La volpe nera

Ho sempre subito il fascino delle lingue sconosciute. Non che io sia un appassionato ma non riuscire a decifrare una frase o un testo, è per me una delle poche cose che ancora risveglia quel senso di mistero e avventura che l’età adulta si porta via. Ecco forse perché questo artista ha catturato subito il mio interesse. Il suo nome Dàibhidh Stiùbhard (si pronuncia Da-vie Stew-arshd) è già di per sé curioso, almeno a queste latitudini, ma mi è parsa chiara, fin da subito, la sua origine irlandese. Il suo album di debutto, intitolato An Sionnach Dubh, la volpe nera, è una raccolta di canzoni tradizionali dell’Ulster, una regione a nord dell’Irlanda, e altri brani in irlandese e gaelico scozzese, oltre a due sue composizioni. Ma al di là del mio interesse per il folk e le lingue sconosciute, il canto di questo giovane ragazzo è la cosa che più mi ha convinto ad ascoltare questo album.

Dàibhidh Stiùbhard
Dàibhidh Stiùbhard

L’album inizia con Úirchill an Chreagáin che ci immerge lentamente nelle sue atmosfere. Saremo subito catturati dalla voce magnetica di Stiùbhard e dal suo canto. Il suono dell’organo riempie l’aria e lo accompagna, “A fhiafhir charthanaigh / Ná caitear thusa ‘néalta / Ach éirigh go tapaidh / Agus aistrigh liom siar sa ród / Go tír dheas na meala / Nach bhfuair galla intí réim go fóill / ‘S gheobhair aoibhneas / Ar hallí ‘mo mhealladhsa le siamsa ceoil“. The Stately Woods of Truagh è una canzone tradizionale in lingua inglese ma cantata con un forte accento. Una versione profondamente rispettosa della tradizione ma proposta con un accompagnamento che la rinvigorisce, “From out the shady woods of Truagh, MacKenna rides at noon / The sun shines brightly, not a cloud darkens the skys of June / No eye has he for nature’s charms, they don’t distract his brain / As through the flowery vales he takes his way and never draws the reins“. A Stór Mó Chroí è un altra bellissima canzone tradizionale resa ancora più magica, e se vogliamo più triste, dall’interpretazione di Stiùbhard. Una canzone capace di toccare le code dell’anima e l’immortalità della musica, “A Stor Mo Chroi, in the stranger’s land / There’s plenty of wealth and wailing / Though gems adorn the rich and grand / There are faces with hunger pailing“. Si prosegue sulla stessa strada con John Adair. Una triste ballata, che ha tutto il fascino del folk tradizionale. La voce di questo artista è come uno strumento musicale, in perfetta sintonia con la musica che l’accompagna, “For fifty weary years our race has tilled this mountainside / And smoothed Glenveagh’s once rugged paths and stemmed the Atlantic tide / Full fifty homes are levelled now, and wild cries rend the air / May fifty thousand curses fall on cruel John Adair“. Kin of Cú Chulainn è scritta da Stiùbhard è si ispira alla figura di Cú Chulainn, eroe della mitologia irlandese. Il testo si poggia su una melodia ispirata a The Bold Thomas Clarke di P.J. McDonald e si fonde perfettamente con il resto dell’album. La successiva The Overgate lascia spazio alla sola voce. Una ballata di origine scozzese conosciuta anche con il titolo Wi’ My Rovin’ Eye, che mostra le doti vocali di quest’artista, “For as I gaed doon the Overgate I met a bonnie wee lass. / For she winked to me with the tail of her e’e as I went walking past. / Wi’ my roving eye, fol-a doo-a-di, / My rovin’ di-dumderry, wi’ my rovin’ eye“. Vines on the Mountain come nel caso precedente, il testo è stato scritto da Dàibhidh ma la musica fa parte del patrimonio tradizionale. Un’altra prova di talento, tanto più se si considera che si tratta di un debutto. Scritta in gaelico scozzese, Òran Eile don Phrionnsa, è una versione dall’originale di Alexander MacDonald. Una canzone che incarna tutto il fascino di quelle terre e della loro gente. Molto bello anche in finale strumentale, “Thug ho-o, laithill ho-o / Thug o-ho-ro an aill libh / Thug ho-o, laithill ho-o / Seinn o-ho-ro an aill libh / Och ‘sa mhaduinn’s mi dusgadh / ‘S mor mo shunnd’s mo cheol-gaire / O’n a chuala mi ‘m Prionnsa / Thighinn do dhuthaich Chlann Ra’ill“. Si chiude con Belfast Market, cantata a cappella. Scelta perfetta per concludere, con la semplicità e la purezza della voce di questo artista.

An Sionnach Dubh è un debutto che ci svela un artista che nutre un profondo amore per la musica e il canto delle sue terre. Dàibhidh Stiùbhard ha una voce che incanta e sembra nata per queste canzoni. Un album che vuole essere custode della tradizione e allo stesso tempo traghettarla verso le nuove generazioni. Queste lingue, questi dialetti fanno parte di un’eredità immateriale ma importante che scava nella storia, non solo delle isole britanniche ma di tutta Europa. An Sionnach Dubh è tra gli album più belli ed affascinanti che mi è capitato di ascoltare quest’anno e il nome di Dàibhidh Stiùbhard è di quelli da appuntarsi e tenere d’occhio nel prossimo futuro.

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Un nido di vespe

Anche da queste parti il bisogno di vacanze si sta facendo sentire ma ci sarà da aspettare ancora qualche settimana. Nel frattempo ci pensa qualche nuova uscita a tenermi impegnato (a parte il lavoro ovviamente) e tra queste c’è Kitchen Sink della cantautrice inglese Nadine Shah. Non è la prima volta che ascolto un album di quest’artista ma la sua scoperta da parte mia è piuttosto recente. Risale infatti a poco più di un anno fa l’occasione in cui ascoltai Fast Food, il suo secondo album. Ho aspettato ad ascoltare il successivo Holiday Destination, tanto che è arrivato prima alle mie orecchie questo Kitchen Sink. Quarto album dunque che si presentava, per certi aspetti, piuttosto diverso da suoi predecessori. Ma Nadine Shah mi piace per la sua voce e la sua vocazione rock e sapevo che avrei comunque trovato tutto questo ancora.

Nadine Shah
Nadine Shah

Si parte con Club Cougar, dalla quale emerge la voce della Shah sotto i colpi dei synth. Una canzone che appare un po’ ironica, o forse non lo è, sulla differenza di età in una relazione, in questo caso clandestina e fugace, “Call me pretty, make your manoeuvre / One year younger, call me a cougar / All dressed up, think I did it for ya / Make eye contact, think I adore ya“. Il singolo Ladies For Babies (Goats For Love) torna su sonorità più indie rock. La voce della Shah è affascinante e misteriosa, restando uno dei suoi punti di forza, “He wants his lady / To be a lady / To care less, be hairless / All he wants in fairness / Is a baby / A little baby / To care for, be there for / But careful, she could turn out like / Ladies for babies and goats for love“. Buckfast è uno sgangherato rock che trova equilibrio grazie al canto di quest’artista. Il tutto simboleggia un stato di ebrezza nel quale è difficile mettere le cose a fuoco, “Take a swipe at the other in your bed / Makes a change from the others in your head / And the voices said / Pretend to everyone you wish that you were dead“. Dillydally è una riflessione sullo scorrere inesorabile del tempo. La voce della Shah si muove sinuosa su un tappeto di suoni in precario equilibrio. Particolarmente ispirata ed originale questa canzone, che esce un po’ dai binari del rock, “Stop your counting of years / Stop the wreck in your mind / Stop your feeling of fears / You’re divine / See you checking off lists / See you counting the time / All the ones that you missed / You will find“. La successiva Trad prende di mira le tradizioni, vecchie e nuove, ribaltandole. Il risultato è incerto e criptico. Dipende dai punti di vista ma è sicuro che Nadine Shah sa essere schietta quanto misteriosa, “Shave my legs / Freeze my eggs / Will you want me when I am old / Take my hand / Whilst in demand / And I will do as I am told / Take me to the ceremony / Make me holy matrimony“. La title track Kitchen Sink è una canzone dalla musica essenziale che si poggia sulla voce carismatica della sua interprete. Le chitarre fanno la voce grossa, spezzando il flusso delle parole e al loro ritmo, “Don’t you worry what the neighbours think / They’re characters from kitchen sink / Forget about the curtain-twitchers / Gossiping boring bunch of bitches / And I just let them pass me by / And I just let them pass me by“. Kite lascia spazio alle suggestioni della musica, bastano poche parole per dare vita ad una delle canzoni meno ruvide di questo album. Mi ha ricordato Anna Calvi e la cosa, oltre a non essere una novità, è positiva, “Sometimes I lie but there are times I am right / Sometimes I want to end it all with goodnight / All that I want is you to fly like a kite / All that I want is you to fly like a kite“. Ukrainian Wine è ancora una canzone che affronta, a suo modo, il peso degli anni e delle responsabilità. Scorci privati e confusi si intravedono nelle crepe causate dalle debolezze che ognuno di noi ha e fatica ad ammettere, “Ask me to grow up / But keep pouring me wine / I lost my cards and keys / Lost the ground from the sky / I fell and grazed my knees / Watch me walk a straight line“. Segue Wasps Nest è una delle mie canzoni preferite di questo album. Ha un fascino particolare, un po’ orientale. La voce grave della Shah è irresistibile e la rende unica tra tante sue colleghe. Walk è una canzone che procede a balzi, un su e giù come in un loop infinito. Una canzone particolare che esce dai canoni di quest’artista e definisce nuove vie, “Running gauntlets / Swerving perverts / Put my waist size to the wayside / Nasty surprise / More prying eyes / I don’t want your love / I have got enough / I just want to walk“. Si termina con Prayer Mat. Anche in questo caso il ritmo è lento e rilassato, quasi a volerci rendere partecipi di una sensazione di vuoto e ricerca. L’ultima canzone riflette i sentimenti di questo album e il suo fragile equilibrio, “Could live another life of this / I would / Choose you every time / Settle for another day of this / But we’re / Running out of wine“.

Kitchen Sink è il classico album che non si deve spiegare o raccontare. L’unica cosa da fare è ascoltarlo, lasciando che ognuno di noi tragga le proprie conclusioni. Di certo Nadine Shah non si nasconde dietro una maschera e lascia che queste canzoni rivelino qualcosa di più del suo animo. Musicalmente rimane fedele alle sonorità rock che da sempre l’accompagnano, riuscendo però ad amalgamarle con qualcosa di diverso. Kitchen Sink è un album sincero ma non semplice, a volte diretto e altre meno, ma comunque carico di significati che si possono scovare nelle parole oppure lasciare che sia il nostro inconscio a rivelarli.

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Lunga vita alla natura selvaggia

Non è la prima volta che decido di partecipare ad una campagna di crowdfunding per sostenere la realizzazione e la pubblicazione di un album ma questo è (e sarà) un anno particolare per chi vive facendo musica. Quindi sostenere un artista diventa più importante di quanto non lo fosse già prima. Tra gli ultimi album c’è The Wilderness Yet, debutto del gruppo omonimo. Si tratta di un trio di artisti della scena folk inglese che si sono uniti per dare vita a questo nuovo progetto. A farne parte la coppia Rowan Piggott e Rosie Hodgson, insieme a Philippe Barnes. L’album uscirà il prossimo 24 luglio ma ho potuto averlo in anticipo per i motivi che ho spiegato sopra. Tra canzoni tradizionali e brani originali The Wilderness Yet si propone come una delle uscite folk più interessanti di quest’anno.

The Wilderness Yet
The Wilderness Yet

The Beauties Of Autumn è una canzone originale scritta dalla Hodgson che celebra la bellezza del suo Sussex nelle prime ore del mattino. Una delicata e poetica canzone che richiama le melodie della tradizione, a partire dall’accompagnamento del duo Piggott e Barnes. La successiva A Bruton Farmer è una canzone tradizionale, conosciuta anche con altri titoli. Racconta la sfortunata storia di una ragazza alla quale viene impedito dai fratelli di sposare il suo amato. Come spesso accade in questi casi non c’è lieto fine. In A Fair Country si ispira così profondamente al vasto repertorio del folk tradizionale che sembra anche lei farne parte ma non è così. Un brano originale a tre voci che ci fa ammirare tutto il talento di questi artisti. La successiva Queen & Country è una canzone di Piggott, già comparsa nel suo album e nel suo progetto Songhive, che raccoglie canzoni con il tema comune delle infaticabili api. Qui riarrangiata ed interpretata dalla Hodgson. Chalice Well / The Wellcombe Hills è un brano strumentale nel quale possiamo ascoltare il flauto di Philippe Barnes. La prima parte è una composizione di quest’ultimo e la seconda è di Pigott. Woman Of The Woods è una canzone originale scritta dalla Hodgson e già comparsa nel suo album di debutto. Una storia di una donna disposta ad aiutare gli altri nonostante le numerose difficoltà. Una bella canzone cantata con la voce melodiosa di quest’artista. Song Of The Whale è una cover dell’originale di Eric Bogle, cantautore folk di origine scozzese. Una versione musicalmente più ricca ed addolcita dalla voce della Hodgson. Una canzone contro la caccia alle balene, un’attività che ha caratterizzato in passato la storia dell’uomo e ancora oggi è oggetto di tensioni. Hjältedyrkan è una polska, una musica ispirata dalle danze scandinave, arricchito dalla vocalità della Hodgosn. Questa è una composizione originale di Piggott come regalo di compleanno per un amico. Una musica affascinante e misteriosa. Rowan Piggott è anche l’autore della bella The Thrush’s Anvil. Come molte altre canzoni folk, il tordo ne è il protagonista indiscusso. Molto bello il ritornello nel quale si percepisce la sintonia tra i vari componenti di questo gruppo. Da ascoltare. Of Men Who’ll Never Know è un brano originale accompagnato da una melodia della tradizione svedese, Ack högaste himmel. Questi tre ragazzi riescono a creare ancora una volta qualcosa di meraviglioso e ricco di fascino, dove voce e musica si alternano come in una danza. Piggott e Barnes si dividono i meriti per il brano strumentale in tre parti Pete’s Jig / Poor Hildegard / Joan Brodie’s, dando libero sfogo al loro talento, il primo con il violino e il secondo con il flauto. Ispirato dalla poesia Inversnaid di Gerard Manley Hopkins, The Wilderness Yet da il titolo all’album e nome al trio. Tre voci che all’unisono danno vita e nuova linfa a questa poesia che ha ispirato altri artisti. Si chiude con Seán Ó Duibhir A’ Ghleanna, reinterpretazione di una ballata irlandese che racconta della resistenza di Sean O’Dwyer contro l’invasione di Oliver Cromwell.

The Wilderness Yet è un album che celebra l’intesa tra questi tre artisti, che condividono i loro talenti, confezionando un album di debutto di assoluta qualità. Ognuno di loro contribuisce a creare un perfetto equilibrio di queste tre parti. La tradizione emerge anche nelle composizione originali, rivelandone così la sua immortalità, attraversando i secoli e giungendo fino a noi. Un album riscoprire la bellezza della natura che ci circonda e che a volte siamo incapaci di vedere. La musica serve anche a questo, e i The Wilderness Yet ci sanno portare un po’ di serenità in questi tempi difficili. L’augurio migliore che si può fare in questo momento, è quello di poterli rivedere insieme su un palco e tornare al più presto con nuove canzoni. Nulla è scontato ormai, e sostenere la musica in questo momento è qualcosa che ci renderà un po’ più felici in futuro.

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Mi ritorni in mente, ep. 70

Non ho molti album composti da brani esclusivamente strumentali ed è per questo che da un po’ di tempo sto cercando di rimediare. Tra gli ultimi c’è Shine, debutto solista della musicista irlandese Caroline Keane. Numerose sono le sue collaborazioni con altri artisti e sempre per offrire il suo talento come suonatrice di concertina. Questo suo album raccoglie numerosi brani della tradizione irlandese, da quelli legati al ballo a quelli più lenti e malinconici.

Un album come questo ci ricorda la bellezza della musica, lontana dalle contaminazioni sintetiche ed elettroniche che oggi ci invadono. Tornare alle origini è qualcosa di speciale, che evoca immagini ormai dimenticate. Mi ha accompagnato in questo inizio d’estate, non riuscendo a farne a meno ogni volta che volevo ascoltare qualcosa. Qui sotto potrete ascoltare l’album nella sua interezza, uscito lo scorso Maggio, e il consiglio è quello di farlo non appena avete qualche minuto libero per poterlo fare in tutta tranquillità.