Fare a pezzi e ricostruire

Devo ammettere che in questi mesi ho dovuto cambiare le mia abitudini, come tutti del resto, e anche se ormai non lavoro più da casa da diverse settimane, ho abbandonato la mia routine e quindi ridotto il tempo che dedico all’ascolto di nuova musica. Fortunatamente le nuove uscite scarseggiano e ho così tempo per recuperare qualche disco pubblicato all’inizio di quest’anno sventurato. Come nel caso di Tear Things Apart, debutto solista di Carolyn Kendrick, cantautrice americana di stanza in quel di Nashville, Tennessee. Si tratta di un EP di sei brani, che mi ha attratto fin dall’inizio per la sua copertina semplice e naturale, e che ad un primo ascolto sembrava celasse del buon folk americano. Invece si è rivelato una sorpresa, molto più vario di quanto le etichette possano descrivere.

Carolyn Kendrick
Carolyn Kendrick

Si comincia con la title track Tear Things Apart, una bella canzone dal gusto classico del folk americano. Una canzone positiva e luminosa, con un accompagnamento ricco e vario ma leggero come una brezza estiva, “I like to tear things apart / Then build them right back up again / I like the feel of the hammer and the nails / In the palm of my hand / It don’t matter if I do the same thing / Over and over again / I like to tear things apart / And build them right back up again“. La successiva Come With Me è una canzone d’amore delicata ed elegante. Anche qui gioca un ruolo fondamentale la musica, che si tiene lontana da qualsiasi definizione, apparendo più libera, “I’m a metaphor, you’re like a simile / I’m a healthy pour and you’re like the glass that / Holds me, holds me / Holds me, holds me / Won’t you hold me, hold me“. Con Mesquite Street, la Kendrick ci sorprende con il suo swing. Rimane davvero poco del folk a stelle e strisce, rivelandosi una sorprendente variazione all’interno di questo EP e sottolineando la versatilità di quest’artista, “Way down on mesquite street / Tequila’s flowing like water and wine / Why don’t we mosey on over / Cause you know we ain’t alive for a long time“. Stick Around rientra in carreggiata, deliziandoci con una bella canzone sulla forza dell’amore. Vibrazioni rock pervadono questo brano ma la voce delle Kendrick addolcisce il tutto, dandogli un nuovo equilibrio, “Just a little longer and I know the feeling will pass / If you wait just a little longer / You can sweep all your worries about us / Underneath the rug, shouldn’t my love be enough / Please stick around, even when the going’s tough“. Un po’ di bluegrass con Little Lorrie. L’amore su una pista da ballo corre veloce, al ritmo di questa canzone. La Kendrick ci regala il lato più folk della sua musica, grazie anche al suo inseparabile violino, “Little Lorrie, little Lorrie’s got her dancing shoes / Little Lorrie, little Lorrie’s got the rhythm and the blues / And the oohs and the aahs, she knows what she wants / I know that she doesn’t want me“. Si chiude con Silver Dagger, una canzone tradizionale cantata con voce eterea e malinconica. Una ragazza costretta dalla famiglia a rinunciare al suo amato, è il tema di questa triste ballata, reinterpretata con un piglio moderno ma rispettoso, “Don’t sing me love songs, you’ll wake my mother / She’s sleeping here right by my side / In her right hand lies a silver dagger / She says that I can’t be your bride“.

Tear Things Apart è stato davvero una sorpresa per me. Nonostante le basi siano vicine al folk americano, o americana, Carolyn Kendrick riesce sempre a discostarsi un po’ da esse, rendendo questo EP vario e, per questo, interessante. C’è la tradizione ma anche una visione più moderna dell’essere autrice ed interprete delle proprie canzoni. Sei brani che racchiudono un background musicale più vasto di quello che possono lasciare intendere. Spero solo che, visti i tempi, questo Tear Things Apart possa vere un seguito al più presto, perché questa artista mi ha incuriosito con la sua versatilità e la particolare attenzione alla musica.

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Serpente a sonagli

Una delle novità che più mi incuriosivano in questa prima metà del 2020, c’era il nuovo album della cantautrice americana, Jaime Wyatt. Il titolo dell’album è Neon Cross e segue quello che può considerarsi a tutti gli effetti il suo debutto, Felony Blues, uscito nel 2017. La vita di questa ragazza non è stata affatto tranquilla ma, tra delusioni discografiche, droga e pure un passaggio in prigione, sembra aver finalmente trovato la sua strada con questo nuovo disco. La sua musica è un country vecchio stile, sempre un po’ malinconico ed oscuro ma anche un po’ irriverente e ribelle. All’epoca Felony Blues mi fece un’ottima impressione e sapevo che questo Neon Cross non mi avrebbe deluso.

Jaime Wyatt
Jaime Wyatt

Si parte con una lunga ballata country intitolata Sweet Mess. La voce graffiata della Wyatt ci rende subito consapevoli di quelle cicatrici interiori che si porta dentro. Invece di iniziare l’album con il botto, sceglie di farlo in modo diverso. Ma ecco che la Wyatt che avevamo conosciuto esplode con la title track Neon Cross. Un bel country rock trascinante che fa leva ancora sulla voce della sua interprete, dal quale questo disco sembra prendere vita. La successiva L I V I N vuole confessare quell’inconfessabile paura di vivere. Un country che ci riporta indietro del tempo, che sotto una melodia spensierata nasconde un malessere più profondo. La svolta rock arriva con Make Something Outta Me. Non nascondo che è una delle mie preferite per come la Wyatt riesce ad incastrare le parole tra le note delle chitarre. Avremmo più bisogno di canzoni come queste. Con By Your Side si ritorna alla ballata, questa volta con una marcata venatura rock. Sono le chitarre a guidare la voce della Wyatt, sempre più drammatica e intensa. Just A Woman vede la partecipazione di una veterana della musica country come Jessi Colter. Si sente l’influenza del country anni ’70, le pedal steel e tutto il resto. La cantautrice americana si misura con qualcosa si estremamente classico e vince la sfida. Si sentono gli echi del precedente Felony Blues in Goodbye Queen. Jaime Wyatt dimostra la sua capacità di adattarsi ed adattare la sua voce alle varie sfumature del genere country con un’altra canzone orecchiabile. Mercy torna verso un country classico d’altri tempi. Un accorato appello reso ancora più profondo grazie al timbro vocale della Wyatt, fragile e segnato. Tra le mie preferite c’è Rattlesnake Girl. Un bel country rock ben bilanciato e facile da ricordare. Qui si possono apprezzare le doti di questa cantautrice e la sue capacità di scrittura. Da ascoltare. Hurt So Bad è un’altra ballata alla quale partecipa anche Shooter Jennings, cantautore country nonché produttore di questo album. Una canzone personale ed intima, quasi una liberazione. Chiude l’album Demon Tied To A Chair In My Brain cover in salsa country di una canzone di Dax Riggs. Una canzone che sembra stata scritta proprio per Jaime Wyatt tanto si presta bene per la sua voce.

Non c’è dubbio che Neon Cross sia uno di quegli album che non possono in alcun modo deludere. Come è possibile farlo quando il country suona così classico e genuino, quando un’artista, in questo caso Jaime Wyatt, ci mette l’anima, portando con sé il peso del suo passato? Il disco precedente era meno riflessivo e più diretto, qui invece, seppur non mancano momenti rock, la Wyatt sceglie di rallentare la velocità e regalarci qualche ballata in più. Siamo di fronte ad un’artista che ha tanto da raccontare e sa farlo bene. Neon Cross è solo il primo passo di una nuova vita e l’inizio di una carriera che molti sognano. Questo è un ottimo album che contiene dell’ottimo alternative country. Cos’altro chiedere di più?

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Ancora un altro libro, ep. 2

Avevo concluso lo scorso anno, dando qualche consiglio letterario. Sono passati sei mesi da allora ed è arrivato il momento di aggiornarvi riguardo alle mie letture. In questi primi mesi del 2020, caratterizzati da quella cosa di cui sarete al corrente un po’ tutti, non hanno visto incrementare di molto il numero di libri che ho letto. Sopratutto perché non ho mai smesso di lavorare, per la maggior parte del tempo da casa, e quindi ho smesso di leggere comodamente in treno. Non so quando riprenderò a fare il pendolare ma per il momento cerco di leggere nei ritagli di tempo e la sera. Ma non voglio dilungarmi oltre e passerei ai fatti.

Il primo libro che ha aperto questo nefasto 2020 è Dune di Frank Herbert. Non sono un appassionato di fantascienza ma ero attratto da questo romanzo perché ho letto a riguardo opinioni entusiastiche. Il fatto che sia stato pubblicato 1965 può far pensare ad una fantascienza datata e non più credibile (cosa vera solo in alcuni dettagli insignificanti, come i libri su microfilm). Invece, essendo ambientato in un lontano futuro, circa 24.000 anni, mette in crisi chiunque voglia fare delle previsioni. All’inizio si fa un po’ fatica ad entrare nel mondo creato da Frank Herbert. Tanti nomi, spesso di derivazione araba e latina, tante usanze e personaggi. Piano piano però si entra nello spirito del libro. Ed è sorprendente come nel 1965, Herbert abbia anticipato tanti temi oggi molto attuali: ecologia, sfruttamento delle risorse e guerra santa. Un libro ricco di tematiche, affrontate all’interno di un thriller fantascientifico dalla tensione costante. Per scelta dell’autore, alcuni passaggi temporali non vengono raccontati e questo a volte spezza la lettura e lascia spaesati. Un libro che fa riflettere anche se non si è appassionati di fantascienza come me. Leggerò anche il seguito, conscio del fatto che l’intera saga copre un arco temporale di 16.000 anni! Attendo il film in arrivo (forse) entro l’anno con interesse.

Non può un fedele lettore di Stephen King, non provare a leggere qualcosa di Shirley Jackson. Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo piuttosto breve e non strettamente horror come si potrebbe pensare. Infatti qualcuno potrebbe restare deluso dal fatto che c’è poca azione e colpi di scena clamorosi. Il classico libro che si deve leggere per il piacere di farlo, solo così si può arrivare al finale che, in qualche modo, cambia la prospettiva delle vicende raccontate e ci fa salire un brivido lungo la schiena. Sono rimasto sorpreso dalla capacità della Jackson di introdurci lentamente nella vita delle due sorelle Blackwood, rendendoci partecipi della loro vita privata e di un passato pesante. Ho già altri libri della Jackson pronti da leggere e non vedo l’ora di affrontare ancora quest’autrice piuttosto enigmatica.

Mi è stato regalato La svastica sul sole di Philip K. Dick. Conosciuto anche come L’uomo nell’alto castello (traduzione letterale del titolo originale), racconta di una storia alternativa nella quale i tedeschi e i giapponesi vincono la seconda guerra mondiale. Primo romanzo di Dick che leggo e forse non l’ho compreso appieno. L’idea dei nazisti che vincono la seconda guerra mondiale è stata all’epoca a dir poco geniale ma secondo me molto poco approfondita. Per volontà dell’autore, vengono presentati al lettore vaghi accenni alle conseguenze di questo evento che avrebbe cambiato la storia. Le vicende dei personaggi danno l’impressione che si possano intrecciare ma più le pagine scorrono e più è forte la sensazione che non sarà così. Il ruolo dell’uomo nell’alto castello tutt’ora mi sfugge. Sembra che Dick abbia buttato lì un’idea, ottima peraltro, ma ha lasciato che altri gliela rubassero negli anni a venire. Non mi ha entusiasmato, devo essere sincero, e per il momento non ho intenzione di leggere altro di questo autore.

Ho proseguito anche con il secondo volume della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind, intitolato La Pietra delle Lacrime. Cosa dire, lo stile di Goodking è scorrevole ed è piacevole leggere le avventure di Richard e Kahlan. Tanta magia, combattimenti e uno sguardo diretto ad un lettore adulto o quasi. Piuttosto corposo ma mai troppo lento, anche se c’è qualche ripetizione di troppo. Non un capolavoro ma un buonissimo libro che intrattiene e a tratti fa anche riflettere. Una saga fantasy controversa scritta da un autore controverso ma sono anche io tra quelli a cui piace, almeno finora. Se volete una lettura estiva di svago ma non troppo, questa saga potrebbe fare per voi. Continuerò sicuramente con il prossimo volume ma non subito.

Non poteva deludermi e non l’ho ha fatto, Secretum della coppia Monaldi e Sorti. Un altro giallo/thriller storico molto accurato e interessante, sopratutto per le vicende storiche connesse. Gli stessi protagonisti del precedente Imprimatur sono alle prese con un conclave imminente e la successione al trono di Spagna. Suggestive le ambientazioni romane, molto dettagliate, nel quale si svolgono le loro avventure, narrate in un linguaggio settecentesco. Sempre precise e sorprendenti le note storiche che sono il punto di forza di questa serie di romanzi. Il vero colpo di scena lo offre la storia e non tanto il romanzo in sé. Se non avete mai letto Monaldi e Sorti vi consiglio di farlo subito anche se richiede un po’ di impegno. Non vedo l’ora di tornare a leggere di Atto Melani e il “ragazzo” senza nome.

La delusione è arrivata con Il Re in Giallo (o Il Re Giallo), raccolta di racconti di Robert W. Chambers. Precursore delle tematiche di H.P. Lovecraft e altri autori è tornato alla ribalta in tempi recenti dopo un periodo nel dimenticatoio e, senza offesa, forse c’era un motivo. I primi racconti che fanno riferimento al Re in Giallo sono i migliori. Poi questa raccolta include altri racconti decisamente meno coinvolgenti. Chambers si perde in lunghe descrizioni che non aggiungono niente ai racconti e annoiano il lettore. I personaggi sono solo dei nomi sulla carta, vanno e vengono confondendosi tra loro. Ho letto Poe e Lovecraft ed altri autori simili ma Chambers l’unico che mi ha messo in difficoltà. Ho fatto fatica ha finirlo e ammetto di aver saltato qualche pagina di descrizioni negli ultimi racconti. Non proprio consigliato a meno che lo volete leggere per beneficio di inventario e colmare il buco nella vostra libreria tra Poe e Lovecraft.

Infine sono ritornato sui romanzi storici con Conn Iggulden e il suo Stormbird, il primo di una serie di quattro romanzi ambientati in Inghilterra alla fine della guerra dei Cent’anni. Le vicende narrate aprono le porte a quella che sarà ricordata come la Guerra delle Due Rose. Davvero ben scritto e scorrevole, sopratutto nei dialoghi. Il linguaggio è forse un po’ moderno ma sicuramente più accessibile. Una sorpresa che mi ha ricordato un altro grande autore di romanzi storici come Bernard Cornwell. Quest’ultimo di sofferma più sui dettagli delle battaglie mentre Iggulden preferisce soffermarsi sulle vicende politiche e sugli uomini che hanno deciso la storia. L’autore si prende qualche libertà rispetto alla realtà me ne rende conto nelle note storiche al termine del romanzo.

Mi ritorni in mente, ep. 69

Di questi tempi molti artisti sono anche loro costretti a restare a casa, con un futuro molto incerto di fronte a loro. C’è chi cerca di restare vicino ai fan cantando qualche canzone in streaming, chi organizza veri propri concerti, sempre in streaming, ma con posti limitati ed un biglietto da pagare e chi invece cerca aiuto economico attraverso campagne di crowdfunding o simili. La cantautrice scozzese Amy Macdonlad ha scelto di condividere online qualche canzone direttamente da casa sua e di scriverne anche una tutta nuova.

Si intitola A Piece Of My Heart ed è stata ispirata da questi tempi difficili di isolamento. Una bella canzone che spero sia inclusa nel prossimo album della Macdonald che era previsto entro quest’anno. Vi lascio ascoltare la canzone, sperando posso portare un po’ di conforto mentre si vede la luce in fondo a questo tunnel.

Cos something came along
like a bolt from the blue,
and it changed your life,
and it changed mine too,
and nothing feels the same,
nothing feels the same at all.
And the world went quiet
and the lights went dark,
And once we were together
now we’re miles apart,
I’m sending you a piece,
sending you a piece of my heart,
So we’ll never be apart.