Leggere fra le righe

Questo album, Somewhere Ride, con in copertina un baffuto ragazzo dai capelli lunghi, è stato nella mia wishlist per un bel po’ di tempo. Solo di recente sono tornato sulle tracce di Almighty American, moniker sotto il quale si nasconde il cantautore americano Michael Gay e la sua band. Il suo folk americano e la sua voce mi avevano conquistato subito, in particolare con la sua Bus Brakes. Questo Somewhere Ride è il suo album d’esordio, uscito nel 2017 anticipato dall’EP On The Edge di un paio di anni prima.

Almighty American
Almighty American

Si comincia con Dead Star, ballata country folk che richiama le sonorità più classiche di questo genere. Michael Gay con la sua voce ed un testo ricco di immagini ci svela il suo talento, supportato da una band di tutto rispetto. Tra le canzoni che preferisco di questo album c’è senza dubbio Bus Brakes. Un ritornello orecchiabile dove musica e parole si fondono alla perfezione, trascinando l’ascoltatore in quella meraviglia nella quale solo la musica ci può trascinare. The Only Eyes I Care About è probabilmente dedicata ad una persona speciale. Michael Gay riflette su sé stesso e sull’importanza di essere un artista in una delle canzoni più belle e personali di questo album. Reading Mind svolta verso un un folk rock dalla chiare sonorità americane. Ancora una volta questo cantautore riesce ad attirare l’attenzione di chi ascolta con il suo stile sincero e diretto che fa dell’immediatezza il suo punto di forza, in particolare in questa canzone. La successiva I Didn’t Know rallenta il ritmo essendo una ballata riflessiva e solitaria. Un vero e proprio gioiellino incastonato in questo album, che rende evidente il rispetto e la profonda ispirazione che Almighty American ha per i grandi cantautori della tradizione americana che lo hanno preceduto. In The Quiet è un’altra bella canzone sul desiderio di vivere in una felice tranquillità lontano da tutto. La voce di Michael Gay si fa più morbida che in precedenza, sottolineando questa profonda necessità di serenità. Law Of Club And Fang ricalca quanto fatto sentire finora, il suono della chitarra e la voce unica delineano il sound di questo cantautore. Così come succede nella bella Passing Time. Michael Gay si rifà uno stile vecchia scuola, giocando anche con la voce. La band si affida al suono familiare di una chitarra pedal steel che è sempre la benvenuta da queste parti. Si abbassano le luci e si fa spazio il folk rock scuro di Neon Catacombs. Una canzone per certi versi diversa del resto dell’album, più accattivante ma ugualmente sincera e personale, che ricorda un po’ un certo tipo di rock anni ’90. La conclusiva Wild, Young, Free affonda ancora di più in un’atmosfera malinconicamente rock. Almighty American confeziona una ballata solitaria e carica di rabbia e tristezza.

Somewhere Ride è un album brillante per la capacità di Michael Gay di trarre su si sé l’attenzione del ascoltatore mescolando testi personali a musiche facilmente riconducibili ad un certo tipo di cantautorato americano, e in questo la band ha un ruolo importante. Fa un certo effetto pensare che questo possa essere solo l’esordio di un cantautore, che dimostra di avere un certo carisma e talento nella scrittura. Sicuramente Somewhere Ride non è un album nato nel giro di poco tempo ma racchiude il lavoro di anni e che, viste le premesse, lascia presagire un interessante carriere per il progetto Almighty American. Per chi vuole ritrovare tutto il gusto del buon sound del folk americano questo album è perfetto per lo scopo.

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Vanità d’oro

Dopo l’ottimo esordio dello scorso anno intitolato Away From My Window (Una piccola parte), la giovane cantautrice scozzese Iona Fyfe ritorna con un EP nel quale si misura con qualcosa di diverso. Dark Turn Of Mind, uscito all’inizio di quest’anno, raccoglie sei ballate sia tradizionali che contemporanee, tutte reinterpretate con il suo stile delicato ed elegante. Questo EP va ad aggiungersi alla discografia di un’artista che, ha soli ventuno anni, ha dimostrato di essere già una folksinger di riconosciuto talento.

Iona Fyfe
Iona Fyfe

Apre l’EP la title track Dark Turn Of Mind, reinterpretazione dell’originale di Gillian Welch del 2011. Una canzone che, nella versione della Welch, risulta più oscura e dalla sonorità americane rispetto a quella della Fyfe, più triste e malinconica, “Take me and love me if you want me / Don’t ever treat me unkind / Cause I’ve had that trouble already / And it left me with a dark turn of mind“. La successiva Swing And Turn è una canzone appalachiana cantata da Jean Ritchie anche conosciuta anche come Swing And Turn (Jubilee). Immagini della vita nelle campagne americane, rivivono una seconda vita, con la gioiosa e giovane interpretazione della Fyfe, “The hardest work I ever done, / Workin’ on a farm, / Easiest work I ever done, / Swingin’ my true love’s arm / Swing and turn, Jubilee / Live and learn, Jubilee“. If I Go, I’m Goin è una cover dell’originale di Gregory Alan Isakov del 2009La versione di Iona Fyfe non si discosta molto da quella del cantautore americano, non fosse per un accompagnamento guidato dal suono del pianoforte che la rende ancor più delicata e magica, “This house, she’s holding secrets / I got my change behind the bed / In a coffee can, I throw my nickels in / Just in case I have to leave“. Con The Golden Vanity, Iona Fyfe ritorna al suo amore per le ballate scozzesi. Le prime tracce di questa canzone risalgano al 1685 ma si trovano anche al dì là dell’Oceano Atlantico e ha attraversato i secoli non senza trasformarsi. La storia della nave Golden Vanity e del suo sfortunato eroe, rinasce in una nuova versione in questo disco, “He bent to his breast and away swum he, / He swum and sunk the ship of the Spanish gallee / Some were playing cards and some were playing dice / And the boy he had an auger and he bore three holes at twice / Sailin’ on the low, the lowlands low / She sailed upon the lowlands low“. Si prosegue con la tradizione con Let Him Sink, questa volta americana ma di origine scozzese. Ripescata dalla stessa Fyfe in un immenso archivio di canzoni, è qui riarrangiata e riscritta splendidamente, “The last time I saw him / T’was in the shady grove / He tipped his hat so gently / An’ offered me a rose / He thought that I’d accept it / But he could plainly see / I had grown cold / Since he went back on me“. Chiude l’EP la bella Little Musgrave. Solo voce per la Fyfe che reinterpreta una ballata probabilmente di origine inglese ma diffusa anche in Scozia. Forse ispirata ad un vero fatto di sangue, come vuole la tradizione delle murder ballads, “Rise up rise up, Little Matty Groves / Rise up as quick as you can / It shalln’t be said in old Scotland / I slew a naked man, a man / I slew a naked man“.

Con Dark Turn Of Mind, Iona Fyfe sottolinea ancora una volta l’universalità delle canzoni folk, che viaggiano insieme agli uomini e le donne nel corso dei secoli, raggiungendo luoghi allora lontani come gli Stati Uniti, e contribuendo a plasmare la musica dei nostri giorni. Non a caso, questo disco, presenta brani molto più recenti, anzi contemporanei, ma che racchiudono uno spirito comune che viene da lontano. Iona Fyfe trasforma tutto ciò che tocca in eccezionali ballate, impreziosite dalla sua voce pulita ed educata. Dark Turn Of Mind è accompagnato anche un’attenta ricerca della stessa Fyfe che potete trovare qui, Dark Turn of Mind EP Liner Notes, che dà dimostrazione di professionalità e passione oltre che di puro e semplice talento.

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La misteriosa

Il nome di Alexandra Savior mi è balzato all’occhio un po’ per caso e un po’ perché stavo cercando qualcosa di diverso da ascoltare. Il suo album d’esordio del 2017 intitolato Belladonna Of Sadness mi ha subito incuriosito per le sue atmosfere dark e quel sound alternative rock che stavo cercando. Spesso questa cantautrice americana la troverete associata al nome di Alex Turner, produttore dell’album, nonché suo mentore. Personalmente non scelto questo album per i nomi che si portava dietro ma semplicemente perché i suoi numerosi singoli tratti da esso mi aveva attratto, facendomi riscoprire un genere musicale che avevo ultimamente lasciato un po’ in disparte.

Alexandra Savior
Alexandra Savior

L’iniziale Mirage ci svela le oscure trame dell’album, scandite dalla voce distaccata della Savior. La protagonista Anna-Marie Mirage è una donna che si è ritrovata in un mondo, quello dello spettacolo, lasciandosi trascinare dagli eventi e nel quale deve fingere di essere ciò che non è, “Dress me like the front of a casino / Push me down another rabbit hole / Touch me like I’m gonna turn to gold / She’s almost like a million other people / That you’ll never really get to know / And it feels as if she’s swallowing me whole“. Bones è una canzone che parla di un amore appena sbocciato ma che affolla, fin da subito, i pensieri della protagonista. Scritta da Alex Turner, questo brano, scandito dalle chitarre è uno dei più orecchiabili dell’album, “In my bones, I can feel it in my bones / In a way that I’ve never felt before / I just can’t stop from wondering where you are / How’s it for you, baby?“. Shades vira verso sonorità più marcatamente alternative rock, senza abbandonare le atmosfere oscure e ossessive dell’album. Il suono del basso suonato dallo stesso Turner guida la canzone e la voce della Savior, “Like when you’re looking for your shades / Rifling through your pockets / And you find them on your face / Walking around in a daze / I don’t want to stop it / Baby let you trade“. La successiva Girlie prende di mira il modo distaccato e snob dello show-business. La voce della Savior si fa melensa come quella di Lana Del Rey, in una canzone ben confezionata ed elegante, Talk about Hollywood problems / She’s got ‘em / She’s always looking for a wilder ride / And she’ll be fuckin’ with her phone all night / She calls me ‘Girlie’“. Frankie è una torbida storia di amanti, carica del fascino della voce della Saviour. La presenza di Alex Turner si fa ancora sentire ma esalta le doti espressive della giovane cantautrice, “You got falling stars at your feet / You got stolen from next to me / And the moment’s gone back to sleep / You got stolen from next to me / You say you gotta go / To a place I don’t know / Well, the ace in the hole / Is I’ve got a friend called Frankie“. Il pezzo da novanta dell’album è M.T.M.E., tributo alle colonne sonore dei film di Dario Argento. Una relazione interrotta rivive attraverso una compilation di dieci brani, “Scribble down in pencil / Ten-track souvenir / Audio momento / Music to my ears / You questioned my credentials / You quoted Vladimir / You’re Dario Argento / Music to my ears / Music to my ears / Music to my ears / Music to my ears“. Audeline è un altro brano a tinte fosche e un testo criptico. Un brano vagamente ipnotico e percorso da un ritmo lento ma costante, “Far behind / I struggle to cast a line / Motorcycle leather alliance / Don’t leave me caught up / He spends his days / With what’s-her-face / The seven shades of Shaman / She’s being vague / He’s in that phase / I’m by your place“. L’amore può far male, lo sa bene la protagonista di Cupid. Un punto di vista più drammatico dell’operato del dio Cupido che ben si sposa con il mood dell’album, “There’s a mysterious force / It sinks in it’s claws / Pulls me closer to yours / Some cosmic business / Illuminating allure / What are we waiting for / Never hated you more / Why does nobody but you“. ‘Til Your Are Mine affonda ancora di più in una nebbia da film horror. Tutta l’ossessione di una donna per il suo amante che però si rivela un traditore. La Savior è perfettamente calata nel ruolo, tanto è dolce e romantica la sua voce quanto sinistro il suo intento, “Do you think she feels like she’s being watched? / Maybe not / But baby, when the music stops all you got / Is a risky photo / Bathroom mirror moment, bozo / Smoke show / She’s fine / Perfect kissing height / Yeah, she suits you alright / But I won’t stop until you’re mine“. Ancora una relazione difficile, in fuga da qualcosa o qualcuno, in Vanishing Point. Affascinante scelta musicale che riaccende l’album e arricchisce la voce della Savior, “You’re a thousand times mine / I’m a thousand times yours / A thousand times mine / And I want a thousand more / Oh, until the vanishing point / And baby, not a moment before / You’re a thousand times mine / And I am a thousand yours / A thousand yours“. L’album si conclude con la lunga Mistery Girl. Ancora un amore ossessionato dalla presenza di un’altra donna. Alexandra Saviour ancora una volta si affida, sempre con il benestare di Turner, ad atmosfera da film horror vecchia scuola, “Pardon me, baby / But who’s the mystery girl? / Don’t you try to calm me down / Don’t you try to calm me down / Pardon me, baby / But who’s the mystery girl? / Mystery girl“.

Belladonna Of Sadness è album affascinante sotto molti punti di vista e con una direzione stilistica ben definita. Forse proprio questa solidità, merito della presenza ingombrante di Alex Turner e James Ford, rende questo debutto fin troppo maturo per una ragazza che all’epoca aveva solo ventun anni. La strada tracciata dal leader degli Arctic Monkeys può essere di aiuto per la giovane Alexandra Savior in futuro ma è evidente che non potrà dipendere da lui molto a lungo. Belladonna Of Sadness è un album che non cattura al primo ascolto e le sue particolari sonorità potrebbero non piacere a tutti, nonostante rappresentino una novità, però ci fanno conoscere un’artista dalla grandi potenzialità che deve ancora svelarsi completamente in un prossimo futuro.

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Otto all’otto

Questo blog è giunto al suo ottavo compleanno. Permettetemi di scrivere un post per questi otto anni. Non sarà breve. In un, evidentemente, noioso sabato 8 Gennaio del 2011 ho iniziato a scrivere le prime righe, senza sapere dove sarei andato a finire. Avevo otto anni in meno di oggi e fa un certo effetto a pensarci. Quello che è successo dopo lo trovate tutto qui, per chi avesse la pazienza di leggersi anche i post più vecchi. Perdonatemi se qualcuno di questi non è un granché, e in alcuni casi non mi trovo nemmeno più d’accordo con quanto scrissi allora ma questo è, e rimarrà a testimonianza del fatto che si può cambiare idea e fare esperienza. Non ci crederete ma ho una buona memoria di quanto scritto in questi anni. A volte mi ricordo di un certo post, credendo di averlo scritto in tempi recenti, ad esempio 2-3 anni fa. Invece, si rivela essere un articolo risalente addirittura a 6-7 anni fa. Eppure era così ben impresso nella memoria da considerarlo molto più recente. Se penso a quanto ho scritto in tutti questi anni mi vengono in mente tanti ricordi. Mi capita di rileggere qualche vecchio post e rivedo me stesso che scrivevo, i miei pensieri e le opinioni di allora. Qualche volta ne vado fiero, qualche altra un po’ meno. Rispetto ai primi due anni, nei quali scrivevo per lo più pensieri sparsi, la linea di questo blog è cambiata parecchio. Chissà magari troverò un po’ di spazio per scrivere ancora qualcosa in libertà come sto facendo oggi. Ci proverò ma non aspettatevi nulla.

Otto anni. A pensarci bene otto anni non sono pochi, affatto. Otto anni nei quali non ho mai mollato. Otto anni nei quali ho visto blogger molti volenterosi “morire” nel tentativo di pubblicare un post al giorno, anche piuttosto ben scritti ed articolati devo ammettere, per poi rendersi conto che non è una cosa che puoi fare a lungo se fai altro nella vita, come studiare o lavorare. A meno che il blog non diventi il tuo lavoro. Non è il mio caso e non voglio nemmeno che diventi un impegno, anche se a volte, non lo nego, mi ha portato via del tempo che avrei potuto spendere in altro modo. Sottolineo, che “avrei potuto” e non che “avrei voluto”. Non è una differenza da poco. Il blog rischia di diventare la tua ossessione, mangiarsi il tuo tempo libero, trascinandosi dietro gli effetti collaterali dei social network. Like, followers e numero di visite potrebbero diventare poco a poco sempre più importanti e portarti via sempre più tempo. Se ti va bene così, sono contento per te e ti auguro di avere successo. Altrimenti puoi scegliere una strada più tranquilla e fregartene di tutte queste cose e prendere i like, i followers e il numero di visite come un riconoscimento per aver fatto leggere o ascoltare qualcosa che a qualcun altro, oltre che a te, è piaciuta. Credo di non averlo mai fatto finora ma vorrei ringraziare, nel più banale dei modi, tutti quelli che mi leggono, italiani e non. Ringrazio anche chi mette like e segue solo perché vuole essere seguito e avere un like a sua volta. Questa è una cosa che io non faccio mai ma capisco che funziona e forse sono io ha non averla sfruttata abbastanza.

In otto anni è passata da queste parti tanta musica ma non tutta per la verità. A volte capita che un album non mi abbia entusiasmato troppo o semplicemente non avevo molto da scrivere a riguardo nonostante mi sia piaciuto, anche parecchio in alcuni casi. In un primo momento questa mi sembrava una buona occasione per citarne alcuni di essi, dei quali non ho mai scritto e quasi sicuramente non lo farò in futuro. Ma poi ho pensato: perché farlo dopotutto? Per quale motivo elencarvi nomi di artisti e album dei quali, perfino io faccio fatica a citarvi una canzone? Per lo stesso motivo per il quale non faccio recensioni negative. Questo blog è qui per consigliare e non giudicare. Perciò sarà chi legge a storcere il naso eventualmente. A volte mi scappa qualche recensione tiepida, altre volte meno, ma cerco sempre di trovare il buono in ogni album o perlomeno di comprendere le motivazioni che stanno dietro le scelte di un artista. Quindi niente nomi.

Cosa aspettarsi per il futuro? Il solito, mi verrebbe da dire ma non è esattamente così. Dallo scorso settembre ho deciso di istituire una giornata particolare che si ripeterà quattro volte l’anno, l’ultimo sabato del mese. Mi sono reso conto solo in secondo momento che in pratica questo giorno coincide con il cambio di stagione (sic). Mi sono dato la possibilità di anticiparlo o posticiparlo di una settimana e di considerarlo perso se vado fuori tempo massimo. In tale giorno, acquisto cinque album il più possibile di generi musicali diversi tra loro. Lo faccio perché mi rendo conto a volte di essere un po’ ripetitivo e la mia curiosità ad esplorare un certo genere musicale mi trattiene dal provare qualcosa di diverso. E poi perché gli album che ho in (non so quante) wishlist sparse ovunque, stanno crescendo a vista d’occhio ed è bene che cominci a toglierne qualcuno. In questo giorno, dunque, mi auto-obbligo a scegliere cinque album senza fare troppo il difficile su quello che posso trovarci dentro. Un album deve rientrare nella categoria folk e simili, un altro in quella country o americana e simili. E fin qui tutto facile, ho solo l’imbarazzo della scelta. Poi il terzo possibilmente pop o rock, ed un quarto blues, jazz o simili. Questi ultimi due per me sono più difficili da scegliere e pesco un po’ alla cieca. Il quinto lo tengo come jolly, purché sia diverso dai precedenti quattro. L’importante è che siano tutti e cinque album, niente EP o cose del genere e che siano stati pubblicati in tempi recenti (questo è più forte di me, posso farci poco o nulla). Ho già sperimentato questa novità dei cinque album in due occasioni e devo dire che sta funzionando alla grande. Saranno in tutto 20 album all’anno in più che si vanno ad aggiungere a quelli che entreranno a far parte della mia collezione in tempi di normale amministrazione. Quindi in futuro, in questo blog potreste veder comparire qualche recensione di album che non rientrerà nei soliti generi che vado a coprire. Sono sicuro che sarà divertente per me quanto per voi ascoltare qualcosa di diverso ogni tanto.

E poi c’è sempre la questione dei libri. Non riesco più come un tempo ad incastrare post di musica e di libri come facevo una volta, pur rimanendo un lettore regolare. Se ci deve essere un buon proposito per l’anno nuovo, ecco, sarebbe quello di scrivere più spesso di romanzi. Devo anche ammettere che con la recensione di un libro si va abbastanza sul sicuro qui su WordPress. Sono molti i blog che seguo dove si possono leggere recensioni interessanti che, spesso e volentieri, mi aiutano quando sono alla ricerca si qualcosa di nuovo. Le grande quantità di blog che recensiscono libri però mi invoglia sempre di più a scrivere di altro (musica) per muovere l’interesse del lettore verso qualcosa che non siano libri o film. Ecco appunto, il cinema. Lo scorso anno ho fatto un post su qualche film che avevo visto e che mi sono sentito di consigliare. Forse la formula che ho usato in quell’occasione (poche righe per ogni titolo) potrebbe funzionare anche per i libri. In realtà l’ho già fatto in passato ma era solo per tamponare le mancanze letterarie del blog, l’idea è di farlo più regolarmente. Lo stesso vale per i film che sono altrettanto ben coperti dai blogger di questa piattaforma. Il fatto di scrivere di più di libri e cinema non è una promessa, è un buon proposito appunto. Si sa poi dove vanno a finire i buoni propositi.

Ok, credo di aver scritto abbastanza per questa volta e se qualcuno ha avuto la costanza di leggersi tutto il post, mi congratulo con lui. Non è una cosa scontata di questi tempi ma credetemi scrivo più di quanto parlo. Tipico di chi parla poco come me. Otto anni a scrivere, spero non sempre completamente a vanvera, ne sono la dimostrazione.

Se solo ci fosse un fiume

Prima che le nuove uscite di questo 2019 invadano il blog, è giusto dare spazio ad alcuni album che, per ragioni di tempo, sono rimasti fuori dalle recensioni dello scorso anno. Uno di questi è If Only There Was A River della cantautrice americana Anna St. Louis al suo debutto, dopo un mini album di otto tracce intitolato First Songs. I primi ascolti mi hanno fatto inquadrare la giovane Anna nella categoria delle cantautrici indie folk contemporanee ma c’era qualcosa di diverso nella sua musica. Solo i ripetuti ascolti hanno saputo svelare quel tanto che basta a renderla più interessante di altre sue colleghe.

Anna St. Louis
Anna St. Louis

L’album si apre con Water, un brano vagamente psichedelico guidato dal suono della chitarra. La voce melodiosa e pungente della St. Louis è ipnotica. C’è una sorta di tensione fragile durante tutta la sua durata. Davvero eccezionale, “How deep is the water? / You say, “It’s not” / How long is it flowing? / You say, “It’s gone” / I guess I dreamt / Slow traveling in times / I guess it was a / A picture in my mind“. Il singolo Understand mette in luce l’importanza del ritmo nella sua musica. Senza sacrificare la melodia e afferrando tutto quanto c’è di buono in un certo cantautorato femminile di oggi, Anna St. Louis si può permettere di rallentare il ritmo sensibilmente, creando un atmosfera sognante e smorzata, “The blue blouse that I wore / Hardly fits anymore / Understand you, I don’t understand / The heat that we both felt / Faded out like a cigarette / Understand it, I don’t understand“. La successiva The Bells è più marcatemene folk e strizza l’occhio anche al country. Una ballata dallo stampo classico ma impreziosita da trovate più moderne ed un finale brillante, “So long honey, baby / You can’t set me free / So you must be going / But our time was sweet / Oh, there’s nothing left to do / Oh, there’s nowhere to be / ‘Cause the shadow is moving / Right next to me“. Paradise è ancora una ballata, questa volta più essenziale e poetica, dove spicca il calore nella voce della St. Louis. Una canzone per sognatori, dove emerge una buona dose di malinconia, “Loads of people / In this old world / And they’re dreamin’ / Just like me / How the days / Roll into nights / And it’s still so / Hard to see / Where it’s gonna lead / Where it’s gonna lead / Where it’s gonna lead“. Daisy è una traccia quasi esclusivamente strumentale. Una musica ipnotica ci traghetta nella seconda metà dell’album. Desert viaggia lentamente, la voce della St. Louis appare distante. Le chitarre graffiano il denso tappeto sonoro in sottofondo, lasciando una sensazione di smarrimento,  “Nobody knows, nobody sees / That the back roads seem kinda wide / With the doves flowing round for miles / And the pilgrims are hoping to find / Their rivers had not run dry“. Tra le canzoni che preferisco c’è senza dubbio Hello. Faccio fatica a ricordare una canzone che riesca a mescolare ritmo e melodia in modo così perfetto. Le parole sono musica, sono ritmo. Da ascoltare, “And the dancing that you done / Oh, the dancing that you done / Oh, the dancing that you done / Oh, the dancing that you done / Has lost all its fun / Has lost all its fun“. Freedom apre verso un indie folk oscuro e minimale. Anna St. Louis si mantiene impassibile e continua ad usare la sua voce come un strumento musicale, senza fronzoli, stando attenta a mantenere sempre un ritmo lento e cadenzato, “Alone, alone / I walked alone / Alone, alone, alone / So why did you wait so long? / Why did you wait so long? / Oh, you’re right on my heels / And the sun’s in my eyes“. Lo stesso si può dire di Mean Love. Un delicata canzone d’amore, un po’ triste ma molto poetica e commovente. Questa cantautrice dà prova di talento anche nella scrittura e trovando nuovi spunti in un finale ancora una volta ipnotico e affascinante, “Well, I put on my dancing shoes / I got a right to / I got a right to / And I put on my favorite blues / I got a fire in me / I got a fire in me, too“. Wind si affida a qualcosa di più classico, un folk americano di vecchia scuola ma spogliato di qualsiasi cliché, rendendolo essenziale e moderno, “In the evergreens / I saw you roam / Like heaven / Descended down / You seemed to float / Beneath that western sky / On that strange night“. L’album si chiude con la title track If Only There Was A River nonché uno dei brani più belli di questo album. Una canzone che chiude idealmente il cerchio, una riflessione che incanta l’ascoltatore e lo trascina in questo fiume che scorre lento, “If only / There / Were a river / To drown out / My weeping / Cries / If only / There were a river / To drown out / My weeping / Cries“.

If Only There Was A River è un debutto che ricorda, per certi versi, altre due cantautrici come Angel Olsen o Molly Burch ma a differenza di loro Anna St. Louis riesce a mantenersi più fedele ad un certo tipo di folk americano, più classico e senza tempo. Quel tempo che in If Only There Was A River scorre lento e costante, scandito da un uso attento di ritmo e melodia. Non ci sono alti e bassi fatti per catturare l’orecchio di chi ascolta. Anna St. Louis non vuole attirare a sé l’ascoltatore  ma lo vuole trasportare, come farebbe la corrente di un fiume. Sì, avete capito, il fiume è la metafora dell’album e Anna St. Louis non è una traghettatrice bensì l’acqua, che scorre senza sosta, si apre e si chiude di fronte a qualsiasi ostacolo. Con questo album vi troverete sommersi dalle acque di questo fiume ed uscirne non sarà così semplice.

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