Mi ritorni in mente, ep. 84

Gli Editors sono una band ormai sulle scene da più di quindici anni e nonostante non abbiano mai realizzato un album capolavoro, sono riusciti sempre a fare ottimi album. La formazione è rimasta più o meno la stessa ma in occasione del loro settimo album (e probabilmente anche per i prossimi) hanno aggregato Benjamin John Power, compositore di musica elettronica conosciuto con il nome di Blanck Mass. In passato c’era già stata una collaborazione con la band e i risultati sono stati davvero buoni.

Il nuovo album uscirà il prossimo 23 settembre e si intitolerà EBM. I primi due singoli Heart Attack e Karma Climb, promettono molto bene ed indicano la volontà di tornare alle sonorità tipiche degli Editors. Vi lascio con lo splendido video di Heart Attack, generato da un’intelligenza artificiale, sotto la guida dell’artista Felix Green. Davvero magnifico, merita più di una visione.

Sotto un’altra luce

Era il 2017 quando una ventenne inglese si affacciava nel mondo della musica, attirando subito su di sé l’attenzione di pubblico e critica. Jade Bird non si presentava come molte sue colleghe coetanee, sia dal punto di vista dell’immagine sia da quello puramente musicale. La sua musica guardava più al passato che al futuro, al rock anni ’90 con echi grunge. Nel 2019 arriva l’album di debutto che tutti si aspettavano. La ragazza fa centro e non delude le aspettative, dando alla luce uno dei dischi più belli di quell’anno. Con il nuovo Differents Kinds Of Light tutti l’aspettavano al varco, compreso io. Devo essere sincero, ero sicuro non avrebbe deluso. E così è stato.

Jade Bird
Jade Bird

L’album prende forma con la breve introduzione strumentale intitolata DKOL, che lascia poi spazio a Open Up The Heavens. La Bird ripropone le sonorità del debutto, voce graffiante, chitarre in primo piano che richiamano un rock di altri tempi, “I’m stood still completely drenched / Do you know what it feels like / To have water in your shoes / Oh, it’s raining on me again / Oh, it’s raining on / A sunny day / Day“. Honeymoon si affida ad un ritmo veloce che fa viaggiare la voce della Bird con la consueta energia. Un amore che ogni giorno viene messo alla prova in un testo giovane ed orecchiabile, che dà prova del talento di questa cantautrice, “Ooh, my lover in the morning light / I wanna feel something that I want twice / Ooh, my lover with your hairdo down / Why not try to change it now / Maybe if I start pleasing you nice / Finally, I would start to feel alright“. La successiva Punchline prova a rallentare, rincorrendo una melodia dall’animo rock. La voce ferma della Bird è magnetica e venata da una tristezza mista a rabbia, “What a difference a day makes / Oh, you started off thinking you were the top of your game / You were telling jokes with the sun rise / But by the end of the day, you were looking like a punchline“. La title track Different Kinds Of Light è una balla lenta ed eterea. Jade Bird dimostra ancora di saper calibrare la sua voce ed allontanarsi per un attimo dal rock, “Who’s gonna call you tonight? / Who’s gonna make you feel storms and thunder? / Who’s gonna bring you to life? / Who’s gonna make you feel beautiful under / Different kinds of light“. Trick Mirror ritorna alle consuete sonorità, cantando ancora di un amore difficile. Testo e musica si intrecciano alla perfezione, “I love you like I always have, but my body’s cold / Whenever the weather gets bad / I start to run and I don’t look back / But you’re my shelter and I’m left alone in the black“. Segue I’m Getting Lost una veloce cavalcata rock che si muove in un’atmosfera notturna. Jade Bird riesce sempre a dosare la sua giovane rabbia e dare slancio alla canzone, “I’ll take off to the station / Nothing but the clothes on my back / There are chances worth taking / I need to know what I’m living for / Get it all back on track“. Le ballate però trovano sempre spazio e Houdini è una di queste. L’amore e le sue difficoltà offrono ancora lo spunto alla Bird per una canzone matura e ben scritta, “Oh, if they need a one to one / A reason or an explanation / If they need lessons on leaving / I’ll send them to you, Houdini / Oh, you’re looking at me like you can’t / Quite believe what you’re feeling / But I’ve always known that you’d go / Without giving a reason“. Chitarre distorte e voce carica di energia danno vita a 1994. Una delle canzoni che preferisco di questo album e che rientra appieno nello stile di quest’artista, “And if you get caught / Tell them nothing at all / Say that I wasn’t short of six feet tall / And if you get caught / Tell them nothing at all / Say that I was born in 1994“. Più solare, con richiami al rock made in UK, è Now Is The Time. Una scrittura ispirata e libera, ci fa apprezzare il lato più spensierato di questa ragazza, “When you get your hair styled / Come on down the stairs / Turn the TV on and off again / All they do is talk shit / If I had a penny for all your potential / I’d be left drowning, my mouth full of metal“. Candidate è ancora Jade Bird all’ennesima potenza. Ondate di risentimento viaggiano veloci sulle chitarre e la voce è irresistibile. Da ascoltare, “If you want somebody to judge, if you want somebody to blame / If you want somebody to hate, I’m a great candidate / If you want to employ, somebody to toy with / Really why would you wanna wait, I’m a great candidate“. Red White And Blue è una mesta ballata, semplice ma carica di sentimento. Questa cantautrice sa come toccare le corde giuste e sorprende il contrasto con le canzoni più rock, “Have you ever thought / That the first chord you hit might be the one? / Have you ever sat / And looked upon your hands / And seen the things they’ve done?“. Rely On è un rock lento dalle sonorità vagamente anni ’80. Una canzone rassicurante e dallo spirito giovane che non manca di emozione, “If you need me to rely on, I’m there for you / Somebody in the wild, when the lions move / If you need me to rely on, I’m there for you / When it comes down to the wire / I’m the only one, only one you should choose“. Jade Bird piazza un altro pezzo dei suoi con Prototype. Il suono della chitarra acustica traccia una melodia folk e la voce corre leggera. Una bella canzone, tra le mie preferite, “Oh, things got better the moment I fell / When I wasn’t looking, it all stood still / I know with these things you can’t always tell / But I love you, and I think I always will“. L’album si chiude con Headstart che ha un bel ritornello orecchiabile, la consueta energia e il testo sincero. Non si può chiedere altro, “I’ve more pride than many / This is kind of rare for me / Everyone knows that it’s true / You’re the only one in the room / But you don’t see me, do you? / Must be blind not to / That’s alright I’ll keep on / Putting myself on the line“.

Con Differents Kinds Of Light, Jade Bird fa un passo nella direzione giusta, senza prendersi troppi rischi. L’unico, il più evidente, è la scelta di inserire quindici tracce. Troppe? Non credo sia un difetto ma certo è una cosa che può non piacere a qualcuno. Lo stile della Bird rimane pressoché immutato, cambia l’approccio che risulta più maturo ma ugualmente giovane e ricco di vitalità. La sua capacità di porsi a metà tra il rock americano e quello british resta uno dei suoi punti di forza, così come trovare delle melodie orecchiabili e accattivanti. Differents Kinds Of Light offre la conferma che tutti si aspettavano, niente di nuovo forse ma non sbagliare il secondo album è già un bel traguardo. Jade Bird mantiene saldo il suo nome tra le promesse più luminose della musica di questi ultimi anni in attesa di degni concorrenti.

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Sogni oscuri

Correva l’anno 2018 quando ascoltai l’album di debutto di Tori Forsyth, intitolato Dawn Of The Dark. Lo scorso maggio è stato pubblicato Provlépseis che segna una svolta, in termini di stile, rispetto al suo predecessore. I singoli che hanno anticipato l’album denotavano una chiara svolta rock che metteva da parte le vibrazioni country. Il titolo dell’album è ispirato dalla parola greca che significa predizioni ed è stato scelto dopo le registrazioni, avvenute prima dell’epidemia, quasi a voler sottolineare alcuni aspetti, legati alla vita della cantautrice australiana, che l’album sembra aver anticipato. Ecco dunque un nuovo capitolo per quest’artista che seguo fin dagli esordi, grazie alla sua voce particolare e lo stile decisamente nelle mie corde.

Tori Forsyth
Tori Forsyth

Be Here dà inizio all’album, le chitarre graffiano e accompagnano la voce carismatica della Forsyth. Marcatemente rock, che trasuda rabbia e libertà, così diverso da quanto ascoltato finora da quest’artista, “Hold my face, my glazed eyes / Covered up, told a lie / Want you out when you’re inside / I’m so tired my glazed eyes / Spit me up, chew me out / My well done, it’s been lost now / Relapse hurts like promises / My well done, matters less“. All For You rallenta ma non si discosta dalle sonorità precedenti. Un sentimento doloroso serpeggia tra le parole della canzone. La voce della Forsyth sa essere ruvida quando serve e qui è tutto perfetto, “Ingest the medicine I had all along / Don’t know if it’s god / But I’ll give anything a shot / Breathe through the obscure dreams / Don’t know what it means / I read into almost everything“. La successiva Cosmetic Cuts si affida ad un revival anni ’90. Atmosfere cupe che ben si addicono alla voce di quest’artista e rappresentano l’animo di questo album, “My insecurities / Aren’t few and far between / I’ll take care of you / But the price is me / And then I’ll paint my heart / And I’ll serve it up / Serve it to myself / With its cosmetic cuts“. Redundant è un rock tirato che richiama le sonorità tipiche del grunge. La rabbia emerge dalle parole ed è ben supportata dalla chitarre. Un cambio di passo che segna questo album, “Cutting everything and turning over tables / Gnashing my teeth on live electric cable / Put me on the stand I’m waiting for my trial / Forgot, who I am, and now I’m in denial“. Courtney Love è una ballata rock, malinconica e graffiata. Sotto la superficie si possono sentire le influenze country dell’esordio ma ad affascinare di più è la forza di questa canzone, “I paid rent, so long / Empty house, broken throne / Where there’s resistance, there’s commitment / To corruption, but there’s no substance / She’s got no substance“. Last Man Stands è un lenta cavalcata rock che si affida molto alla voce graffiata delle Forsyth. Una melodia decadente che esprime un malessere profondo, “Let me fall, break my bones / Show you mine, show me yours / Last man stands, I give you that / For half the day, then straight away I’ll take it back“. Keeper va in una direzione diversa. Un testo più poetico che lascia più spazio alle emozioni che emergono con forza dalle parole. Tori Forsyth qui dimostra tutto il talento di cantautrice, “Wish I was a little less dramatic / I didn’t turn to panic / As the first emotions / How I wish I could control them / Am I too sarcastic? / I use it as a blanket / I promise I’ll try harder / When outside gets warmer“. Si torna a qualcosa di più rock con Blaming Me. La voce di fa calda ma ruvida e incornicia un ritornello ben rustico e orecchiabile. Non nascondo che è una delle canzoni che preferisco di questo album, “Place your bets as it’s called off / Take what’s mine just because / And lie your way to the next extreme / Spent too much on your time blaming me“. Nothing At All si riaffida alla ballata e la voce della Forsyth ci racconta un sentimento di rassegnazione, “Now I’m too tired from being so wired / My nerves have been shot to the floor / I try to mend them but I’m sick of pretending / I actually care anymore / But sometimes it’s better to bleed than feel nothing at all / Sometimes it’s better to bleed than feel nothing at all“. Shapeshifter è un rock veloce e tirato, affondato in un mare di parole. Ben si destreggia la Forsyth nel ritmo veloce di questa canzone, “Tight lip unzip on the first round / Loyalty gone with a dead mouth / Sick lounge undone cheap threads now / Begging me on borrowed time and stealing like a free foul“. Kid è un’altra bella canzone che ancora fa un’operazione di revival più che riuscita. Un rock che esprime ancora un sentimento di rabbia che corre veloce lungo le note di tutto l’album, “We’re all meant to cry, confess when we lie / Spend what we earn, kill ‘em and die / Cheapen the stakes with our own lives / I gamble myself, soon I’ll be fine“. Down Below è il punto di collegamento tra passato e presente della musica di questa artista. Ancora una canzone che esprime un senso di inquietudine senza soluzione, “And honey you’re next, I bet you’d like to know / You’ll be safe and sound, no matter where you go / Everyone’s a bitch, they follow me home / Remind me what you did, I’ll take you with me down below“. Chiude l’album Martyr, carica di parole e immagini che si susseguono in un pop rock orecchiabile, “And I’m a martyr at my grave and I’m laughing at me / I was blinded for the kill I was deafened so they could speak / They took what was mine, they put it in a gun / They point it at my head as if they’d already won / They already won“.

Provlépseis rapprensenta ovviamente una svolta, un cambio netto di sonorità. Esistono due tipi di artisti a mio parere. Chi cambia snaturando sé stesso e chi sa farlo senza rinnegare il proprio passato. Ebbene Tori Forsyth con questo album è riuscita a cambiare, non di poco, ma in qualche modo l’ha fatto rimanendo fedele al suo esordio. Tutto suona molto più rock, perfino grunge, le sonorità country sono un ricordo, eppure c’è qualcosa che sopravvive. Provlépseis è un album lungo, denso e monocromatico, senza momenti leggeri o luminosi. Sembra di stare dentro la testa di questa cantautrice dove i pensieri e le emozioni scorrono veloci e si susseguono senza sosta. Il coraggio e la voglia di cambiare vanno sempre premiati e questa volta non fa eccezione.

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Mi ritorni in mente, ep. 77

In questi dieci anni di blog ho avuto modo di ascoltare numerosi artisti e di seguirli per anni. Non tutti però hanno pubblicato regolarmente nuove canzoni o album. Anzi alcuni di essi sembrano scomparsi nel nulla. Forse, non avendo fortuna hanno cambiato lavoro oppure hanno scelto di fare un’altra vita o hanno messo su famiglia. Ho scorso i nomi degli artisti della mia collezione e li ho raccolti in una playlist.

Ho cominciato da Broken Twin alias Majke Voss Rossom, che dopo il suo debutto intitolato May del 2014 non si è fatta più sentire. Pare però stia per tornare usando il suo vero nome. Speriamo. Poi c’è anche Annie Eve sulla quale non sono riuscito a trovare nessuna traccia. Niente più Facebook e neanche il sito esiste più. Credo che il suo Sunday ’91 del 2014 rimarrà il suo primo e ultimo album. L’artista che però mi ha dato l’idea di realizzare questa playlist è Joseph Lyons, conosciuto come Eaves. Anche lui dopo il suo primo, e probabilmente ultimo What Green Feels Like del 2015, è finito nell’oblio ed è davvero un peccato per il suo talento. Una band interessante, formata da tre ragazzi inglesi, i Millbrook, dopo l’omonimo album del 2015, hanno scelto il silenzio. Non si trova più traccia di loro in internet. Anche gli Snowmine, dopo aver pubblicato due album, l’ultimo nel 2014 sono spariti. In realtà qualche nuovo singolo c’è stato ma non ne è seguito nulla. Anche gli Stillwater Hobos non li rivedremo più insieme. L’ultimo My Love, She’s In America del 2014, è un piccolo gioiellino folk e ora la band è da considerarsi sciolta. Che fine ha fatto Tina Refnes? Dopo un singolo di qualche anno fa che seguiva il suo debutto, No One Knows That You’re Lost del 2015 non c’è stato più nulla. E così anche lei è finita in questa playlist.

Sono solo sette artisti per il momento. Ho raccolto qui, chi davvero ha fatto perdere le tracce di sé da anni. Altri, oltre a questi, sono comunque attivi sui social ma da qualche anno non pubblicano nulla di nuovo. Mentre preparavo questo articolo ho anche scoperto anche che altri artisti, apparentemente scomparsi, stanno tornando, addirittura con un nuovo album. Altri sono fermi da pochi anni che è troppo presto per considerarli spacciati. Altri hanno dichiarato di essersi presi una pausa qualche anno fa e io li aspetto ancora per un po’ prima di arrendermi. Spero che tra queste “meteore” possiate trovare qualcosa di interessante, mentre vi godete un altro lockdown un anno dopo.

Mi ritorni in mente, ep. 76

Dieci anni fa vedeva la luce l’album di debutto della cantautrice inglese (di origini italiane) Anna Calvi. Non a caso infatti, verrà ripubblicato in edizione speciale il 14 maggio. Ricordo che questo album lo ascoltai sul finire del 2011 ma lo misi presto da parte, avendo suscitato in me reazioni in contrasto con la critica entusiasta di allora. Ci riprovai qualche mese dopo e ne rimasi folgorato. Difficile scegliere la migliore tra quelle dieci canzoni ma indubbiamente il trittico composto da Desire, Suzanne And I e Blackout non può lasciare indifferenti.

Anna Calvi in questi dieci anni ha saputo centellinare le sue uscite discografiche, riuscendo nella non facile impresa di evitare colpi a vuoto. Finora la musica della Calvi è stata un viaggio nel suo animo irrequieto, nelle sue passioni e nelle sue incertezze. Quando non si esibisce appare come una ragazzina, con una chitarra troppo grande per lei e una voce incerta e timida. Finché la chitarra non suona e la sua voce non diventa una delle più belle del rock degli ultimi dieci anni, è difficile immaginare quello che può fare Anna Calvi. Se non la conoscete ancora allora è giunto il momento di provare un assaggio di questa piccola grande donna. Questa è Desire. Questa è Anna Calvi.

Lo chiamano destino ma non lo è

Questo 2020 sta giungendo, finalmente, alla sua fine. Non è ancora arrivato il momento, almeno per me, di tirare le somme di questo anno di musica. Ecco perché ne approfitto per recuperare qualche disco, uscito negli scorsi mesi ma che non ha trovato spazio in questo blog. Bad Luck della cantautrice americana Sylvia Rose Novak è uscito a maggio ed è stato nella mia wishlist per un po’ di tempo. Si tratta del suo quarto album ma rappresenta per lei una rinascita dal punto di vista musicale. Un rock americano sincero, guidato dalle chitarre che mi ha subito conquistato.

Sylvia Rose Novak
Sylvia Rose Novak

Si comincia con Dallas. Gli echi delle chitarre si fanno subito sentire ed introducono la Novak e la sua voce graffiata e sicura. Un bel rock dal ritmo lento al quale è impossibile resistere, “Somewhere east of Fresno / The sun began to rise / Casting shadows on our faces / Dancing diamonds in our eyes / The birds called out a warning / The pedal hit the floor / Just us against a hundred men / Or more“. I colori del southern rock prendono il largo con Little Sister. La Novak ci regala una melodia orecchiabile ma il tema è difficile, lo spaccio di droga al confine con il Messico, raccontato da una donna, “Little Sister, I don’t think I’m gonna make it / I’ve taken far too much to try and fake it / The desert’s quiet and cold / And every ounce I hold / Is gonna break it“. C’è una voglia di scappare da tutto e da tutti in South Of Boulder. Un rock veloce dove la voce della Novak rincorre le note in un desiderio di fuga. Una delle canzoni più trascinanti di questo album, “And you can race the trains from here to Arizona / You can run the rivers to the coast / You can try to find some peace out in Sedona / From the places you have come to fear the most / From the places you have come to fear the most“. Dry affronta temi come l’alcol e la salute mentale. Un brano ruvido e sincero, dalle tinte scure e solcato dalle chitarre che graffiano l’aria. Un altra gran bella canzone rock, “I hear the hollow whisper and / The talk all over town / But if there’s cowardice in compromise / I’ll lay my armor down / There’s a reason that I’m here / Could someone tell me why I came? / Trading nickels in for numbers / Trading number in for names“. Spazio alla melodia con Arkansas che richiama il country, non solo nelle sonorità ma anche nella forma. Una storia fuorilegge fatta di violenza e pistole, “You can damn your youth and waste your life / Have a couple babies, be a real good wife / Or you can fire two rounds / Before they draw / Either way you’ll die in Arkansas“. Florwers Of The Fortunate è un rock veloce che celebra la vita e le sue difficoltà. Un altro brano che si lascia ascoltare volentieri ed entra subito in testa, “It’s a dizzy dance, this second chance / But you say you’re just a victim of circumstance / Caught between could’ve been and could be / Paralyzed by should’ve been and should be / One hand on the throttle and one foot in the grave / Just another soul to save“. Dirty è una ballata rock che si ispira alla storia di una senzatetto di Nashville incontrata dalla stessa Novak. Una delle canzoni che più mi piacciono di questo album, per quella rabbia che la pervade, “When you’re destitute and desperate, it’s easy to steal / When you’ve run out of cards, it’s easy to deal / You’re backed by your badge / But it doesn’t seem real / Anymore“. C’è rabbia e voglia di riscatto anche in Shadow. Testo autobiografico, segnato dai sensi di colpa e dalle difficoltà del mondo della musica. Sylvia Rose Novak qui si lascia trasportare dai sentimenti, “I’m just a shadow of a ghost of a person that you thought you knew / Just a fraction of the fiction that you wrote my life into / If in the attic of your mind you find / A photograph or two / They’re of a shadow of a ghost of a person that you thought you knew“. Wating On October è una ballata dal gusto country, malinconica e disperata. La Novak qui ci incanta con la voce, dura ma capace di tratteggiare immagini vivide, “I stay waiting on October / On a chill / That blankets time and makes the air stand still / Where the cotton fields catch fire / As the sun burns down the day / No gold can stay / We fade away / We fade away“. Si chiude con la title track Bad Luck, nel quale la Novak sfodera un rock deciso e made in USA. Una canzone ispirata dal disturbo ossessivo compulsivo di Warren Zevon di cui soffre la stessa Novak, “Wake up, baby, you’re talking in your sleep / Of shoes and ships and ceiling wax / And wolves among the sheep / You’re running from the future / You’re hiding from the past / At least we know these nightmares / Don’t last“.

Bad Luck è un album che ti cattura fin dal primo minuto, composto da dieci canzoni che hanno quel buon sapore del rock americano che si fa sempre più fatica a trovare. In alcune canzoni mi ha ricordato Lilly Hiatt e ne sono contento. Si sente come un’urgenza nello scrivere e mettere in musica queste canzoni. Sylvia Rose Novak ha dalla sua l’esperienza, non solo artistica ma anche di vita, per affrontare argomenti delicati e difficili, senza apparire mai presuntuosa o banale. Insomma se volete dare un calcio a questo 2020 con un po’ di rock, Bad Luck è quello che fa per voi.

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Un nido di vespe

Anche da queste parti il bisogno di vacanze si sta facendo sentire ma ci sarà da aspettare ancora qualche settimana. Nel frattempo ci pensa qualche nuova uscita a tenermi impegnato (a parte il lavoro ovviamente) e tra queste c’è Kitchen Sink della cantautrice inglese Nadine Shah. Non è la prima volta che ascolto un album di quest’artista ma la sua scoperta da parte mia è piuttosto recente. Risale infatti a poco più di un anno fa l’occasione in cui ascoltai Fast Food, il suo secondo album. Ho aspettato ad ascoltare il successivo Holiday Destination, tanto che è arrivato prima alle mie orecchie questo Kitchen Sink. Quarto album dunque che si presentava, per certi aspetti, piuttosto diverso da suoi predecessori. Ma Nadine Shah mi piace per la sua voce e la sua vocazione rock e sapevo che avrei comunque trovato tutto questo ancora.

Nadine Shah
Nadine Shah

Si parte con Club Cougar, dalla quale emerge la voce della Shah sotto i colpi dei synth. Una canzone che appare un po’ ironica, o forse non lo è, sulla differenza di età in una relazione, in questo caso clandestina e fugace, “Call me pretty, make your manoeuvre / One year younger, call me a cougar / All dressed up, think I did it for ya / Make eye contact, think I adore ya“. Il singolo Ladies For Babies (Goats For Love) torna su sonorità più indie rock. La voce della Shah è affascinante e misteriosa, restando uno dei suoi punti di forza, “He wants his lady / To be a lady / To care less, be hairless / All he wants in fairness / Is a baby / A little baby / To care for, be there for / But careful, she could turn out like / Ladies for babies and goats for love“. Buckfast è uno sgangherato rock che trova equilibrio grazie al canto di quest’artista. Il tutto simboleggia un stato di ebrezza nel quale è difficile mettere le cose a fuoco, “Take a swipe at the other in your bed / Makes a change from the others in your head / And the voices said / Pretend to everyone you wish that you were dead“. Dillydally è una riflessione sullo scorrere inesorabile del tempo. La voce della Shah si muove sinuosa su un tappeto di suoni in precario equilibrio. Particolarmente ispirata ed originale questa canzone, che esce un po’ dai binari del rock, “Stop your counting of years / Stop the wreck in your mind / Stop your feeling of fears / You’re divine / See you checking off lists / See you counting the time / All the ones that you missed / You will find“. La successiva Trad prende di mira le tradizioni, vecchie e nuove, ribaltandole. Il risultato è incerto e criptico. Dipende dai punti di vista ma è sicuro che Nadine Shah sa essere schietta quanto misteriosa, “Shave my legs / Freeze my eggs / Will you want me when I am old / Take my hand / Whilst in demand / And I will do as I am told / Take me to the ceremony / Make me holy matrimony“. La title track Kitchen Sink è una canzone dalla musica essenziale che si poggia sulla voce carismatica della sua interprete. Le chitarre fanno la voce grossa, spezzando il flusso delle parole e al loro ritmo, “Don’t you worry what the neighbours think / They’re characters from kitchen sink / Forget about the curtain-twitchers / Gossiping boring bunch of bitches / And I just let them pass me by / And I just let them pass me by“. Kite lascia spazio alle suggestioni della musica, bastano poche parole per dare vita ad una delle canzoni meno ruvide di questo album. Mi ha ricordato Anna Calvi e la cosa, oltre a non essere una novità, è positiva, “Sometimes I lie but there are times I am right / Sometimes I want to end it all with goodnight / All that I want is you to fly like a kite / All that I want is you to fly like a kite“. Ukrainian Wine è ancora una canzone che affronta, a suo modo, il peso degli anni e delle responsabilità. Scorci privati e confusi si intravedono nelle crepe causate dalle debolezze che ognuno di noi ha e fatica ad ammettere, “Ask me to grow up / But keep pouring me wine / I lost my cards and keys / Lost the ground from the sky / I fell and grazed my knees / Watch me walk a straight line“. Segue Wasps Nest è una delle mie canzoni preferite di questo album. Ha un fascino particolare, un po’ orientale. La voce grave della Shah è irresistibile e la rende unica tra tante sue colleghe. Walk è una canzone che procede a balzi, un su e giù come in un loop infinito. Una canzone particolare che esce dai canoni di quest’artista e definisce nuove vie, “Running gauntlets / Swerving perverts / Put my waist size to the wayside / Nasty surprise / More prying eyes / I don’t want your love / I have got enough / I just want to walk“. Si termina con Prayer Mat. Anche in questo caso il ritmo è lento e rilassato, quasi a volerci rendere partecipi di una sensazione di vuoto e ricerca. L’ultima canzone riflette i sentimenti di questo album e il suo fragile equilibrio, “Could live another life of this / I would / Choose you every time / Settle for another day of this / But we’re / Running out of wine“.

Kitchen Sink è il classico album che non si deve spiegare o raccontare. L’unica cosa da fare è ascoltarlo, lasciando che ognuno di noi tragga le proprie conclusioni. Di certo Nadine Shah non si nasconde dietro una maschera e lascia che queste canzoni rivelino qualcosa di più del suo animo. Musicalmente rimane fedele alle sonorità rock che da sempre l’accompagnano, riuscendo però ad amalgamarle con qualcosa di diverso. Kitchen Sink è un album sincero ma non semplice, a volte diretto e altre meno, ma comunque carico di significati che si possono scovare nelle parole oppure lasciare che sia il nostro inconscio a rivelarli.

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Le vene della città

La scorsa estate, prima delle vacanze, ho cercato qualche disco nuovo da ascoltare. Tra gli altri c’era Trinity Lane della cantautrice americana Lilly Hiatt, uscito nel 2017. Il suo rock dalle chiare influenze americane mi ha subito conquistato, rivelandosi una delle scoperte più interessanti dello scorso anno. Il nome di Lilly Hiatt, in realtà, non mi era del tutto sconosciuto ma Trinity Lane si trattava del suo primo album che ascoltavo. Lo scorso marzo è uscito Walking Proof, il suo quarto disco e non potevo perdermelo. Di questi tempi poi, nei quali molti artisti scelgono di posticipare l’uscita dei loro album, è bello poter ascoltare nuova musica come mai prima.

Lilly Hiatt
Lilly Hiatt

Si comincia con Rae, un bel indie rock guidato dal suono delle chitarre. La voce della Hiatt appare nella sua forma più fragile e malinconica ma dal quale traspare un’anima rock difficile da nascondere, “Sometimes I pretend this isn’t who I am / I throw caution to the wind / And don’t give a damn / But I can’t get away / I know you’ve been there my sweet Rae“. La successiva P-Town esplode in un rock trascinante che rispecchia la personalità della Hiatt. Canzoni come questa definiscono il nuovo sound, scelto da quest’artista, che mette da parte le sonorità del precedente lavoro, “Looking at pictures of us in Portland, Oregon / I still can’t figure out why we didn’t have fun / And I said “My family yells” / You said “Mine doesn’t at all” / You know us passionate girls / We’ve all got our claws“. Little Believer si snoda su una musica alternative rock piuttosto inedita per lei. Pochi semplici ingredienti rilanciano l’ispirazione ed il talento della Hiatt, capace di non sbagliare un colpo, “I haven’t been there much for you / At least not how I’ve wanted to / Forgive me, I was somewhere else / But I’d die for you baby, can’t you tell / I wanna be your little believer“. Some King Of Drugs è quel genere di canzone intorno alla quale sembra girare tutto il resto dell’album. Delicata e potente allo stesso tempo, racconta di una città che sta invecchiando. Una delle canzoni più belle di questo album che vede partecipazione di John Hiatt, suo padre nonché noto cantautore, “The veins of this city, so small and pretty / You couldn’t pump her up with some kind of drug / Her arms are open, wild eyed and hoping / Somebody could give her that kind of love“. Candy Lunch è una ballata rock personale molto ben riuscita. Qui la Hiatt ci mostra il lato più riflessivo ed interiore della sua musica, “Why does every boy I meet / Try to tell me how to live or what to eat / I’ve always had a grip on it, / I’ve always done my own weird thing / Sometimes that means I want candy for my lunch“. La title track Walking Proof si rifà alle sonorità del genere americana richiamando le radici folk della sua musica. In questo caso l’energia del rock lascia spazio al caldo suono del violino di Amanda Shires, “Lord, release my hands / I have joined a rock n roll band / And it’s put me on the road / Away from everyone I know“. Quest’ultima dà il suo contributo anche in Drawl. Si nota come la parte centrale di questo album proceda più lentamente, passando attraverso ballate indie rock di eccezionale qualità. Caratteristica questa che sottolinea in parte le scelte della Hiatt per questo disco, “I know this can be a hell of a town / Wanna go off the grid / Wanna hammer it down / People trying to cheer you up / They’re just talking at you, enough’s enough“. Si ritorna ad un luminoso rock con Brightest Star che ha funzionato bene come singolo. Sono sempre le chitarre a tracciare la strada alla voce della Hiatt, “Hey I can be mean, I know you can be mean / But I’ve always seen your true soul / So give ‘em hell kid, / Don’t worry about the rest of it / Let it roll“. Una bella canzone orecchiabile e piena di energia, così come la successiva Never Play Guitar che richiama le atmosfere del precedente album. C’è tutto il bello del rock americano degli anni d’oro e questo dimostra che Lilly Haitt è una cantautrice di razza, con le idee chiare quando si tratta di musica. Move rallenta, scivolando via come il paesaggio durante un viaggio. Si sente la pedal steel che richiama alla mente il confortevole country americano, “Now I’m counting on you / You’re scared as shit / You don’t wanna deal with it / But you’re gonna have to learn / How to deal with it / The only thing you know how to do is move“. L’album si chiude con Scream, un urlo silenzioso che striscia dentro. Molto diversa dal resto dell’album, questa canzone ricopre un ruolo speciale al suo interno. Lenta e avvolgente come poche, “Me and my baby looking at Christmas lights / I was angry and he drove ‘til my head was right / Year after year running from home / I want somewhere that’s just my own to scream / And I ain’t slowing down for nobody“.

Con Walking Proof, Lilly Hiatt rinnova il suo sound senza per questo stravolgere la sua personalità, anzi. Con coraggio ha virato verso un indie rock più deciso che non rinuncia però a strizzare l’occhio alla tradizione americana. Si percepisce tutta la maturità di un’artista che potrebbe trovarsi di fronte al momento più alto della sua carriera. Insomma se volete ascoltare del buon rock cantautorale americano, Walking Proof è quello che fa per voi. Per qualche motivo questo album si legherà, nella mia memoria, in modo particolare a questo periodo di lockdown. Lilly Hiatt è riuscita a risollevarmi l’umore più di una volta con la sua contagiosa energia e sincerità. Spero possa essere così anche per voi.

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Un segno di devozione

Era l’estate del 2016 quando ascoltai per la prima volta l’album Emotions And Math che ha segnato l’esordio di Margaret Glaspy. Questa cantautrice americana mi aveva conquistato dopo pochi ascolti con il suo alternative rock, sul quale prevalevano il suono della chitarra elettrica e la sua voce inconfondibile. Dopo quattro anni, nel mezzo la pubblicazione dell’EP Born Yesterday, è uscito lo scorso marzo il suo secondo album intitolato Devotion. Il cambio di sonorità era già nell’aria, il precedente EP voleva appunto chiudere un capitolo, e la curiosità per il nuovo disco è cresciuta rapidamente. Devo essere sincero, la voce di Margaret Glaspy un po’ mi mancava e sono contento di aver avuto la possibilità di poterla riascoltare ancora con questo nuovo album.

Margaret Glaspy
Margaret Glaspy

Killing What Keep Us Alive dà inizio all’album e ci presenta le nuove sonorità di questo album. Spazio all’elettronica dunque che ben si sposa con la voce graffiata della Glaspy. Un inizio interessante che nulla toglie al suo talento, “I’ve been wandering through the dark / And I wanna light a spark with you / And start a fire in you heart / And watch the stars fade from black to blue / We’re young with nothing to our names / Feel no shame – time’s wasting away“. Without Him è un richiamo agli esordi, un brillante alt rock sincero e orecchiabile. Quest’artista dimostra ancora la sua abilità di usare le parole per definire il ritmo delle sue canzoni, “Every time he walks away I wonder / What if he was walking away for good / Oh, what would I do without him / I’d be the same girl talking a big game / While knocking on every door until I found him“. La successiva Young Love si riaffida all’elettronica per creare una pulsante canzone d’amore. Un amore giovane, appunto, pieno si speranza e di passione. Una ballata di buoni sentimenti che scalda il cuore, “‘Cause all I wanna do is fall in love with you / Over and over again / All I wanna see are your eyes, smiling back at me / Over and over again / Over and over again“. You’ve Got My Number affonda ancora di più i denti nelle sonorità elettroniche. Un elettro pop dall’effetto retrò tutto da ballare. Una Glaspy nel pieno della sua rivoluzione artistica, “There’s this all universe in your eyes / That’s how I recognize you / And your lips are just the same / Burned into my brain / I won’t say it to your face / But I’ll leave with a trace of my skin / Left out in the open“. Segue Stay With Me che ci riconsegna il sound che ha caratterizzato le sue precedenti produzioni. Spazio ancora all’amore e hai sentimenti ma con tratto ruvido e dolce allo stesso tempo, che rendono questa artista, per certi versi, unica, “Won’t you stay with me? / I’ll be on my best behavior / When it all shakes down / Who’s the clown, and who’s the savior?“. So Wrong It’s Right vira prepotentemente verso un rock trascinante e scuro. Una passione trascinante ed improvvisa che travolge tutto senza lasciare il tempo di pensare, “Feel my body like you never felt before / It’s all new being with you / You don’t know my name / We’ve never spoken / Yet here we are kissing in the open“. Heartbreak è una delle canzoni più affascinanti di questo album. Margaret Glaspy tira fuori un rock elegante e luminoso, segnato dalle ferite dell’amore, che ci mostra un’altra sfumatura delle sua musica, “It seems you’re writing a book / On how to make the heart ache / And I’ve tried not to look / For my own heart’s sake / I thought I was happy / I did a double take / And saw myself suffering in vain“. You Amaze Me è una canzone che si affida quasi esclusivamente alla voce sincera della Glaspy, svelandoci una delle canzoni più intime e confidenziali di questo album, “And once you bit the dust / Shooting for the moon / Swam back down to Earth / And it hurt more than you knew / But without a doubt or second guess / In the sea of no, you kept saying yes“. La title track Devotion si riaffida alle pulsazioni elettroniche che ne scandiscono il ritmo. Un pop moderno ma non primo di emozioni, lento e sinuoso, che vola via leggero, “Baby I’m on your side / When I give you a piece of my mind / It’s a sign of my devotion / When I show you my emotions / Baby I’m on your team / We don’t need to fight and scream / It’s a sign of my devotion / When I show you my emotions“. Vicious è una bella canzone rock accattivante. Qui la Glaspy abbandona per un attimo il sound di questo nuovo album e riabbraccia la chitarra per lasciarsi trasportare dalle emozioni, “Are you undone? Are you upset? / Or were you born unhappy with all you gain / Do your bitter tears ever leave? / You act the way you want to / Or are my hopes and dreams and jokes simply wasted on you?“. All’opposto What’s The Point brucia nella distorsione elettronica di sottofondo. La voce della Glaspy si espande su questo tappeto sconnesso e confuso. Una prova di coraggio che sperimenta nuove strade, “What’s the point in doing your best when you know you’re worse / Everyone’s got a home run and you’re still on first / And you clap and shout, good on him / And you go home crying, trying to understand what the point is“. Si chiude con Consequences. Una canzone eterea che spazia nei suoni e nelle suggestioni, fragile e malinconica. Finisce così questo album, spegnendosi lentamente, “Whether you’re right, whether you’re wrong / The world keeps spinning / Whether you’re up, down, the end or the beginning / The world keeps spinning“.

Devotion è un album in bilico tra il passato e il futuro della musica di Margaret Glaspy. Da una parte le nuove sonorità elettroniche e dall’altra la naturale evoluzione delle scelte musicali del suo esordio. Ne risulta un disco ispirato e vario, veicolo di emozioni profonde, spesso legate all’amore ma non solo. C’è anche l’insicurezza e le riflessioni che si fanno largo quando gli anni si accumulano alle nostre spalle. Margaret Glaspy conferma di essere una cantautrice di talento, maturando sotto molti aspetti e prendendosi la responsabilità delle sue scelte. Devotion mi piace perché al suo interno c’è tutto un mondo musicale del quale un tempo ero più avvezzo ma che sto gradualmente abbandonando perché un po’ inflazionato. Ma Margaret Glaspy è al sicuro nella mia musica perché si è guadagnata, già con il suo Emotions And Math, un posto speciale.

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Come limonata rosa

Alexandra Saviour fu una delle belle scoperte che feci sul finire del 2018. L’album che ascoltai era Belladonna Of Sadness uscito l’anno precedente. Un album per certi versi misterioso che ci faceva conoscere, al suo esordio, un’artista dall’indubbio talento e fascino. Quest’anno ha pubblicato The Archer, che ripercorre gli ultimi tre anni, nei quali ha dovuto cambiare casa discografica non senza conseguenze sulla sua produzione. Essendo una cantautrice sulla rampa di lancio che propone un genere un po’ diverso dai miei soliti, non volevo perdermi il secondo capitolo della sua carriera.

Alexandra Savior
Alexandra Savior

Si inizia con Soft Currents. Una ballata al pianoforte, notturna e poetica. La sfortuna, gli errori e la tristezza fanno parte della vita. La Saviour canta con voce fragile e ci regala uno dei momenti più toccanti dell’album, “Seven years / I’ve had seven years of bad luck / And I’m just fine / Happiness / I find happiness in the wrong places / Every time / My fate is at the hands of my mistakes / And that’s alright“. Saving Grace riprende le sonorità alternative rock del suo esordio. Le chitarre prendono il sopravvento e la voce si fa tagliente. Una canzone dal significato oscuro, nella quale perdersi e trarre ciascuno le proprie impressioni, “Saving grace / Come here to petrify me / She’s not an angel, my dear / She is a beast“. Crying All The Time ripercorre i momenti difficile legati alla fine di una relazione e al cambio di vita. Alexandra Saviour mette nero su bianco tutto il suo dolore, senza nascondere le sue emozioni, in un rock vintage dalle tinte scure, “My death, it haunts him like a ship / Without a sail / I know I’ll be gone soon / But just for him, I will prevail“. Segue Howl che ritorna sullo stesso argomento. La Saviour prende il comando della canzone e la guida su più strati di synth che si sovrappongono. Emergono le difficoltà di questa relazione attraverso le parole e la musica, “Handsome dictator of my crimes / I can’t tell if they’re yours, I can’t tell if they’re mine / Sweet revelation bitter wine / I’m dreaming but mostly I’m feeling behind“. Send Her Back è un brano criptico, prevalentemente musicale nel quale la Saviour incanta con la voce, giocando a fare la misteriosa, “Life must go on / Spite it all, you’ve been guilty / Last kiss, hold your horses / Why don’t you send her back where she came from? / Why don’t you send her back where she came from?“. La successiva Can’t Help Myself illumina questo album con un pop rock vintage ma sempre affascinante. Una canzone nel quale l’amore è protagonista ma non è esente da quel malessere di fondo che è l’anima dell’album, “Light dims as he walks my way / I’ve been running for a reason I could never retain / Sweet lips like pink lemonade / When he’s feeling generous he’s gonna give me a taste“. The Phantom sembra uscito direttamente dal precedente lavoro della Saviour. Due linee vocali si sovrappongono su un sfondo di chitarre distorte. Il mistero di un amore e di un dolore, “Fell in love as a lone disciple / His altar at the root of my fate / Fell in love on a lonely night / Could predict every word he’d never convey“. In Bad Disease ritroviamo le immagini horror che hanno caratterizzato l’esordio di questa cantautrice che spicca per immaginazione e fantasia. Una canzone che affonda ancora di più un buio senza uscita, “His jacket calls me with obsidian blade / He’s got a knack for spittin’ blood over red lipstick stains / I drank the venom from the cobra ‘round his neck / Made it my life mission to feel that again“. But You è una solitaria ballata rock. Alexandra non smette di fare la misteriosa e ci trascina in un turbine ammaliante di musica e parole, “The wilted edge of a lonesome mattress / I lay my head there until the feeling passes / It’s sinking in just as time relapses / I hope that you can feel it / ‘Cause nobody else can heal it but you“. L’album si chiude con la title track The Archer. Una ballata riflessiva nella quale la Saviour ripercorre quella relazione sfortunata che ha segnato le atmosfere di questo album, “Don’t need to tell you but your arrow’s made of stars / And the shot that you’ve made punched it straight into my heart / It’s a little ignorant but everybody’s saying that forever is the place where you and I were made“.

The Archer è la naturale prosecuzione del precedente Belladonna Of Sadness, nel quale si percepiva un maggiore distacco emotivo e un minore coinvolgimento personale. Nel nuovo album, Alexandra Saviour, non rinuncia alle sonorità che l’hanno caratterizzata ma trova più spazio per sé stessa all’interno di esse. C’è spazio per la sua vita, una relazione finita male che si riversano prepotenti in ogni strofa. Non c’è spazio per momenti leggeri e spensierati, tutto appare ripiegato su sé stesso senza via d’uscita, ma la voce, quella voce così fragile e carica di mistero, può essere la chiave per rivedere la luce. Insomma, The Archer, è un album per sua natura oscuro e triste ma capace di rivelarsi ricco di spunti poetici affascinanti.

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