Vorrei solo avere più tempo

Gli ultimi mesi dello scorso anno sono stati caratterizzati da numerose uscite discografiche interessanti ma che non hanno trovato spazio su questo blog. C’è ancora un po’ di tempo prima che febbraio porti con sé nuovi album e quindi sfrutto l’occasione per consigliarvi un album uscito lo scorso novembre. Si intitola Pohorylle e segna il debutto della cantautrice americana Margo Cilker. La sua è stata una vita in viaggio, tra l’Oregon e i Paesi Baschi, segnata da problemi con l’alcol. Tutto questo ha influenzato la sua musica e questo album dalle sonorità genuinamente country.

Margo Cilker
Margo Cilker

That River dà inizio all’album e subito ci cattura con il ritmo e la melodia che introducono la voce giovane ma ruvida della Cilker. I riferimenti all’Oregon e al fiume Minam si mescolano a quelli della Spagna, in un flusso di ricordi, “Out driving past Minam / When the moon came up / I could see her, I had a fever / Lit by the troubles of love / I was asking a question, what did she say / She was answering one from yesterday saying“. Kevin Johnson è un honky tonk vecchia scuola che racconta istantanee di una vita immaginata ma fatta di piccole cose reali. Una delle canzoni più orecchiabili di questo album, “Kevin Johnson took a bonny wife / Kevin Johnson took a bonny wife / But when the two lay down to bed / There was a rattle in her head / Kevin Johnson took a bonny wife“. La successiva Broken Arm In Oregon ed è ancora un viaggio nei ricordi che fanno emergere un sentimento di malinconia perfettamente veicolato dallo stile americana, un territorio sicuro per la Cilker, “I took a tumble on a mountain / And it rattled up a few things / But I was singin again by the time I made it down / Now I fight the urge to ramble / With every three-egg breakfast scramble / And I marvel at hot water as it leaves the tap“. Flood Plain è una ballata triste che fa emergere il lato più riflessivo e intimo di questa cantautrice. Una canzone che prova a trovare un pace in un animo irrequieto, “The textures we live for / The vices we chase / They’re all out on a flood plain / That the tears inundate / So if you don’t like yelling / You ain’t one to cry / Find a brackish imitation / To keep those suckers alive“. Di tutt’altro tenore la successiva Tehachapi. Una canzone si un amore finito all’improvviso ma che non cede alla disperazione. Un’altra dimostrazione del talento e della capacità della Cilker, “Wasn’t much of a warning / He disappeared one morning / Put his mattress up on the back of a pickup truck / I’d been workin’ / My shoulders were hurtin’ / I was learning how to turn my muscles into somethin’“. Barbed Wire (Belly Crawl) è una riflessione sulla vita, sul sentirsi legati irrimediabilmente a qualcosa. Anche questa è davvero un ottima canzone, ben scritta ed interpretata, “There’s a barbed wire fence way down in the canyon / Are we inside or outside the line? / You step over it / I go through it / And the kid belly crawls cause they’re five“. Chester’s affronta il tema della solitudine con una ballata lenta e triste. Margo Cilker si mostra sensibile e capace di trovare le parole giuste per esprimere i suoi sentimenti, “I’ve made my bed on the side of the road / Seen my good friends get married and then feel alone / I’ve seen the drunks in a line at Chester’s / I can’t let myself get lonely no more“. Brother, Taxman, Preacher è ancora un country vecchia scuola, da saloon, con il quale la Cilker si diverte ad immaginarsi nei panni di chi è sicuro di sé e decide della vita degli altri, “I wish I was a preacher / I could tell you who to love / I could tell you who to vote for / Who to pity, who to fuck / I wish I was a preacher / I’d know what it means to know everything“. La ballata Wine In The World chiude l’album, cercando di racchiudere dentro di essa i momenti difficili della sua vita come la dipendenza dall’alcol e la perdita del nonno, “A funny thing happened this last time I was out traveling / Nobody’s lives stood still / My grandfather tended to his bees and his garden / And we lost him on the first of the year / I’m a woman split between places / I’m gonna lose loved ones on both side / It’s my life- I can relate create participate / I just wish I just had more time..“.

Pohorylle è un viaggio fisico e non attraverso il tempo e la vita di Margo Cilker. Un debutto che ci fa conoscere, dopo vari EP, una cantautrice di sicuro talento che sa tirare fuori l’anima migliore della musica country, affidandosi alle esperienze personali e ai ricordi. Un album che alterna canzoni orecchiabili e spensierate ad altre più riflessive e meno accessibili. Se Pohorylle è solo l’inizio, allora è lecito immaginarsi una carriera ricca di soddisfazioni, che già comincia con la partecipazioni di artisti di tutto rispetto che hanno collaborato con lei in questa occasione. Un album di grande impatto, fatto di ottime canzoni country.

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Mi ritorni in mente, ep. 81

Riprendo questa rubrica, la quale è, per così dire, ferma dall’agosto dello scorso anno. Lo faccio per consigliare un album uscito a novembre intitolato Best Self. Dieci canzoni firmate dalla cantautrice americana Hayley Johnson ma presentate con il nome del suo progetto The Little Miss. Di lei avevo già ascoltato il precedente Pollyanna del 2017 che offriva una collezione di sue canzoni in una versione acustica e dalla produzione scarna, se non del tutto inesistente. Ma mi ha fatto apprezzare la voce unica e carismatica della Johnson.

Best Self ripropone alcune di quelle canzoni e ne aggiunge altre inedite, tutte accompagnate da una produzione più ricca e varia. Difficile definire lo stile di The Little Miss ma forse la definizione più corretta è quella della sua pagina Bandcamp: folksy nonsense. Il suo approccio è country e a volte malinconico come vuole la musica americana ma c’è sempre un ironia di fondo che le permette di spaziare verso sonorità indie. Un mix di stili ben riuscito. Non sapendo quale canzone scegliere tra le dieci, ho pensato bene di proporvi tutto l’album che merita un ascolto per intero.

Troppo tardi per scrivere una canzone d’amore

Questo è il periodo più adatto per dare spazio agli album dello scorso anno che mi sono piaciuti ma che non ho avuto modo di consigliare su questo blog. Non sono pochi ma ho scelto di partire dalla cantautrice americana Riddy Arman e il suo disco di debutto omonimo. La sua ascesa è iniziata con un video per il canale youtube Western AF (da seguire per chi vuole scoprire ottimo country). Questo album nasce dalla necessità di raccontare i dolori e le difficoltà della vita. La semplicità e la sincerità di questa artista mi hanno subito catturato. Basta davvero poco a volte per avere la mia attenzione.

Riddy Arman
Riddy Arman

Spirits, Angels, Or Lies è dedicata al padre scomparso e apre l’album nel migliore dei modi possibili. Il padre racconta di aver ricevuto la visita di Johnny Cash, morto però quella stessa notte. Un storia commovente, “He said, ‘You won’t believe who came to my bedside / Johnny Cash on a freight train, sometime in the night / Well, he wanted me to go along for a ride / But, I told him I would stay for my children and my wife’“. Half A Heart Keychain è la canzone di un amore finito male. Una canzone country intrisa di malinconia, sorretta dal suono delle chitarre, “Should have stopped before I started / I’m a forlorn lonely loner out of love / Just a forlorn lonely loner out of love / And I hope she gets to keep the keys to your heart / Don’t you dare leave her like you left me standin’ in the dark“. Barbed Wire è una canzone che sembra arrivare direttamente a cavallo dalle praterie del west. Un country genuino, illuminato dalla voce carismatica della Arman, “There’s one thing he wants and can’t seem to find / So he sits atop his horse as his dog trails beside / Seeking freedom from his mind under sunny desert skies / The wind will dry his tears that fall as if he’s never cried“. La successiva Both Of My Hands è più oscura e triste. Un testo essenziale ma profondo racconta di un disagio da affogare nell’alcol, supportato da un accompagnamento musicale da brividi, “This kitchen stove / Warms the same dinner twice / And I have not dealt with / The sign of the mice / And I pass the bottle around / To both of my hands / There’s a stillness in the air / That makes me wanna drown“. Help Me Make It Through The Night è una splendida e disperata ballata che viaggia sulle note del pianoforte. Un sound classico ma sempre efficacie,”Take the ribbon from my hair / Shake it loose and let it fall / Laying soft against my skin / Like the shadows on the wall / Come and lay down by my side / ‘Til the early mornin’ light / All I’m takin’ is your time / Help me make it through the night“. Herding Song racconta la vita quotidiana di un pastore che non sopporta più di vivere in città. Una canzone breve ma ricca di significati, “Well, that was then / And, this is now / I moved to the city and it’s breaking me down / My boots haven’t seen horse shit in weeks / Now it’s just the city that stinks“. Segue Old Maid’s Draw, una lenta ballata che racconta uno scorcio di vita rurale. La Arman continua ad incantare con la sua voce ferma e sincera, “Up the Old Maid’s Draw where the grass is green / The wolves a little mean and the arrowleaf’s tall / Where the meadowlarks sing to the cows bellowing / And the rhubarb grows out of rocks“. Too Late To Write A Lovesong è una riflessione sulla propria vita. Questa volta oltre alla melodia c’è un ritmo trascinante che accende la speranza, “Moved away from our old home / It felt too wrong with you gone / Miss the sunrise in our windows / And it’s too late to write a lovesong“. L’album si chiude con Problems of My Own che ritorna alla ballata malinconica. Una dura presa di coscienza che l’età porta con sé. La voce della Arman è diretta e il testo non lascia spazio ad interpretazioni, “The older I get, the more pain in these people that I see. / There’s lies that are kept, for a comfort that needs settin’ free. / Someone’s gotta go, somebody’s gotta leave. / And I know, that somebody is me“.

Riddy Arman, questo è semplicemente il titolo dell’album, di fa scoprire una cantautrice di talento che ha fatto della musica e della scrittura una sorta di terapia per superare i momenti difficili della vita. Un album molto diretto e sincero che in alcuni momenti sembra chiudersi in sé stesso ed in altri aprirsi, mostrando le ferite che porta dentro. Riddy Arman è tra quegli artisti che stanno riportando il country alle sue origini sfruttando le tante emozioni, positive e negative, che questi anni difficili stanno risvegliando. Un nome da aggiungere ad una lista sempre più numerosa e viva.

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Primo numero maestro

Questo blog è giunto al suo undicesimo anno di vita attraversando un 2021 nel quale, nonostante ciò che avevo scritto un anno esatto fa, ho continuato a pubblicare regolarmente. In realtà qualche settimana l’ho volutamente saltata per evitare di fare salti mortali per riuscire a pubblicare qualcosa. Mi sono preso il mio tempo ma non come avrei potuto o voluto. Mi ero ripromesso di dedicare meno tempo al blog a favore di altro che mi frullava nella testa. Di fatto non è andata così ed è la fine che spesso fanno i buoni propositi di inizio anno. Le (poche) pause che mi sono preso non le ho dedicate ad altro ma semplicemente sono state dettate da impegni che non mi hanno permesso di preparare qualcosa da pubblicare. Quando prevedevo l’impossibilità di scrivere qualcosa per il fine settimana, mi davo da fare buttando giù qualche riga in anticipo. Quest’anno ho voluto lasciar correre di più. Se tempo e voglia c’erano, ecco il nuovo post, altrimenti nulla. Questo è quanto di più sono riuscito a fare nel tentativo di tenere fede a quanto scritto ad inizio 2021. Avrei voluto anche cambiare il formato dei miei post, magari più brevi e veloci da scrivere, ma la verità è che non ci sono riuscito. Anzi non ci ho nemmeno provato. Ho semplicemente continuato così. Sono un abitudinario impenitente che persevera in questa avventura della quale al momento non vedo una fine certa. Tutto quello che pensavo di fare o di scrivere, oltre a questo blog, si va a scontrare con i giorni che passano. Il tempo è il grande amico e il peggior nemico di procrastinatori. Non sono tale nella vita di tutti giorni (o forse sì per tutto ciò che non ritengo di grande importanza) ma quando si tratta cambiare lo sono eccome. Non mi piacciono i cambiamenti, soprattutto quando non sono io a deciderli. Quando sono io a decidere non è che vada poi tanto meglio. Provo sempre quella sensazione di aver sbagliato scelta. A proposito di cambiamenti, ogni volta che inizio a scrivere il post per questa occasione, mi diverto a cercare un significato o una curiosità sul numero in questione. Cito Wikipedia in merito al numero undici: Nell’esoterismo e nella magia in genere, è considerato il “primo numero maestro”, essendo il primo numero di una decade numerica nuova (10+1). In generale sta a significare un forte cambiamento a fronte di una grande forza e nei tarocchi l’arcano maggiore numero 11 corrisponde infatti alla “Forza”.
Che dire? Sembra fatto apposta. Che sia questo l’anno del cambiamento per il blog? Se così fosse, io padre e padrone non ho la più pallida idea di quale possa essere.

Forse il fatto di essere un vergognoso abitudinario e un vigliacco procrastinatore a tenuto in vita questo blog per questi lunghi undici anni. Si è incollato a me, un’estensione della mia vita che ha affondato le sue radici virtuali in profondità. Togliermelo di dosso come si fa con un cerotto significherebbe creare un buco difficile da riempire, come ha dimostrato l’anno appena passato. Lasciarlo spegnere lentamente sarebbe altrettanto doloroso e non so se sarei in grado di farlo volontariamente, anche se penso sia quello che capiterà prima o poi.

Bene, il post della celebrazione per gli undici anni si è trasformato in una patetica riflessione sulla sua stessa morte (riflessione già avvenuta in passato peraltro, ben quattro anni fa). Ma qual è la vita media di un blog come questo? Credo di essere arrivato ad una sorta di maturità nella quale è più facile guardarsi indietro che verso il futuro. Oddio, non sono sicuro se quest’ultima frase si riferisca al blog o me stesso. Meglio chiuderla qui, non vorrei scrivere strane cose. Chiudo qui il post, non il blog, intendiamoci. Lunga vita a te, vecchio mio.