Non guardare giù

Questo gruppo di New York mi ha incuriosito subito grazie al suo sound bluegrass che da sempre mi attrae ma che non sono mai riuscito ad esplorare a sufficienza, virando verso qualcosa di più country o folk. Siccome l’estate concede qualche pausa nelle abituali uscite discografiche, è bene impiegare questo tempo scoprendo qualche nuovo artista e, perché no, un genere musicale al quale siamo poco avvezzi. I Damn Tall Buildings sono tre ragazzi e una ragazza al loro secondo album, intitolato Don’t Look Down, uscito lo scorso Giugno. Basso, banjo, violino e chitarra sono più che sufficienti a dare vita al loro bluegrass, dallo stampo classico ma presentato con un piglio giovane e moderno.

Damn Tall Buildings
Damn Tall Buildings

Late July ci introduce all’album. Ritmo trascinante sulle note dell’inconfondibile suono del banjo. Max Capistran e i suoi compagni suonano da anni insieme e la loro intesa si sente, sembrano suonare uno vicino all’altro anche in studio. La successiva I’ll Be Getting By vira verso un country folk veloce ed orecchiabile. Un brano corale dove le voci si uniscono e le musica corre veloce. Bastano un paio di minuti ai Damn Tall Buildings per farsi ricordare. Had Too Much vede al microfono Sasha Dubyk, che con il suo tratto femminile di trascina in un bluegrass vecchio stile, leggero ed incalzante. Canzoni come questa dimostrano la duttilità di questo gruppo, nonché le loro capacità tecniche. Segue Morning Light che non ha intenzione di rallentare il ritmo. Le voci del gruppo si uniscono ancora ma lasciano anche spazio anche alla musica, guidata questa volta dalla melodia blues del violino. Angeline’s Blue Dream inizia con il suono del banjo e apre a scenari di ampio respiro di cui è capace il folk americano. La voce di Sasha Dubyk guida il gruppo con sicurezza e carisma. Una delle canzoni più belle di questo album. Ma tra le mie preferite non posso dimenticare Words To The Song. Un eccezionale esempio dello stile e della musica di questo gruppo. Melodie folk e blues si fondono dando vita ad un altro brano orecchiabile e ben eseguito. Evan corre sui binari di un blues d’altri tempi addolcito ma non troppo dalla voce della Dubyk. Tanta energia in una delle canzoni più oscure di questo album. Loving Or Leaving riaccende la luce e dà vita ad una bella serata bluegrass. Tutto il gruppo appare unito, compatto guidato stavolta da Avery Ballotta, dove il ritmo e la melodia si fondono e si consumano velocemente come una fiamma nel giro di un paio di minuti. Allison è la prima di quelle che si possono definire ballate. La band riprende fiato e lascia l’ascoltatore immerso in una malinconica magia. Nota personale: le note del violino mi hanno fatto salire un brivido lungo la schiena. Chissà perché. River Of Sin è un bluegrass da manuale, essenziale, che gioca sull’intesa del gruppo. I Damn Tall Buildings ci sanno fare, su questo non c’è dubbio. Se avevate paura di annoiarvi ci pensa Green Grass And Wine a riportarvi sui binari giusti. Torna il rimo veloce, torna il banjo a condurre il gioco. C’è poco tempo, poco spazio, bisogna sbrigarsi. Can’s You Hear Me Calling è l’unica cover di questo album. L’originale di Bill Monroe trova nuova vita ed energia ma sopratutto corre più veloce con Sasha Dubyk al comando. Location oltre ad essere l’ultimo brano dell’album è anche il più lungo. Una lenta ballata folk malinconica e bucolica che arricchisce il repertorio del gruppo, questa volta rappresentato da Avery Ballotta.

Don’t Look Down è un album che si lascia apprezzare per la sua capacità di non distrarre l’ascoltatore, grazie ad un ritmo spesso veloce e la verve simpatica del gruppo. L’alternanza delle voci maschili e quella femminile aiuta a dare sempre nuovi sbocchi alla musica dei Damn Tall Buildings, che non si accontentano di fare soltanto bluegrass. Gli strumenti musicali sono pochi, non ci sono effetti speciali o particolari virtuosismi. Qui tutto è semplice, familiare. Una musica genuina che non vuole sorprendere sull’originalità ma sul talento e sulle capacità di un gruppo unito, dove tutti marciano nella stessa direzione. Don’t Look Down è un album da ascoltare e riascoltare per poterne scoprire le sue potenzialità e la personalità del gruppo.

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Chi fermerà la musica

Mi prendo una pausa dalle recensioni e recupero un post che ho scritto qualche tempo fa ma che non ho mai pubblicato riguardo un tema che sta emergendo negli ultimi anni e mi interessa particolarmente. Ovvero la profonda trasformazione che sta provocando (o forse ha già provocato) lo streaming musicale nel mercato discografico. Non ho intenzione di annoiare nessuno con cifre che vogliono dimostrare quanto i servizi come Spotify rendano molto poco agli artisti che non hanno milioni e milioni di ascolti. Pare infatti che ormai per questi ultimi, Spotify sia diventato una specie di social network, nel quale farsi un po’ di pubblicità e nient’altro. Non rappresenta quindi una sostanziale fonte di entrate. Ma chi se ne importa, potrebbe pensare qualcuno, di dare soldi a questa gente! Che si trovassero un lavoro vero! Forse per alcuni di essi sarei anche d’accordo ma trovo questa visione delle cose un po’ fuori dal tempo. Ci sono persone che fanno (molti) soldi, in modi assurdi o al limite della legalità, e non vedo nulla di male scegliere la musica come un lavoro. Un lavoro piuttosto rischioso, per altro. Oggi vai alla grande e domani non esisti più per nessuno. Una scelta sbagliata e la caduta nell’oblio spesso è inevitabile.

Qualche anno fa sembrava che la pirateria fosse la causa di tutti i mali. Scaricare illegalmente era una cosa considerata normale e ancora oggi per molti lo è. Chi lo faceva senza nessun senso di colpa, ha continuato a farlo e tutti gli altri invece hanno scelto lo streaming legale. Ottimo. La questione sembrava, almeno in parte, risolta. Ma ben presto la realtà si è rivelata un’altra. Lo streaming non poteva sostituire in pieno la vendita di dischi. L’ascolto di musica è sempre in aumento ma i guadagni per gli artisti e le case discografiche calano vertiginosamente. Evidentemente qualcosa non sta funzionando. Ci troviamo in una situazione nella quale le superstar continuano a guadagnare perché possono permettersi maggiore visibilità (pagando spazi pubblicitari all’interno dello stesso servizio di streaming) mentre gli altri si devono arrangiare, spesso illusi dall’ampio riscontro che oggi i social network possono dare.

Ogni artista fa quello che può, ad esempio facendo più concerti (la cui organizzazione ha dei costi), vendendo merchandising, oppure affidandosi a campagne di crowdfounding, alle quali anche io ho partecipato più volte. L’acquisto degli album, anche se spesso non è sufficiente nemmeno per coprire le spese, resta un buon modo per sostenere un artista soprattutto se indipendente o autoprodotto. Ecco perché ho sempre preferito l’acquisto degli album piuttosto che lo streaming. La maggior parte dei dischi che ho sono in formato digitale. Anzi praticamente tutti. I vantaggi di acquistare un album in digitale sono diversi. Prima di tutto il prezzo. Un CD può costare anche più del doppio del digitale per via del fatto che ha i costi di stampa, materiale e distribuzione, ecc. Occupa spazio e se volete ascoltarlo in movimento (a piedi, in treno e perfino in auto ormai) sarete costretti a farne una copia in digitale, abbandonando di fatto il supporto fisico. Capite benissimo che sarebbe inutile pagare il doppio per usare sempre e comunque il digitale. Se ne fate una questione di qualità audio allora vuol dire che siete degli audiofili appassionati. Perché ormai gli album digitali in alta qualità, mp3 a 320 kbits/s o FLAC, si possono acquistare anche senza differenze prezzo, e per distinguere un mp3 320 kbits/s dalla qualità CD dovreste avere un orecchio davvero fino ed allenato.

Al dì là che preferiate il CD al digitale c’è anche un’altra componente che con lo streaming si perde: il possesso. Una volta lessi in un articolo, che evidenziava una curiosa ripresa nelle vendite di CD, una frase che diceva pressapoco così: acquistando un disco, lo paghi una volta e lo si possiede per sempre. Lo streaming lo paghi per sempre e non lo possiedi mai. Lasciando da parte per un attimo i vantaggi nell’acquisto per un artista, quello maggiore per l’ascoltatore è proprio il possesso. Immaginate se tra qualche anno Spotify dovesse chiudere i battenti. Vi lascerà ascoltare ancora gli album che avete salvato offline? Non credo proprio. Semplicemente non sono vostri, è una specie di noleggio. Tutto quello che avrete pagato, collezionato, organizzato in playlist per anni e anni potrebbe un giorno non essere più disponibile, senza che voi possiate fare nulla. Oppure un artista o un gruppo potrebbe lasciare il servizio, rendendo non più disponibile la propria musica (è già successo più volte). Se non siete degli ascoltatori particolarmente appassionati probabilmente la cosa non vi creerebbe molti problemi. Ma per chi, come me, ci tiene particolarmente alla sua collezione musicale, sarebbe piuttosto fastidioso dovesse succedere una cosa del genere.

Non nascondo che lo streaming ha i suoi aspetti positivi lato utente. Avere la possibilità di ascoltare ovunque la propria musica senza portarsi dietro i file non è un vantaggio da poco. Scoprire nuovi artisti è semplicissimo e spesso rispecchiano i nostri gusti (forse anche troppo). E poi certamente il prezzo è davvero economico. Ad esempio Spotify a 9.99 € al mese costa quanto un album digitale. A chi piace ascoltare musica come me compra più di un album al mese, perciò non serve la calcolatrice per capire che si risparmia eccome. Se la pubblicità e qualche limitazione non vi infastidiscono, tutto questo può essere perfino gratuito.
Il servizio offerto da Spotify o simili è decisamente allettante ma personalmente ho sensazione che non sia molto corretto. Che lo streaming sia il futuro è più che evidente ma lo è altrettanto che le cose non potranno rimanere a lungo così convenienti per i fan, che ovviamente in questo caso sono a tutti gli effetti dei consumatori e vanno dove costa meno.
Io sono dell’opinione che il digitale sia il miglior compromesso tra ciò che conviene e ciò che è corretto nei confronti degli artisti. La recente ripresa delle vendite di vinili e cassette è puramente una questione che riguarda i collezionisti disposti a pagare (troppo) per supporti considerati decaduti da qualche decennio ma tornati di moda per un effetto nostalgia. Il CD resta il migliore per chi vuole qualcosa da tenere fra le mani senza spendere cifre folli ma proprio a causa delle streaming è il supporto che sta soffrendo di più.

Se qualcuno tra voi volesse acquistare, sempre o qualche volta, un album digitale vi posso consigliare qualche sito. Personalmente mi sono sempre trovato bene con 7digital tra i primi store online di musica digitale. Troverete moltissimi album tutti in mp3 di alta qualità ad un prezzo mediamente di € 10, e con qualcosa in più c’è anche la possibilità di scaricare musica in formato FLAC, tutto senza DRM. Avrete il vostro account con gli album sempre disponibili da scaricare o ascoltare in streaming. Unici difetti, manca una wishlist e talvolta capita che qualche album sparisca dal catalogo dopo un po’ di tempo e non riuscirete più a scaricarlo di nuovo. Quindi è sempre meglio scaricarlo subito dopo l’acquisto, anche se è una cosa che capita raramente e non credo sia loro diretta responsabilità.
Altrimenti se volete acquistare direttamente (o quasi) dall’artista o dalla sua casa discografica c’è Bandcamp. Potrete acquistare qualsiasi cosa dai CD, al digitale, dai vinili e al merchandising vario. Gli album digitali sono senza DRM e ad offerta libera. Ci può essere un prezzo minimo ma potreste trovare qualcosa di gratuito. Si tratta per la maggior parte di artisti indipendenti o piccole etichette ma negli ultimi anni l’offerta è cresciuta molto e qualche nome importante comincia ad esserci. Avrete anche qui il vostro account con tutti gli acquisti scaricabili in qualsiasi momento e in qualsiasi formato conosciuto, pagando una volta sola. Non è una cosa da poco. C’è una wishlist e potrete seguire artisti, per essere avvisati quando esce un nuovo album, e seguire i fan, per essere aggiornati sui loro nuovi acquisti. Inoltre i prezzi sono espressi nella valuta dell’artista e quando, ad esempio, è in dollari, un album può venire a costare anche meno dei famosi 10 €. Senza contare che nella maggior parte dei casi acquisterete un album direttamente dall’artista, senza intermediari, ad eccezione dello stesso Bandcamp, che è sempre stato trasparente, e il più possibile corretto, per quanto riguarda la sua quota parte. Da notare che per avere un account è necessario acquistare almeno un album o qualsiasi altro prodotto. Qui potete trovare la ma collezione: bandcamp.com/joebarry.
Meglio ancora, se possibile, è acquistare direttamente dallo store ufficiale dell’artista o della sua etichetta.
Nei casi, rari, nei quali non riesca a trovare l’album che si sta cercando in uno di questi tre modi, non resta che Amazon, anche se non è proprio chiarissimo quale sia la qualità dei sui mp3 (comunque al di sotto di 320 kbits/s) se non dopo l’acquisto.

Quindi, se non vi va di pagare, niente è meglio della musica pirata o dello streaming gratuito. Ma se anche solo ogni tanto un album o una canzone vi piace, acquistateli.

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Mi ritorni in mente, ep. 63

Siamo ad Agosto ed è tempo di ferie e proprio adesso che avrei più tempo per fare recensioni, mi manca la voglia. Dopotutto è pur sempre Agosto ed è tempo di ferie. Quindi mi predo una pausa e comincio ad anticipare qualche nuova uscita prevista dopo l’estate. Ecco qui una playlist di novità in arrivo (ho scelto Spotify per comodità anche se non lo uso molto e presto capirete perché). Si inizia con il country rock di Aubrie Sellers e la sua Drag You Down che anticipa il suo secondo album di prossima uscita. Si passa poi al ritorno di Angel Olsen con All Mirrors, tratto dall’album omonimo in uscita il 4 Ottobre. Un altro graditissimo ritorno è quello dei Bon Iver con Faith che ci svela una piccola parte del loro quarto album, dall’enigmatico titolo i,i che sarà pubblicato il 30 di questo mese. Così come il tanto annunciato Norman Fucking Rockwell di Lana Del Rey. Ho scelto Venice Bitch e i suoi nove minuti in perfetto stile Del Rey. Si torna al country con Dori Freeman e la sua That’s How I Feel. Il suo terzo album Every Single Star uscirà il 27 Settembre e non vedo l’ora. Le tre sorelle Joseph tornano con il 13 Settembre con Good Luck, Kid e Fighter è il singolo scelto per presentare l’album. Ci sono altre novità nelle prossime settimane ma per oggi mi fermo a queste sei. Buon ascolto!

Cinque colpi delle dita, ep. 3

Con l’estate arriva anche un po’ di tempo libero per vedere qualche film che mi sono perso. Prima di farlo però vorrei condividere con voi qualche opinione sui film visti dalla scorsa puntata di questa rubrica. Qualche buon film ma anche qualcuno piuttosto scarso…

Ho ripreso la filmografia di Quentin Tarantino proprio dal suo esordio intitolato Le Iene (Reservoir Dogs, il titolo originale). Questo film è ormai un cult ed anticipa lo stile e le trovate del regista americano. Soliti dialoghi coloriti che staresti ad ascoltare per ore e tanto sangue e violenza. Un film dalla narrazione spezzata come spesso ha scelto di fare Tarantino. Un bel film, come al solito sempre ben fatto e coinvolgente. Un altro film che è rimasto per troppo tempo “da vedere” è stato American Hustle diretto da David O. Russell che vede la partecipazione di un poker di attori del calibro di Bradley Cooper, Christian Bale, Jennifer Lawrence e Amy Adams. La storia inizia con il pretesto un po’ stiracchiato di un poliziotto che vorrebbe acciuffare tutti i malviventi degli Stati Uniti aiutato da due truffatori professionisti. Belle ambientazioni e una splendida Amy Adams a tirare le fila insieme ad un Christian Bale sempre eccezionale nella sua interpretazione. In in film di truffatori ci si aspetterebbe un gran colpo di scena finale, come del resto la storia lascia presagire, ma tutto si riduce ad una trovata che sembra fare più danni del previsto. Insomma un bel film ma non troppo. Poi è stato il turno di The Square di Ruben Östlund, regista svedese, che ha vinto il festival di Cannes. La storia gira intorno ad un curatore di un museo d’arte moderna che, in seguito ad un furto, è protagonista di una serie di eventi curiosi. Il film, con un clima da commedia ma non troppo, affronta le disparità della società moderna usando proprio l’arte contemporanea come veicolo del messaggio. Un film che tiene incollati fino alla fine ma di fatto inconcludente per sua stessa natura. Da vedere se amate i film senza una trama ben definita. Ho rivisto Moon, film fantascientifico del 2009 diretto da Duncan Jones con un’eccezionale Sam Rockwell. Un tecnico che opera su una base lunare è pronto a tornare a casa dopo anni di lavoro ma qualcosa non va per il verso giusto. Un thriller dove Rockwell fa tutto da solo e cerca si svelare la verità del suo lavoro. Ghost Stories è un altro bel film che è una trasposizione dell’originale scritto per il teatro. Diretto a quattro mani da Jeremy Dyson e Andy Nyman, vede quest’ultimo interpretare un professore che vuole smascherare tutti i presunti eventi paranormali. Ma una lettera lo convince a intraprendere la scoperta di tre casi inspiegabili. Sembra un horror un po’ consunto e scontato ma quando il puzzle si ricompone è davvero una sorpresa. Il tutto condito dal tipico humor inglese.

Passiamo alle note dolenti. Looper diretto Rian Johnson con Joseph Gordon-Levitt e Bruce Willis. Ne avevo sentito parlare molto bene e poi aveva a che fare con i viaggi nel tempo, che mi appassionano da sempre, quindi dovevo vederlo. Nel futuro i viaggi nel tempo saranno possibili ma diventeranno presto illegali. Loschi personaggi mafiosi cominceranno ad usarli per far fuori i personaggi scomodi. Nel presente, i looper, non sono altro che assassini che uccidono questi condannati a morte provenienti dal futuro, finché un bel giorno non si trovano ad uccidere sé stessi. Nel caso di Gordon-Levitt qualcosa va storto con la sua controparte del futuro, Willis. Ora, il pretesto per creare i soliti paradossi temporali è un po’ scarno e poco approfondito ma alcune incongruenze nella trama mi hanno indispettito. Cercando su internet ho notato che molti la pensano come me, facendomi notare anche altri particolari buttati lì a caso che servono solo a portare avanti la storia mandando a quel paese quella poca coerenza che c’è nella trama del film. Non mi dilungo oltre. Vedetelo, è comunque un divertente film d’azione, ma poi ragionateci un po’ su e leggete qualche post interessante su internet. Arriverete alla conclusione che è veramente pensato male, davvero male. Non posso dire invece che non mi sia piaciuto Mr. Nobody di Jaco Van Dormael che vede, nel ruolo di protagonista, il “cantattore” Jared Leto. L’idea alla base del film è buona ed interessante ma viene svelata solo nel finale. Il problema è che ci si mette troppo ad arrivarci. Manca a mio parere un vero e proprio crescendo che tenga incollati gli spettatori. Tutte le molteplici vite di Mr. Nobody si sovrappongono e non è facile seguirle ma anche riuscendoci non si ottiene granché. In definitiva un bel film ma dovrete armarvi di un po’ di pazienza per arrivare finalmente comprenderne l’impalcatura. E poi per finire ho visto The Meg. Sapevo ha cosa stavo andando incontro ma non credevo avrei fatto così fatica a finirlo. Una nota positiva gli effetti speciali, il resto da dimenticare.