I texani non sanno ballare

Dopo l’ottimo Heartbreaker Of The Year (Il diavolo ha preso in prestito i miei stivali) la cantautrice canadese Whitney Rose è tornata quest’anno con il nuovo album Rule 62. La regola 62, nel gergo degli Alcolisti Anonimi, è “non prendersi troppo sul serio” e ascoltando lo stile musicale e l’approccio di Whitney Rose, questa definizione, è senza dubbio calzante. In questi tempi confusi, la sua musica dal fascino retrò, funziona meglio di qualsiasi sperimentazione lasciando dietro di sé un gusto del tutto particolare. Con Rule 62 si tenta il salto di qualità con un occhio al passato è uno sul presente.

Whitney Rose
Whitney Rose

Si comincia subito con I Don’t Want Half (I Just Want Out) che racconta l’addio di una donna al suo amante. C’è una donna di troppo e piuttosto che un amore a metà è meglio nessuno. Molto bello l’assolo di chitarra nel finale, “Here’s a goodbye kiss / Now, you’ll never touch these lips / And please tell your girlfriend / She can have all my clothes / I wanna make myself real clear, I won’t be roundabout / I don’t want half, I just want out“. Con Arizona si precipita in un godibile country rock, orecchiabile e spensierato. La voce della Rose è morbida e si muove sinuosa tra il ritmo della batteria e le chitarre, “Guess I should’ve known by the way you treat your mama / Guess I should’ve reckoned warning signs / Guess that I was blinded, guess that I was fool / Saw you and I had to make you mine“. Non può mancare una ballata come Better To My Baby. Lo struggente tentativo di ricominciare con un amore finito, raccontato su una musica senza tempo, “What I wouldn’t do to make us happy again / What I wouldn’t give to have him back here in my bed / You hold the world when you hold his hand / So don’t you break that heart of gold / Just be thankful every day that he’s your man“. You Never Cross My Mind è un’altra ballata ma più malinconica. Il testo è un gioiellino dove si arriva a negare l’evidenza pur di dimostrare che lei non pensa più lui, confermando, di fatto, il contrario, “No one ever needs romance / Texans don’t know how to dance / Truckers, they don’t know the road / Grown-ups never cry / You never cross my mind“. Una storia pericolosa quella in You Don’t Scare Me, una delle più belle canzoni di questo album. La voce innocente della Rose è nella sua espressione migliore, “I know you’ve broken up some hearts / Went and tossed ‘em to the sea / Well, someone beat you to the punch / You don’t scare me / There’s no damage you can do / Ain’t already done / Just look into my eyes, you’ll see / You don’t scare me“. Il singolo Can’t Stop Shakin’ è racchiuso nel titolo. Impossibile resistere al ritmo della musica e al carisma della Rose. Un brano vicino al sound del precedente album ma arricchito dai dettagli e dall’esperienza, “Come on, baby, hold me close / Don’t make me shake all alone / I can’t stop shakin’ / I can’t stop shakin’“. Tied To The Wheel è un altra ballata country malinconica al punto giusto. La dura vita da camionista, una vita in viaggio, sempre al volante. Un tema insolito per una donna ma Whitney Rose è convincente, “Yeah, I guess it’s my good luck / To make my living driving a truck / But it’s times like this that make me feel / That I’m tied to the wheel“. Ancora un camionista protagonista di Trucker’s Funeral. Questa volta è però il giorno del suo funerale nel quale la figlia scopre che suo padre ha due mogli, ciascuna in uno stato diverso. Il country racconta storie e questa è una bella storia, “At that trucker’s funeral / Two women buried wedding rings / If you’re at a trucker’s funeral / Be prepared for anything“. Wake Me In Wyoming è un altro bel brano in perfetto stile Whitney Rose. Il tema del viaggio e della lontananza funzionano sempre soprattutto cantati con voce morbida e malinconica, “Let me sleep / Just wake me in Wyoming / I don’t wanna feel how far away I’m going / Let me sleep / ‘Til we cross that state line / So I can’t change my mind and just go back home“. Un amore un po’ problematico quello di You’re A Mess. Un bel brano country dalle atmosfere romantiche con una Rose in totale controllo, “Sometimes I wanna punch you / I wanna slap your face / Make you feel all the marks and the scars you have placed“. Si chiude con un rock’n’roll vecchio stile intitolato Time To Cry. Whitney Rose è perfettamente calata nella parte, sfoderando tutta la sua voce, “And now you got the nerve to say you need me / To say you can’t believe I said goodbye / You watched me shed a thousand tears and then some / But now it’s your time to cry“.

Whitney Rose con Rule 62 si conferma una delle esponenti più talentuose di un certo revival country. Rispetto al suo predecessore, qui troviamo una maggiore ricchezza dal punto di vista musicale ma che non rappresenta certo nulla di innovativo. Ciò che è nuovo è piuttosto l’approccio più moderno nei testi e nel canto. Whitney Rose sa essere dolce e malinconica ma anche maliziosa e spensierata. Rule 62 è un album da ascoltare per intero in grado di trasportarci in un mondo dove il tempo sembra essersi fermato, ricco di sfumature e storie. L’invito è quello di non fermarvi alla sola canzone che potete ascoltare qui sotto e gustarvi uno degli album più piacevoli di quest’anno.

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Dottorini calvi

Dopo una breve pausa sono tornato a leggere un libro di Stephen King. La scelta è caduta su Insomnia consigliatomi da un collega che ha letto tutti i suoi libri. La lunga biografia di King offre un’ampia scelta e così ho voluto cercare un consiglio anche se con il Re è difficile pescare male. All’inizio ero orientato verso una raccolta di racconti ma alla fine ha vinto il romanzo. Anche in questo caso un romanzo abbastanza corposo ma al di sotto delle vette di prolissità raggiunte da King.

La storia inizia con i problemi di sonno che affronta l’anziano Ralph Roberts in seguito della morte della moglie. A questo si aggiungono anche altre preoccupazioni legate al suo amico Ed Deepneau che si dimostra violento con la moglie per motivi apparentemente folli. La privazione del sonno lo porta ad avere quelle che sembrano, almeno all’inizio, delle allucinazioni visive. Una notte vede uscire dalla porta della casa della sua vicina due ometti, da lui soprannominati dottorini calvi, con in mano uno strano paio di forbici. La successiva morte dell’anziana vicina sembra direttamente collegata alla presenza di questi due individui. Ralph si rende conto che le sue allucinazioni non sono altro che percezioni paranormali di un mondo superiore. Percepisce le aure delle persone, degli animali e delle piante, conosce la loro storia, vede il loro stato di salute. In breve scopre di essere stato scelto, insieme all’amica Lois Chasse, impedire la morte di migliaia di persone da questi personaggi che vivono in questo livello superiore fatto di auree. Tra segreti, mezze verità e paure la situazione precipita in una corsa contro il tempo.

Stephen King è alle prese con un romanzo paranormale dove il tema della morte è centrale. Non è certo la prima volta che King affronta questo tema ma riesce ogni volta a farlo con una sensibilità ed un rispetto profondi anche attraverso personaggi di fantasia. Il mondo superiore che Ralph percepisce è descritto in maniera lucida e realistica. I tre dottorni calvi, ispirati al mito delle Parche, sono personaggi misteriosi e inizialmente inquietanti. In particolare il cattivo Atropo è ben riuscito. Il romanzo è infarcito da citazioni dei romanzi della Torre Nera che è centrale nella definizione delle vicende. Essendo Derry lo sfondo della storia, non potevano mancare riferimenti ad It. Molti altri sono le citazioni che, chi non ha letto molti romanzi di King, può perdersi. Insomnia è quasi necessario per comprendere il finale della Torre Nera che può aver lasciato perplesso qualche lettore. Stephen King è geniale nel suo modo di raccontare e questa volta lo fa davvero con un ritmo serrato non privo di azione e suspense. King è un maestro nel legare i suoi romanzi l’uno con l’altro e con  Insomnia il suo universo, la sua Torre Nera, prendono forma attraverso i suoi personaggi.

L’albero del pepe

Tra i tanti ritorni di quest’anno c’è anche quello di Fanny Lumsden con il suo secondo album intitolato Real Class Act. L’alt-country brillante e colorato dell’esodio Small Town Big Shot (Correre con le forbici in mano) è un album che riascolto ancora volentieri. La carismatica simpatia e la sensibilità di questa cantautrice australiana sono contagiose e si trasmettono nelle sue canzoni. Questo secondo album lo attendevo con curiosità, sicuro di trovare ancora la Fanny dell’esordio, tra melodie orecchiabili e ballate country dal sapore un po’ nostalgico.

Fanny Lumsden
Fanny Lumsden

Watershed è una delicata ballata country che riprende là dove era finito l’album d’esordio. Si respira l’atmosfera di una serata all’aperto al termine di una giornata. Fanny Lumsden dimostra di avere una voce davvero melodiosa ed emozionante. Il singolo Roll On è un orecchiabile cavalcata country che avanza a colpi di banjo. Si sente tutta la gioia e l’irrefrenabile voglia di vivere e viaggiare, in questa canzone che rappresenta il cuore pulsante dell’album. La title track Real Class Act vibra della stessa energia. Fanny Lumsden fa centro affidandosi alla sua abilità di cantautrice e a quella della band. Da ascoltare. Elastic Waistband è una che canzone che ricalca le sonorità spensierate dell’esordio. Un mix ben congegnato tra testo e musica che strappa un sorriso confermando la simpatia di questa artista. C’è spazio anche per una ballata come Big Ol’ Dry. Fanny Lumsden è in forma smagliante e particolarmente ispirata. Una delle migliori canzoni dell’album. La successiva Real Man Don’t Cry (War On Pride) abbandona per un attimo le sonorità country per dare spazio ad un pianoforte che fa da sfondo alla voce rassicurante della Lumsden. C’è tanto cuore e si fa sentire. Con Pretty Little Fools si cambia marcia. Fanny viaggia veloce con le parole avvolta dal un ritmo rockeggiante. Impossibile resistere. Lo stesso si potrebbe dire di Peppecorn Tree. La cantautrice australiana è a suo agio e si muove sicura in questo movimentato folk rock, senza rinunciare ad essere orecchiabile e accattivante. Shootin’ The Breeze è un ozioso country blues dalle trame collaudate ma che fa respirare un po’ d’America, anche se ci troviamo dall’altra parte dell’oceano Pacifico. Perfect Mess è una sintesi del mondo di Fanny Lumsden. Un ritornello che si lascia canticchiare e che dimostra tutte le sue capacità di coniugare musica e parole, in una della canzoni più emozionanti. Rain On Your Parade ne è un altro esempio. Qui ha reggere il gioco è la voce della Lumsden, che accelera e rallenta catturando l’attenzione. Un ascolto piacevolmente sorprendente. Chiude Here To Hear che va esplorare qualcosa di più moderno. Un brano dalle atmosfere leggere di un pop etereo ma carico di emozione, che svela tutta l’intensità espressiva della voce di questa artista. Un colpo di coda ad effetto.

Real Class Act riprende l’ottimo lavoro fatto con Small Town Big Shot. Il risultato è più omogeneo e Fanny Lumsden appare più sicura di sé. La collaborazione con il marito Dan Stanley Freeman ha garantito una complicità che si sente in una rinnovata sensibilità ed ispirazione. Questo album mi ha dato l’impressione di trovarmi in fondo ad una giornata di viaggio. Un country adatto al tramonto, da ascoltare la sera quando le emozioni di una giornata intensa vengono a galla, siano esse di gioia, amore o si semplice divertimento. Un country crepuscolare ma tutt’altro che oscuro o triste. Edwina Margaret “Fanny” Lumsden con Real Class Act si rimette in gioco, senza prendersi alcun rischio, facendo sentire i sui fan di nuovo a casa. Anzi, in viaggio.

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Se una notte

Non è raro che basti una canzone per conquistare la mia attenzione. Un sound che fa per me e una voce elegante sono più che sufficienti. Tanto è bastato per portarmi alla scoperta di Marie Danielle. Questa cantautrice americana, originaria della Pennsylvania, ha pubblicato lo scorso anno il suo album d’esordio intitolato Hustler. Il suo è un indie folk dal gusto americano, caratterizzato dalla sua voce calda e avvolgente che non può lasciare indifferenti. Un album scoperto quasi per caso, come spesso mi succede, ma nel quale ho trovato quello che cercavo.

Marie Danielle
Marie Danielle

Tinseltown apre l’album, accogliendoci con una chitarra acustica che accompagna la voce straordinaria di Marie Danielle. Bastano poco più di due minuti e già l’atmosfera dell’album si fa malinconica e intensa. Si accendono le luci con Soldier, un brillante country folk,  che vede la partecipazione dei The Felice Brothers. Presenza non causale dato che Simone Felice è anche produttore dell’album. La title track Hustler mette in luce tutte le caratteristiche di questa cantautrice, a partire dalla capacità di songwriting. Il ritornello orecchiabile funziona ed è perfetta per rappresentare l’album. Dreary Hands ha un fascino d’altri tempi. Una canzone che scaccia ogni pensiero e che ci trascina lentamente in un lungo viaggio. One Night Stands è un brano che ha il profumo della notte. Marie Danielle riesce ha trasmettere quell’indescrivibile sensazione che si prova dopo una dura giornata. Da ascoltare. White Shoes è una cover dell’originale di Conor Oberst. Una delle canzoni più belle di questo album, molto diversa dall’originale e un raro caso in cui una cover è migliore. Un tocco personale e la voce calda sono tutto quello che serve a Marie Danielle per rendere una canzone speciale. One Of My Kind è un altro brano orecchiabile ma non banale. Marie Danielle sfodera ancora la voce nella sua versione migliore, delineando sempre un suo stile personale e sempre più riconoscibile. Un triste country folk si cela sotto il titolo di Slave Ships. Un’altra dimostrazione di talento e sensibilità che mette in primo piano la storia. La successiva Fun With Us è un rock lento e notturno. Di nuovo la voce di Marie Danielle è l’anima del brano. La conclusiva All Road Lead Home aggiunge un po’ di blues all’album, ricalcandone perfettamente le sue atmosfere.

Hustler è un debutto solido che ci fa conoscere una voce davvero interessante. Marie Danielle spazia tra le varie sfumature del folk americano, esplorandone lo spettro delle emozioni che sa dare. Ad ogni ascolto emergono sempre di più le sfumature delle canzoni, le sue atmosfere intense ma mai eccessivamente scure. Marie Danielle ha una voce che porta conforto e cattura l’attenzione, dando profondità a ciascun brano. Hustler è un album che mi auguro possa rappresentare l’inizio di una carriera ricca di soddisfazioni per una cantautrice di sicuro interesse nel panorama folk americano.

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Stormo

Quando voglio ascoltare qualcosa di nuovo basta che vado a cercare nella mia wishlist di Bandcamp. Come è successo altre volte, in quella sempre più lunga lista di album, trovo sempre qualcosa di buono. Come, ad esempio, From The Skein di Jenny Sturgeon, rimasto fin troppo tempo là dentro. Qualche settimana fa l’ho estratto dal mazzo, semplicemente affidandomi alla mia buona memoria in fatto di musica e forte del mio crescente interesse verso il folk tradizionale d’oltre Manica. From The Skein, uscito lo scorso anno, si è rivelato molto di più di un album folk nascondendo al suo interno suoni e idee davvero interessanti proposte da questa cantautrice scozzese.

Jenny Sturgeon
Jenny Sturgeon

Maiden Stone è ispirata alla leggenda legata ad una pietra che si trova nella regione scozzese Aberdeenshire. La storia è quella di una giovane donna che perde una scommessa con il diavolo. Per salvarsi scappa ma il diavolo quasi la raggiunge quando Dio la salva trasformandola in pietra, “In panic she ran for the hill / And in fury he turned her to stone / And she’s still there now, the Maiden Stone / At the back o’ Bennachie“. La successiva Raven è una delle più belle di questo album. Il ritmo sostiene la voce della Sturgeon, che si muove tra violini e chitarre. Una canzone folk ma dal piglio moderno, “The frost she settles on the web / The doe she shelters from the cruel, cruel wind / Roots find a home in the smallest gap / They grow and I carry them on my back“. Running Free è una delle canzoni che preferisco. Il suono della fisarmonica e il crescendo delle chitarre danno un fascino del tutto particolare ad una canzone che esprime libertà e voglia di vivere, “Wide eyes are looking high up where the branches sway / With dappled light upon your face / And touch is like a textbook of the things you learn / Absorb and nourish in your stride“. Selkie trae ispirazione alla leggende di queste creature fantastiche che la notte sono donne e di giorno foche. L’unico modo per non farle tornare nel mare e nascondere loro la pelle di foca. Interessante la scelta di inserire una seconda voce dai colori orientali, “Once my pelt was in your hands / And I a prisoner of the land / Until I stole my soul back from you / Now I have the ocean wide“. Nowhere Else I’d Rather Be è una canzone molto poetica. La voce della Sturgeon ferma ma morbida, dà un tratto particolare alle canzoni e a questa in modo particolare, “A meeting in the sun / On the meadows how the time goes fast / The past a tale of how we met / And look where we have come“. Il mare scozzese fa da sfondo a Honest Man. Una canzone che parla d’amore con semplicità e malinconia. Da ascoltare, “Down at the shore / He meets her once more / Searching her eyes / For a tell-tale sign / She smiles at him and his heart starts to sing“. Cùlan è una variazione di una canzone tradizione che racconta la storia di una sorella, promessa sposa di un uomo, che viene annegata per invidia dalla sorella maggiore. Il testo contiene una frase in gaelico che svela come la giovane, trasformatasi in un cormorano, sveli a tutti il crimine della sorella, “One sister she was dark of heart / The other she was full of grace / Seinn sgarbh le sgrios gu’n ribhinn ròn / de’n cràdh un cùlan gu dilinn ‘dàil“. Ancora influenze orientali in Linton, ispirata alla figura di Hercules Linton che progettò la Cutty Sark, una delle ultime navi veloci, “Sails like clouds pick up the wind / Heavin’, haulin’, bound away / ‘Weel done, Cutty-Sark’ he called out / To speed away, she’ll speed away“. Harbour Masters è un’istantanea delle coste della Scozia, tra gabbiani, porti e il lento andare e venire della marea, nella quale si può apprezzare tutta la sua abilità di cantautrice, “The chimney shrubs and the mossy gutters / The whirling swifts too high to see / Where nature meets the harbour master / On her own territory“. Tra le canzoni che preferisco di questo album c’è sicuramente JudgementSolo voce e nient’altro. Una canzone asciutta e diretta, di poco più di due minuti, “You make your judgements first / But you don’t hear me / All I want is to stand on my own two feet / These notes and letters / Support the words I speak / So read what’s on that page / Don’t write me off“. The Honours prende ispirazione dalla storia di due donne che falsificarono le Insegne di Scozia, ovvero i gioielli reali composti da una corona, uno scettro e una spada, “With honours three they made their flight / Bridgin’ the Fiddle Heid / Smuggled oot in broad daylight / To keep the honours three“. L’album si chiude con Fair Drawin’in. Una canzone che si rifà ad un detto locale ‘The nights are fair drawin in’, usato per descrivere le giornate che si accorciano sul finire dell’estate, “The sun sets on the hills of home / The nights are fair drawin’ in now / The leaves are turning, turning o’er / And like the swifts they’re gone now“.

From The Skein è qualcosa di più di un album folk.  Ci sono aspetti del folk tradizionale ma altri più moderni, ben mescolati con influenze di terre lontane. Jenny Sturgeon è un’abile cantautrice che trova i suoi punti di forza nei testi e nella musica. L’aspetto musicale resta uno degli aspetti più affascinanti, in grado di dare spessore e vita alle immagini evocate dalle parole. Alcuni brani hanno una copertina diversa che ritrae ciascuna un uccello, sottolineando la passione della Sturgeon per questi animali. Sono contento di aver recuperato questo album dalla mia lista e ancora una volta, mettermi a scriverne a riguardo, mi ha fatto conoscere qualcosa in più. Ogni volta che ascolterò una di queste canzoni non potrò fare a meno di pensare alla storia che si cela dietro al testo e alla musica.

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Numeri primi

È solo una questione di numeri. The Lingering del 2015 (Tesoro sepolto) era composto da sette tracce e non si poteva considerare un debutto vero e proprio. Non è il caso di The Nordic Mellow, formato da dieci canzoni e uscito quest’anno. Siv Jakobsen, cantautrice norvegese, si può ammirare in un vero album, atteso da me con un certo interesse, dopo le buone impressioni di The Lingering. La sua copertina mostra la neve delle fredde terre nel nord e il vento che le attraversa. Siv Jakobsen era stata in grado di racchiudere nelle sue canzoni queste immagini, attraverso una poesia triste e dolce, pervasa da un senso di malinconia. Per scoprire se la magia si è ripetuta non resta che abbandonarsi all’ascolto di The Nordic Mellow.

Siv Jakobsen
Siv Jakobsen

To Leave You è un bella canzone che vuole trasmettere un senso di solitudine. La voce della Jakobsen è meravigliosamente melodiosa e morbida. Il testo è poetico ed evoca immagini nitide, supportato dagli archi e da suono della chitarra, “I don’t know for who I’m longing / Is it you or your reflection in my mind? / But I know now, what I am hoping for / Building cages ‘round my chest to leave you out / To leave you, to leave“. La successiva Change segue senza soluzione di continuità. Una canzone di amore e odio, un’attesa silenziosa nella quale si cerca cerca un cambiamento. Una canzone breve ma intensa, “Burning in my mouth / Words that can’t escape my tongue / Clogging up my throat, withering my inside / So I am peeling off my skin / And pulling all my seams apart / I am doing all I can to keep my mouth from letting loose on you“. Si cambia ritmo con Shallow Digger. Un’introduzione epica apre la strada alla voce, questa volta più fredda, della Jakobsen. Un testo criptico e ossessivo, da vita ad una delle canzoni più immediate dell’album, “Shallow digger I am hunting gold, want it all, give me more / Shallow digger I am hunting gold, want it all, give me more“. In Crazy, la cantautrice norvegese, canta aprendo il suo cuore. Un’intesa dichiarazione d’amore, segnata dalla necessità di condividerlo attraverso la musica e la poesia, “I’m up and off the wall for you, crazy / Writing songs for you / I’m up and off the wall for you, crazy / ‘Cause I don’t, I don’t, I don’t, I don’t know you“. Quando scrivevo qui sopra delle atmosfere del nord, mi riferivo a quanto si può ascoltare in Blanket. Siv Jakobsen traccia con la sua voce scie di luce nel aria pervasa dal suono degli archi. Da ascoltare, “‘Cause in the mornings, in the evenings I would wait / But my patience would spill on the floors and on the ceilings / Through my mouth as I called for you / I called, called“. In Like I Use To, la voce della Jakobsen resta vellutata ma attraverso il testo, esprime emozioni forti e contrastanti. Una rara abilità che è frutto di un talento sempre in crescita, “So I stick my brain in the sand / Watch me fold, watch me wither / I stick my brain in the sand / Watch me fold, watch me fold, watch me fold“. Not Alone è una struggente poesia in musica. La volontà di restare soli ma di non sentirsi tali. La bellezza della solitudine non è compresa da molti ma sono anche io tra quelli a cui piace stare solo. Ed evidentemente è così anche per Siv, “I’m not cold, I feel it all / But I am bold, I take control / ‘Cause life is short / And love is rare“. Si accende di vita Berry & Whythe. Una canzone che mette il luce un lato più positivo e meno solitario ma ugualmente poetico, “On my bed we lived alone / Under my sheets you’d hide and I just lie there / Waiting on you to come back / But you made a a big black hole to bathe in through the night / With me at your side“. We Are Not In Love ha un titolo eloquente. Un amore che non è amore, una canzone profondamente malinconica e forte, “There’s an outline on your chest / From my fingernails from every time you’ve left / Every day and night for a year / I waited for you, dear / I could feel it in my bones / But my heart is made from stubbornness and hope“. Space è l’ultima canzone di questo album. Siv Jakobsen canta sulle note di un pianoforte, esplorando nuove vie, dando più spazio alla musica e usando la voce come uno strumento musicale, “In the night by your side on the bed / We are mighty, we are lust we are, we are light / Bring me in on your skin, trace me down“.

The Nordic Mellow è un eccezionale esordio, naturale seguito del suo predecessore. Siv Jakobsen incanta dalla prima all’ultima nota, calcando spesso le orme di Laura Marling. Come quest’ultima, si affida ad un accompagnamento musicale ben collaudato ma di sicuro effetto. La costante presenza degli archi dà maggiore profondità alle canzoni, a scapito della varietà di esse ma questo non è per forza un difetto. L’album infatti appare coeso, uniforme ma ad un ascolto superficiale e distratto potrebbe apparire monotono. Non fermarsi alle apparenze è la prima regola da seguire per non abbandonare un album. Siv Jakobsen ha anche il pregio di non dilungarsi troppo, contenendo la maggior parte delle sue canzoni intorno ai tre minuti, sottolineando così la loro natura sfuggente ed eterea.

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