Mi ritorni in mente, ep. 34

Le prossime settimane saranno ricche di uscite e non vedo l’ora di ascoltare nuova musica. Più ci si avvicina alla primavera e più fioccano gli annunci dei nuovi album che anticipano i tour estivi. Notizia di oggi è l’annuncio dell’EP di esordio della giovane cantautrice inglese Kitty Macfarlane, intitolato Tide & Time. Era da diverso tempo che seguivo questa cantautrice e sono contento che finalmente c’è un EP che possa raccogliere le sue canzoni.

Sono rimasto incantato dalla sua voce dolce e dalla capacità di evocare immagini nitide e malinconiche. Sul suo sito definisce i suoi testi come una combinazione di oneste istantanee dell’umanità di tutti i giorni con le domande più grandi che hanno collegato menti e voci per secoli, guidati dalla sua chitarra pizzicata. Interessante e curioso. Con le definizioni non sono mai andato d’accordo, ho sempre preferito vedere le cose più nella pratica. Perciò consiglio di ascoltare Wrecking Days, risposta al film documentario sulla Cornovaglia (che ho avuto il piacere di visitare), The Wrecking Season di Jane and Nick Darke.

L’estate comincia a cantare

Con questo album chiudo la discografia delle First Aid Kit, band svedese composta dalle sorelle Johanna e Klara Söderberg. L’album The Big Black And The Blue segna il loro esordio del 2010 e che anticipa il successo del seguito The Lion’s Roar del 2012. Solo un paio di anni fa mi sono avvicinato alla musica delle First Aid Kit ma in breve tempo, anche grazie all’ultimo Stay Gold, mi hanno conquistato sempre di più grazie alla loro melodie e alla voce unica di Klara. Con The Big Black And The Blue sono voluto tornare alle origini folk del duo ma che racchiudono un talento pronto a sbocciare negli anni a venire. Con questo album completo la loro discografia ad eccezione dell’EP Drunken Trees del 2008.

First Aid Kit
First Aid Kit

Apre la bella In The Morning, dove le due voci si fondono raccontando una triste storia, tutte caratteristiche che hanno reso questo duo inconfondibile, “In the oceans where you lay / Where you’ve made your grave / They’ll found you on the shore / Rosy no more / My dear“. La successiva Hard Believer è una ballata folk semplice, sostenuta dalla voce potente di Klara, dove la melodia gioca un ruolo fondamentale. Le First Aid Kit dimostrano di essere sicure di sè, consapevoli del loro talento, “Well I see you’ve got your bible your delusion imagery / Well I don’t need your eternity or your meaning to feel free / I just live because I love to and that’s enough you see / So don’t come preach about morality that’s just human sense to me“. Messe da parte tristezza e malinconia, sfoderano un folk vibrante e vivo con Sailor Song. Nelle corde delle sue sorelle ci sono anche queste canzoni e avranno occasione di dimostrarlo altre volte, “It was easier when I knew nothing of what I’d missed / You’re so happy I can see it and that’s the worst part of it / So let her take you out on sea / I will wave to you from the harbor oh little silly me“. Waltz For Richard è un altra ballata malinconica che mai mi stancherò di ascoltare. Le First Aid Kit sono questo e di questo mi sono innamorato, “So when the waves come rolling in / Then I won’t turn the tide / And in the line of fire / You’ll set me aside / So go on Richard let go“. Heavy Storm fa leva sul ritmo delle parole e un semplice giro di chitarra. Trova spazio anche la voce di Johanna che per un attimo smette di accompagnare la sorella, “He used to play an un-tuned guitar / While he sang about me and he sung about the stars / I used to dream about another time / And now it’s all clear that’s the only time I wish would come back“. Forse è in questa canzone, Ghost Town, che vengono fuori le First Aid Kit che saranno. Il brano più ambizioso dell’album che mette in luce, ancora una volta, il talento del duo, capace di emozionare con semplicità e sincerità, “And I remember how you told me all you wanted to do / That dream of Paris in the morning or a New York window view / I can see it now you’re married and your wife is with a child / And you’re all laughing in the garden and I’m lost somewhere in your mind“. Un folk dallo stampo classico per Josefin. C’è un atmosfera di mistero e fascino in questa canzone, semplice ma resa elegante della voce di Klara. Da ascoltare, “In the rain the pouring rain / Don’t loose your hope don’t loose in vain / There’s demons you fear tonight / Those demons you have to fight / Fight“. Altrettanto oscura e sfuggente è A Window Opens. Una lenta cavalcata dal sapore americano che incanta per la sua atmosfera, “You may call me irresponsible or even carefree / But it’s not the way I intented to be / I would like to stay here and not say a word / Maybe I’d see it in clarity, or I’ll see nothing at all“. Winter Is All Over Your è un gioiellino malinconico che esce dal solco del folk in senso stretto. Ancora sonorità più cupe e malinconiche che caratterizzano questa seconda metà dell’album, “When the winter calls to war / When the spring sets in once more / When the summer starts to sing / When the fall comes marching in / You’ll leave this world to me“. Poca luce si intravede con la bella I Met Up With The King dove trova sfogo un sentimento di rabbia e di incomprensione. Un passo avanti non da poco, “I met up with the king / He confessed his body was burning / I met up with the king / His body had begun to rot / And he said don’t think less of me / I’m still the same man I used to be“. Chiude Wills Of The River nelle quale tornano le melodie liete ma un po’ malinconiche delle First Aid Kit. Sempre perfette e incredibilmente evocative, “Oh see them planets shining / To the south to the north / Headed out the west wind / Going to find myself a home“.

Ciò che più sorprende di questo album è, alla luce dei successivi, come le sorelle Söderberg abbiano saputo nel corso degli anni affinare il loro naturale talento. La loro musica si è evoluta perfezionandosi sempre di più, confermandosi come uno dei gruppi più interessanti degli ultimi anni. Credevo di trovare delle First Aid Kit più insicure e meno riconoscibili in questo The Big Black And The Blue e invece non è stato affatto così. Sembra che la loro musica viva un eterno presente, anche grazie alle immortali sonorità del folk americano. L’invito è quello di concedere un ascolto a queste sorelle se non l’avete ancora fatto. La speranza è di risentirle quest’anno con un nuovo album e chissà, riscoprire che nulla è cambiato.

Dopo festival

Esistono due categorie di italiani: quelli che ammettono di guardare Sanremo e i bugiardi. Non nascondo di aver sempre seguito il festival di Sanremo sin da quando ne ho memoria, anche se ammetto di non essere arrivato in fondo a nessuna puntata. Anche quest’anno, insieme al canone da pagare, arriva puntuale  il festival della canzone italiana e colgo l’occasione per buttare giù qualche pensiero sulla musica italiana e del perchè non ne scrivo mai su questo blog.

Sanremo è uno dei pochi programmi in televisione nel quale si può ascoltare musica dal vivo, che ci piaccia o no. Per me gurdare il festival significa provare a sentire se c’è qualcosa di interessante. Non mi interessa lo show, i comici forzatamente inseriti in un contesto che non è il loro, le interminabili interviste scontate a questo e quello, io voglio solo ascoltare musica che sia quella dei concorrenti o degli ospiti. Non voglio essere cattivo nei confronti del festival, come lo sono in molti che criticano sempre ma intanto lo guardano (e poi mentono), non ce l’ho nemmeno con Conti che ha evitato in questi due anni le prediche alla Fazio/Bonolis e la confusione di altri noti predecessori. Quest’anno ha anche avuto (lui o chi per lui) l’idea di inserire nel cast la bravissima Virginia Raffele che ha strappato sane risate. Ma torniamo alla musica. Come sempre faccio fatica a trovare qualcosa che mi piaccia davvero. Qualcosa che mi spinga ad ascoltare l’album di quell’artista. Per fortuna ci sono i mitici Elio e Le Storie Tese, l’unico gruppo italiano lì in mezzo alla mia musica. Forse non hanno più lo smalto dei tempi d’oro (anche se non sono d’accordo) ma come tutte le grandi band sanno andare avanti di mestiere dimostrandolo anche quest’anno con Vincere L’Odio. Geniale l’idea di fare solo ritornelli (linfa vitale delle canzoni sanremesi) e cambiare melodia e ritmo in continuamente come solo loro sanno fare. Gli Elii, ha differenza di tanti artisti italiani, danno un’importanza di primo piano alla musica e non la declassano a mero accompagnamento al canto. Proprio questo è il punto. Non noto differenze musicali tra gli artisiti, soprattutto i più giovani. Sembra che oggi sia di moda alzare la voce e non cantare, metterla in mostra piuttosto che usarla dare un messaggio, emozionare o divertire. Forse è tutta colpa dell’orchestra, spesso e volentieri inserita forzatamente solo perchè c’è. Forse è colpa dei talent show nei quali i giovani devono dimostrare di avere talento, quando basterebbe avere un po’ di sensibilità e mestire di cui sopra. Invece stiamo per essere invasi da un esercito di cloni in balia del momento, sempre indecisi sulla strada da prendere. Ad esempio ad Annalisa Scarrone non manca nulla, bella presenza e bella voce, eppure non mi convince. Così come non mi convicono i testi che troppo spesso si incartano con giri di parole ad effetto ma che a ben guardare non significano nulla. Lasciamo perdere i rapper nostrani che ultimamente nascono come funghi, l’uno uguale all’altro e paradossalmente uno peggio dell’altro. Poi c’è chi si fa vivo solo per il festival e mi viene il dubbio che non faccia nulla tra un’edizione e l’altra, cadendo nel dimenticatoio subito dopo. Non possono mancare le vecchie glorie, alcune palesemente decadute, altre sempre in forma anche se un po’ dimesse. Tra le nuove proposte mi sono invaghito per un attimo della sfortunata Miele ma credo mi sia già passato. La vittoria degli Stadio ha almeno il sapore di una rivincita su quei discografici che spingono i loro giovani sempre in cerca di visibilità. Loro non ne hanno più bisogno e forse si sono meritati la vittoria.

Alla fine però il festival di Sanremo è divertente. Un carrozzone di personaggi di tutti i tipi che seguiamo per nemmeno una settimana e poi dimentichiamo. Ogni anno tutto ricomincia, sperando in qualcosa di meglio ma anche quest’anno rimango a bocca asciutta. Mi piacerebbe un giorno pubblicare una mia recensione di un album italiano su questo blog ma dubito lo farò mai. Prima ho scritto che Elio e Le Storie Tese è l’unico gruppo italiano nella mia musica preferita, l’altro artista è Samuele Bersani. Nient’altro. Continuerò a cercare e Sanremo forse non è l’occasione adatta per trovare qualcosa ma sono pigro per quanto riguarda la musica italiana e non ho interesse a cercare troppo a fondo. Resto in superficie e prendo quello che viene. Poco, molto poco ma ho altro da ascoltare. La musica nel nostro paese sta diventando materiale televisivo, lo spettacolo è anche musica ma la musica non può essere solo spettacolo. Sono stato sincero in questo post riguardo Sanremo e la musica italiana e spero di non avervi annoiato ma non posso lasciarvi senza una canzone. Nel 1999 passarono al festival anche i R.E.M. con la loro Daysleeper. Non me li ricordo, peccato.

Re pallidi, filamenti e lanche

Lo scorso anno ho riscoperto una band che avevo colpevolmente lasciato in un angolo. Questa stessa band è tornata a Gennaio con un nuovo album. Mi riferisco agli americani Shearwater capitanati dal carismatico Jonathan Meiburg e al loro nono album Jet Plane And Oxbow. Anche se di questa band avevo ascoltato sono l’album Rook non potevo farmi scappare questa novità. Il singolo Quiet Americans mi ha catturato subito ed ero sicuro di trovarmi davanti ad un altro grande album di questa band. Jet Plane And Oxbow segna una svolta più elettronica e dal sapore anni ’80, lasciandosi alle spalle le remiscescenze folk del passato ma il fascino e il mistero degli Shearwater rimane intatto.

Jonathan Meiburg
Jonathan Meiburg

Si inizia con Prime nella quale un’ipnotica melodia fa da sfondo alla voce inconfondibile di Meiburg. C’è un’atmosfera leggendaria che non abbandona gli Shearwater e questa canzone non fa eccezione, affogando in un turbine di conufuso di suoni “Well I followed you down in a dream / To the floor of a valley under siege / With a gunmetal moon, / and a river like wire“. Quiet American è la prima delle canzoni più impegnate del gruppo. Magnetica e carica di rabbia è la punta di diamante dell’album. Meiburg è ispirato e carico, tutto funziona a meraviglia, “Or lying alone in the eastern light, / Sleeping in the morning hours / And the only sound / From the lantern-covered hills / The only light / From a day yet to begin / The only signs / Of the guns in silhouette / Are only sound / Are only light / Only, only!“. Pulsazioni elettroniche in A Long Time Away accedono la protesta contro ogni guerra. Meiburg da profondità e tensione ad ogni singolo verso di questa canzone, “And it never goes dark / Under these lights / It never goes cold / Under fire / Bring the drums / Bring the lights / Bring the wires“. Backchannels vede un Meiburg in gran spolvero, misterioso e affascinante. Un ritorno alle sonorità del passato, inserito perfettamente tra le nuove canzoni, “And a droplet falls / From the dropper’s eye / Blooms like a wave / That slowly overruns / all of your days / And slips the caul / From off your eyes / You face alone / A fear / that’s dragging us all / in its wake“. In contrapposizione c’è Filaments dal ritmo sincopato nel quale si muove sinuosa la voce di Meiburg. Ci sono anche vage contaminazioni orientaleggianti e qualche sperimentazione in un dei brani più originali e oscuri di questo album, “In the center of the sun, / in the stain spilling out into the light / In the calling of the gulls, / in the river running out into the night / Some people run from themselves / Some chain the dogs to the gate / Some are living a lie“. Pale Kings è epica come un inno che nasconde una tristezza per una nazione in decadenza. Ma non manca la speranza di un futuro migliore nel testo e nella voce di Meiburg, sempre più carismatica, “You know how sometimes / You’re so tired of the country, / Its poptones and its pale kings / And its fences like knives / But in the same breath / Your heart breaks with the feeling / With love and with grieving / For its irrational life / Right / Now“. Only Child è una solitaria e malinconica ballanta pop rock. Forse non è tra le più originali ma comunque una bella canzone dal vago sapore anni ’90, “The masters of / Your lonely kingdom / Pulled you along / With red-rimmed eyes / Through endless hours / Of drill and harness / Until you fell, surrendering“. La successiva Glass Bones è un ritorno all’indie rock vibrato e pulsante. Meiburg è inseguito dai riff di chitarra e dal ritmo concitato, un inseguimento in terre sconosciute. Da non perdere, “Are they luring you back with old glories? / Drunk on the dregs of some darkened paradise? / Lulled by an alien feeling / Till you’re suddenly blind / Till you’re barely alive / With glass bones“. Wildelife In America è un classico rock americano, malinconico ma carico di speranza. Si percepisce come un’urgenza espressiva, una ricerca di un modo per trasmettere un messaggio di conforto. Una delle canzoni più calde e intime degli Shearwater, “Back before / Back in our school days / You were wild-eyed / Before the damage was done / You tasted that fear / in your mouth on Sundays / But you know / You know it’s not living“. Più pop e meno originale del resto dell’album è Radio Silence. Il risultato è comunque accattivante e orecchiabile nonostante sfiori i sette minuti. Meiburg dimostra di saper trovare sempre il modo di lasciare traccia con la sua voce, con sprazzi alla Micheal Stipe, “Choking on signal, sucking on silence / Sodium lights on the monument’s face / Radio London, Radio Cyprus, / Where the Lincolnshire poacher’s / shaking his cage“. Chiude Stray Light At Clouds Hill, lenta marcia in perfetto stile Shearwater. Oscuro quanto basta con un effetto eco discutibile ma funzionale, un buon modo per salutarsi, “I jump over mountains / I vault over islands / I roar through the houses / I skim on the oceans alone / And see only outlines“.

Gli Shearwater sono tornati con un album convincente e ispirato. Jonathan Meiburg non perde mai l’occasione per mettere in mostra la sua voce e il resto del gruppo lo serve allo scopo. Non ho ascoltato il resto della loro discografia, ad eccezione di Rook, e non posso dire se questo è il loro migliore album oppure no. Posso solo dire che ho ritrovato gli Shearwater di Rook, solo sotto una veste più rock e meno folk. Un ritorno che è stata una sorpresa perchè questa band al nono album dimostra di avere ancora qualcosa da dire, senza lasciare nulla al caso a partire dai testi. Ora non mi resta che ascoltare gli altri sette album che mi rimangono. Sarà un piacere farlo.