderno, “I’ve been wrapped up in a story of love / Can’t get it out of my head / It shines in the dark, awakens our hearts / Brings to life what was dead / Hallelujah I have been set free / And my ever wandering heart can see“. Sun è un bel pezzo pop rock anni ’90. Il cambio di registro è repentino e per questo sorprendente. Non sorprende invece il talento di questa ragazza che ci sa fare anche in questa occasione. Ce ne vorrebbero di più di canzoni così al giorno d’oggi, “Now I’m sinking in the depths of the sun / Can’t pretend to hide from anyone / There’s no holding back the light to stay / Where I’ve been waiting, where I’ve been waiting“. Up In Smoke ci riporta con prepotenza nelle meraviglie dell’electro pop. Le pulsazioni elettriche contrastano con la voce fragile di Rorie accompagnata Charlotte Martin. Tutto appare frammentario e decadente. Qui c’è davvero un attenzione alla musica, alla sua struttura, funzionale alla canzone, “Try to sort it all in boxes, and act like I don’t care / But it wraps around the chimney in the winter air / We could’ve still been friends but we said too much / It was a slow burn but it’s speeding up“. Si prosegue con Just Right che si affida al suono di un pianoforte. Qui è la semplicità della musica, la sua rassicurante poesia e le atmosfere notturne a vincere su tutto. Rorie dimostra di essere una cantautrice completa, “You’ve got me running back to your car / Abandoning my broken heart / Believe me love, we will make it / Pieces of a new mosaic“. Apogee è un canzone che cerca di abbracciare tutto ciò che abbiamo sentito finora: pop, elettronica e rock. Un brano che affronta il sentimento potente della solitudine, concedendo speranza, “Awake, watching the car lights / You never sleep at night anyway / On your face, shades and colors / We’re running from another kind of spell“. L’album si chiude con Cadence. Anche qui c’è un’ispirazione spirituale, religiosa. Rorie ci delizia con la sua voce delicata e confortante, in una canzone epica e conclusiva, “What was lost surely will be found / Your glory echoes out through all that’s yet to come / I will rise knowing that you’ve won / Time is marching on to the sound of love / The sound of love, your love your love“.

Valley In The Mirror è un album che mi ha sorpreso positivamente. Rorie copre tutte le vie del pop. C’è l’elettronica, ci sono le ballate al pianoforte, il rock. La crescita rispetto ai due precedenti EP è evidente sotto ogni aspetto. I testi, sempre ispirati e mai banali, sono cantati con la voce giovane di quest’artista che con gli anni si è fatta sempre più sicura di sé stessa. Nonostante le sonorità siano piuttosto variegate in questo album, si riesce a cogliere un mood di fondo che accompagna ogni singola traccia. Difficile scegliere la migliore tra queste canzoni, ognuna di esse racchiude qualcosa di speciale. Rorie ha fatto centro con questo suo esordio, sapendo aspettare il momento giusto per far brillare la sua stella, che spero di continuare ad ammirare anche in futuro.

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La prova del nove

Oggi questo blog arriva al suo nono anno di vita. Quest’ultimo anno è stato quello più ricco di visite di sempre ma non sono qui a scrivere per vantarmene. Mi interessano poco questo genere di numeri. Ciò che mi sorprende di più, e succede ogni anno che passa, è la quantità di tempo che ho dedicato a questo blog. Quest’anno, in modo particolare, non ho recensito tutti gli album che ho ascoltato e i libri che ho letto. Questa cosa, anche se può sembrare un mancato obiettivo, in realtà la vedo in positivo. Mi sono sentito più libero di ascoltare e leggere quello che volevo senza necessariamente condividerlo con voi. Ciò che mi è piaciuto di più è ovviamente giunto su questo blog allo scopo di consigliarvi tale disco e tale libro. Mi sono impegnato e qualcosa in più riguardo alle mie letture l’ho postato, lo stesso vale per il cinema. Vorrei riuscire a vedere qualche film in più ma il tempo è quello che è. Riesco a soddisfare meglio la mia curiosità per quanto riguarda i libri e quest’anno posso dire di avere spuntato diversi titoli della mia lista d’attesa. Tutto questo anche grazie all’acquisto di un lettore ebook che per qualche motivo mi invoglia a leggere più spesso, sperimentando anche qualche genere diverso dai miei soliti. Sul fronte musicale continua il mio percorso alla scoperta di nuovi artisti e spaziando su più fronti ho trovato diverse cose interessanti. Ma come scrivevo sopra, alcune di queste sono rimaste fuori, per forza di cose, dal blog. Ma lasciate che in questa occasione possa scrivere di tre argomenti che riguardano direttamente o indirettamente questo blog: il ruolo delle donne nella mia musica, la musica italiana e la musica oggi.

Il ruolo delle donne nella mia musica. Chi mi segue da tempo avrà sicuramente notato quante ariste donne siano presenti nella mia musica preferita. Non mi sono mai messo a contare quante sono ma credo che si avvicinano al 90% della mia collezione. E pensare che fino a qualche anno fa non era affatto così. Tutto è cominciato per caso quando ho iniziato ad ascoltare il primo album di Amy Macdonald. Capii che c’era un panorama musicale al femminile che non fosse quello sovraesposto del pop da classifica. Da allora sono entrato in una sorta di circolo vizioso. Sì, credo di poterlo chiamare così: un circolo vizioso. Nel caso degli artisti uomini, tendo a preferire quelli che hanno un timbro vocale particolare o le band ma nelle donne non ho particolari preferenze. Ed è proprio per questo che faccio fatica ad uscire dal giro. Oggi viviamo in un epoca in cui le donne vogliono farsi sentire sempre più forte e dal mio (maschile) punto di vista ci stanno riuscendo particolarmente bene nel mondo della musica. E non sono solo io a dirlo. Le artiste oggi sono un passo avanti rispetto agli uomini in quanto ad intraprendenza e coraggio anche se, in generale, faticano a trovare spazio nelle radio. Personalmente credo che nell’era di internet e dei social, sperare nelle radio per avere visibilità sia una cosa sorpassata. Penso sia una questione di principio ormai, solo per rivendicare una parità di trattamento con gli uomini. Non sono un maschilista, la mia musica e questo blog sono lì a dimostrarlo e non posso definirmi femminista in quanto uomo. Per me le donne nella musica, e nell’arte in generale, ci presentano un modo con occhi diversi rispetto ad un uomo. Può sembrare banale ma la penso così. La verità è quasi non mi accorgo di scegliere spesso artiste di sesso femminile. Per me non c’è nessuna differenza ma l’ago della bussola punta sempre, e per qualche motivo, in quella direzione. In definitiva, se non ci fossero state le donne, mi ritroverei con un pugno di artisti da ascoltare e forse questo blog non avrebbe avuto l’aspetto che ha ora e non avrebbe raggiunto il suo nono anno di vita.

La musica italiana. Ahi, andiamo a toccare un tasto che ha sempre tormentato le mie opinioni in fatto di musica. Perché non scrivo di musica italiana su questo blog? In realtà in passato l’ho fatto. In un post del 2016 mi sono espresso a riguardo, in seguito al festival di Sanremo di quell’anno (potete leggerlo qui Dopo festival). Il mio rapporto con la musica del Bel Paese continua ad essere conflittuale come allora e la persistente tendenza a generalizzare. Continua a vedere artisti ultra trentenni che non hanno ancora una personalità ben definita e si adattano alla moda pop del momento nel tentativo, inspiegabile, di tenersi buono un pubblico adolescenziale che nel frattempo è cresciuto (o forse no). Io che ho raggiunto i 30 anni trovo inspiegabile come si faccia ad ascoltare artisti come Emma Marrone (tanto per fare un nome) alle prese ancora con patemi d’amore tanto drammatici quanto scontati. Lo so è musica pop ma si potrebbe fare di meglio con poco. A proposito della Marrone, ho ancora impresso nella memoria una terribile versione di La sera dei miracoli di Lucio Dalla. No, non linkerò qui il video, andatevelo a cercare se volete farvi un idea di cosa trovo insopportabile nella musica italiana di oggi. Non sopporto nemmeno i cantautori/ le cantautrici di nuova generazione con la loro spocchia e sicumera. I loro giri di parole, le loro canzoni farcite di paragoni e metafore sempre uguali e fini a sé stesse. Se ascoltate bene le parole non riuscirete a trovare un qualcosa che possa darvi indicazioni di cosa stiano parlando. Sembrano fatte con lo stampino, bell’e pronte per fare citazioni sui social. Lo so, sono pigro quando si tratta di musica italiana e non mi informo abbastanza a riguardo. Chissà, magari qualcuno sa consigliarmi qualche sito o blog pieno di musica italiana interessante. Finora io ho sempre fatto fatica a trovare qualcosa di nuovo da ascoltare, anche nel panorama indipendente. Qualche volta è capitato di provare un po’ di curiosità in merito ad un artista italiano ma non sono andato più in là di un paio di ascolti, sopraffatto dalla fastidiosa sensazione di presunzione che mi trasmettevano. Per favore niente italiani che cantano in inglese! Non avrebbe senso per me che sto cercando di scoprire un certo feeling con la musica italiana e poi, diciamolo, per un italiano cantare in inglese è un ammissione di inferiorità e debolezza nel mercato internazionale. La nostra lingua è musicale e ha un bel suono ma da anni ci ostiniamo a scimmiottare americani ed inglesi perdendo la nostra identità. A pagarne le conseguenze sono sopratutto i cantautori, una volta il nostro vanto ma che oggi sono imbarazzanti per come non riescono a trarre ispirazione dai loro più illustri predecessori. Proposito per l’anno nuovo: trovare uno o più artisti italiani da aggiungere alla mia collezione che oggi vede solo Elio e le Storie Tese e Samuele Bersani.

La musica oggi. Ho letto che passati i 30 anni si tende ad essere nostalgici in fatto di musica. In pratica schifiamo tutto ciò che è nuovo. Sarà vero? Ve lo saprò dire presto. Intanto io continuo ad ascoltare cosa c’è in giro, cosa riempie le classifiche. Posso dire che trovo spaventoso l’appiattimento musicale che percepisco? A me sembrano tutte uguali queste pop star. La musica e i temi si ripetono, come un’invasione di cloni. Il rock è morto si sa, schiacciato proprio da tutto questo rap, hip hop, trap, r’n’b e derivati. Nel corso degli anni ’90 e i primi del duemila nutrivo una certa simpatia per la musica rap. Era qualcosa di nuovo, in controtendenza con il pop commerciale di quegli anni, una rivoluzione. Sporco, cattivo e acuto. Poi è diventato un genere per fighetti ricchi che si vantavano di esserlo alla faccia tua. Gente del ghetto, tutt’altro che simpatica. Anche in Italia, da sempre in ritardo sotto questo aspetto, vanta degli esponenti di riguardo che ancora oggi provano, invano, a mantenere un po’ di credibilità. E da lì in poi secondo me è iniziata la veloce decadenza della musica commerciale. Non c’è stato spazio per nient’altro e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Ma si tratta di mode e di gusti e va bene così, vanno e vengono. Ciò che mi preoccupa di più è che spesso i testi ma ancora di più i video sono espliciti sotto ogni aspetto. Droga e sesso infarciscono ogni secondo di queste canzoni che spesso sono indirizzate ad un pubblico giovane. Non dico che dovrebbero parlare di campi di fiori ma se dovete proprio parlare di droga e sesso fate almeno lo sforzo di celarlo tra le righe e lasciare che sia l’ascoltatore a trarre le sue conclusioni! L’ha fatto per tanto tempo la musica rock ed ha funzionato a meraviglia. Invece no, ve lo sbattono in faccia chiaro e tondo per evitare dubbi o forse perché i loro ascoltatori (e perfino loro stessi) farebbero fatica a comprendere frasi sibilline. Qualche tempo fa era nata una polemica riguardo ad un video di Ariana Grande, e in generale alla sua immagine. A miei tempi il massimo che vedevi su MTV era Britney Spears in una tutina rossa aderente o vestita da scolaretta, oppure Shakira che si rotolava nel fango. Oggi si va oltre tutto questo. La parola d’ordine è “esplicito”. Tutto deve essere esplicito per non far lavorare troppo di fantasia i nostri ragazzi, in nome della libertà d’espressione ed di un’emancipazione sulla quale l’industria discografica ci sta marciando da anni. Ciò che mi sorprende più di tutto è che le donne tendono a difendere artiste come Ariana Grande o Miley Cyrus. Davvero le donne di sentono rappresentate da tutto questo? Non sono forse gli uomini a desiderarlo, sfruttando il corpo delle donne come oggetto? Oggi la musica sembra in mano ai ragazzini e ai loro pruriti, tutto il resto è nascosto e passa quasi inosservato. La situazione si è ribaltata, ciò che prima era confinato nei ghetti oggi è sotto le luci della ribalta, da spremere finché ce ne, il resto è stato confinato a musica per sfigati, vecchi e nostalgici che nel loro ghetto difendono la loro musica da cattive influenze.

Ne avrei da scrivere ancora ma per il momento mi fermo qui. Non vorrei apparire polemico, perché non voglio esserlo. Ognuno è libero di ascoltare la musica che vuole e, credetemi, sono il primo a sostenere che ogni genere ha la sua dignità di esistere. Ci sono generi fatti per ballare, divertire, altri per emozionare, innamorarsi, per diffondere un messaggio. Per quanto riguarda la qualità, quella è soggettiva secondo me ed è una battaglia destinata a non avere vincitori. Ciò che più mi spaventa e non mi piace è il vuoto, l’assenza di uno scopo. Quale futuro ci aspetta?

Come il tordo in inverno

Prima di addentrarsi nelle uscite discografiche del nuovo anno è bene soffermarsi su un album uscito lo scorso dicembre, Awake Arise: A Winter Album del gruppo folk inglese Lady Maisery composto da Hazel Askew, Hannah James e Rowan Rheingans. In compagnia di Jimmy Aldridge e Sid Goldsmith hanno dato vita ad una raccolta di brani tradizionali e non, legati al periodo invernale e alle sue festività. Questo trio al femminile mi aveva già conquistato nel 2016 con il suo Cycle, un album ispirato all’avvicendarsi delle stagioni. Awake Arise è un album speciale e molto particolare, perfetto per questo periodo dell’anno.

Sid Goldsmith - Lady Maisery - Jimmy Aldridge
Sid Goldsmith – Lady Maisery – Jimmy Aldridge

Si comincia con la bella Sing We All Merrily. Una rivisitazione di un brano tradizionale che racchiude tutte le cose belle che l’inverno porta con sé, lo stare insieme, le festività e le luci che illuminano la stagione più buia e fredda dell’anno, “Sing we all merrily and sing with good cheer / For the day we love best of the days of the year / Bring out the holly, the box and the bay / Deck out our cottage for glad Christmas Day“. Segue Up In The Morning Early / The Christmas Road. Una prima parte è dedicata ad una canzone tradizionale raccolta da Robert Burns che poeticamente descrive la bellezza del paesaggio invernale. La canzone è intervallata da una lettura di uno scritto di Laurie Lee tratto dal suo libro intitlato Village Christmas, “Up in the morning it’s not for me / Up in the morning early / When all of the hills are covered with snow / I’m sure that it’s winter fairly“. Bring Hither Now the Holly Bough è una canzone che fa la sua prima apparizione nel 1872. Qui l’inverno diventa l’attesa del ritorno della bella stagione, passata in compagnia festeggiando l’arrivo del Natale, “We’ll wake the viol’s merry strings while tempest clouds advance / And while the pane cracks with big hail we tread the careless dance / Thus shall the soul’s warm summer shine ‘til changeful earth we leave / And the Yule fire and the wassail cup shall cheer our Christmas Eve“. Breve intermezzo recitato Carol Reading / Shortly Before 8.30pm anticipa Hail Smiling Morn. Una canzone cantata a cappella, pescata ancora dalla tradizione inglese, è un inno alla luce contro l’oscurità dell’inverno, “Hail! smiling morn, smiling morn, / That tips the hills with gold, that tips the hills with gold, / At whose rosy fingers open wide the gates of heaven, the gates of heaven, / At whose rosy fingers open wide the gates of heaven“. La successiva Winter Berries passa in rassegna le bacche che caratterizzano questa stagione. Una musica accompagna questo elenco nel quale vengono citate le piante che le producono e il loro colore. Segue a ruota un altro brano tradizionale intitolato The Old Churchyard. Un’altra bella versione di una canzone che ha visto molte versioni, qui particolarmente evocativa e magica, “I know that it’s vain when our friends depart / To breathe kind words to a broken heart; / And I know that the joy of life is marred / When we follow lost friends to the old churchyard“. The Bear Song è una canzone originale che ricalca le sonorità della tradizione. Un accompagnamento musicale semplice ed essenziale fa da sfondo alla voce della Rheingans. Night Came Early è un breve passaggio recitato, tratto sempre dal libro di Laurie Lee. The King riprende con la tradizione. Racconta dell’usanza di catturare un scricciolo, il re degli uccelli, per celebrare la fine dell’inverno, “Joy, health, love, and peace be all here in this place / By your leave we will sing concerning our king / Our king is well dressed in the silks of the best / With the ribbons so rare, no king can compare“. Da Day Dawn / Like As The Thrush In Winter è un brano strumentale intervallato dalla lettura di una poesia di Edmond Holmes. Una intermezzo musicale che scalda il cuore nelle fredde giornate invernali. Segue The Snow It Melts The Soonest che simboleggia il passaggio alla primavera da un punto di vista femminile. Una chitarra accompagna la voce melodiosa della Askew che incarna alla perfezione la drammaticità di questa canzone, “Oh the snow it melts the soonest when the winds begin to sing / The corn it ripens fastest when the frosts are setting in / And when a young man tells me that my face he’ll soon forget / Before we part, I’ll tell him now, he’ll be sure to follow yet“. Snow Falls è una rivisitazione di una canzone di John Tams. Uno dei pezzi più belli e affascinanti di questo album, dalla musica al canto, tutto è perfetto, “And the snow falls / The wind calls / The year turns round again / ‘Til then put your trust in tomorrow my friend / For yesterday’s over and done“. C’è anche spazio per la ricetta del wassail tratta dal libro Food in England di Dorothy Hartley. Il wassail è una bevanda alcolica calda, in questo caso si tratta di birra, al quale vengono aggiunte zucchero, spezie e infine le mele cotte. Segue Cornish Wassail che celebra proprio questa bevanda e il rito che l’accompagna. Una canto corale a cappella, gioioso e trascinante, “It’s Happy New Year, and long may you live / Since you’ve been so kind and willing to give / Long live our wassail, wassail, wassail, wassail / And joy come to our jolly wassail“. Heading For Home è una cover dell’originale di Peggy Seeger. Una riflessione sulla vita, lenta e delicata, ispirata dal clima invernale. Questo gruppo riesce ancora una volta a dare il meglio con semplicità e passione, “My face to the sky, my back to the wind / Winter is entering my bones / The day has been long and night’s drawing in / And I’m thinking of heading for home / And I’m thinking of heading for home“. L’album si chiude con Hope Is Before Us, ispirata da William Morris e i suoi Chants for Socialists del 1885. Una canzone di speranza e resistenza, “Come shoulder to shoulder, for the world grows older / Help lies in none but you and I / Hope is before us, so let our chorus / Bring joy at last to all our lives!“.

Awake Arise: A Winter Album è un qualcosa di più di una semplice raccolta di canzoni, è un compendio sull’inverno, le sue feste, le difficoltà e le gioie che porta con sé e che magicamente si ripetono ogni anno. Ci sono i suoi simboli, le sue usanze e i misteri di una stagione tanto magica quanto dura. Le Lady Maisery trovano in Jimmy Aldridge e Sid Goldsmith i compagni perfetti per un’avventura affascinante. Un album dove trovare dell’ottima musica folk ben interpretata e suonata. Un album che definirei prezioso, che scalda in cuore di chi ascolta. Perfetto per un regalo ma anche da ascoltare soli, da tenersi stretto come un album fotografico a noi caro. Awake Arise: A Winter Album ha chiuso il mio 2019 e mi accompagnerà in questo nuovo anno ancora lungo tutto l’inverno.

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