Queste quattro mura

Questo album è uscito lo scorso agosto ma per qualche motivo è scappato ai miei radar. Poco male, visto che poi l’ho recuperato lo scorso mese, leggendo ottime recensioni a riguardo. Non conoscevo Ashley Ray e tutt’ora sto cercando qualcosa in più riguardo la sua musica, ma pare che questo Pauline sia un album che potrebbe definirsi un debutto o quasi. Non importa, prima di acquistare questo album mi sono bastati pochi minuti della sua musica per convincermi. Un po’ di country, un po’ di rock, americana e così via. Sono andato sul sicuro, insomma.

Ashley Ray
Ashley Ray

Si comincia con la title track Pauline. Un ritratto famigliare che ha origine da un nome. Un country lineare, sporcato dalla voce graffiata e nasale della Ray. Un bell’inizio, “And I got your name / I got your name / Got your hand me down heart / I got your blood in my veins / I got your disposition / I got your mean / The way I stand in the kitchen / And I never listen / Call me Pauline“. Una dichiarazione d’amore per una città in Lawrence, Kansas. Come per molti di noi, anche se non viviamo in una grande e famosa città, siamo legati lo stesso a quel luogo che chiamiamo casa, “Ain’t nobody singing songs about / Lawrence, Kansas / She ain’t Los Angeles / Don’t roll off the tongue / She don’t sparkle like the lights of New York City She ain’t that kinda pretty / But she’s where I’m from“. Si vira in maniera decisa verso il country rock con Dirty Work. Fare la mamma a tempo pieno è un ingrato lavoro sporco, c’è bisogno di una pausa, di staccare e resistere tra mille difficoltà, “I put on Aretha / Put on the Maybelline / I put all the dirty laundry in the washing machine / And mama needs a whiskey / Mama needs a break / Yeah, there’s only so much drama that mama can take“. I ricordi si affollano in St. Patrick’s Day e la nostalgia si fa sentire. Si sente ancora il forte legame con la famiglia e i momenti passati insieme. Un’altra ballata emozionante e ben scritta, “Mamas chalkin’ up, placing bets / 8-ball corner pocket / She lights a cigarette / And daddy’s talkin’ trash / And he leans on back / And he winks at me / Like the apple of his eye didn’t fall far from the tree“. Ancora un cambio di passo con la trascinante e ruvida Slurry. Voglia di libertà in una dei brani più scanzonati di questo album. Un paio di minuti per sfogarsi, “I get stoned when I’m alone / But you’re finer than the high that I been on / Now get me lit, get me gone / Baby, take me on a trip that you’re on / Oh, I’m gettin’ slurry / Baby boy, ya got me blurry / Honey, I ain’t in a hurry to worry / Go on and get me slurry“. Poi torna la malinconia con Warm Body. Una relazione che si è rivelata superficiale e poco duratura sembra essere alla base di questa canzone. La voce della Ray è fragile e sicura allo stesso tempo, “He was nobody, somebody / A warm body when the winter came / I coulda bought a coat instead / A blanket for the foot of my bed / But I was too lonely, to be lonely / I shoulda known, I shoulda run away / But something always makes me stay / So, baby, won’t ya make me stay“. Tra le canzoni che preferisco c’è sicuramente l’emozionante Just A House. Ashley Ray prova a convincere la madre a lasciare la sua casa dopo la morte del padre. Commovente a partire dall’interpretazione e dalle parole. Un gioiellino all’interno di questo album, “These four walls are runnin’ out o’ days / Can’t be what it was / Even if ya stay / It’s another lonely winter / If ya never leave / Can’t take it up to heaven / Mama, can’t you see / That it’s just a house? / It’s just a house“. Off The Wagon Again è una ballata country che vede la partecipazione di Caroline Spence. Tutta l’atmosfera di questo genere racchiusa in questa canzone, bella nella sua semplicità, “It’s a long way down / But I’m used to fallin’ by now / I can’t help it at all / When you look at me like that / I just take you back / I guess I’m fallin’ off the wagon again“. Waiting è una riflessione sulla vita e i sogni che forse un giorno diverranno realtà. Una canzone sincera che affronta un tema spesso doloroso, “I cut my teeth on these barstools that I’m serving now / I watch all my friends grow up, and they just leave this town / Guess I’m lost again, right where I was found / Waiting, waiting / Thank God, I didn’t know at 22 / How goddamn long a dream takes to come true“. Si chiude con Rock N Roll, che a dispetto del titolo è un altra ballata country. La famiglia torna al centro delle attenzioni di quest’artista, tratteggiando i momenti difficili, “Mama’s smokin’ in the kitchen, playing solitaire / She been burnin’ ‘em packs / With a monkey on her back since daddy ain’t there / She been swinging that axe / And picking up the slack and it ain’t fair / So I could sell my soul to rock ‘n’ roll“.

Basta un ascolto per rendersi conto che Pauline è un album solido, di un’artista che sente il bisogno di scrivere canzoni. Lo fa con sincerità, sfruttando gli schemi del country ma sapendo coglierne le numerose sfumature. Ashley Ray rappresenta per me una sorpresa e spero che questo album rappresenti per lei un nuovo inizio. C’è del talento nella scrittura dei testi e quella sua voce la rende per certi versi unica. Pauline è un ottimo album nella sua interezza, vario nei sentimenti ma coerente con sé stesso, che lascia un segno duraturo ad ogni ascolto.

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Lo stesso vecchio gioco

Tra gli album d’esordio che mi ero appuntato sul calendario, spiccava Misadventure della cantautrice americana Diana DeMuth e prodotto da Simone Felice e David Baron. Lo scorso anno ascoltai per la prima volta la sua Hotel Song e rimasi piacevolmente sorpreso. Il suo folk rock andava incontro ai miei gusti ma soprattutto la sua voce e l’interpretazione furono i due elementi che più di tutti mi fecero pensare che stavo ascoltando un’artista che aveva qualcosa di speciale. Complice probabilmente un talento precoce e tanta gavetta, Diana DeMuth mi è parsa subito quel genere di cantautrice da non lasciarsi scappare. Detto, fatto. Misadventure è qui ed è ben al di sopra delle mie aspettative.

Diana DeMuth
Diana DeMuth

Si comincia con la bella Hotel Song, un folk rock carico di energia e sentimento. La DeMuth ci mette la giusta dose di rabbia, mai più del necessario. Orecchiabile ma per nulla scontata, è tra le canzoni che preferisco di questo album, “Come on now baby bust me out of this hotel / Gather up my belongings / Letʼs run for it / Itʼs crazy living out of this suitcase / Running round in the rat race / And Iʼm done with it“. La successiva Into My Arms è un luminoso pop rock scarno ma efficacie. Diana DeMuth dimostra di avere sangue rock nelle vene e di essere a suo agio. Non mancano le ballate come Rose Of Nantucket, ruvida confessione di un forte desiderio di libertà. Una canzone matura ed esplicita che per un attimo ci fa dimenticare il fatto che stiamo ascoltando un debutto. Davvero impressionante, da ascoltare, “If you get lost / Out in the rain / Cause some fucker changed that sign post / To lead you astray / And when all of your failures / And all of your fears / Keep you running through the nighttime / Nothing coming clear / Just call on me lover“. The Young & The Blind è una cavalcata rock springteeniana. La DeMuth si lascia andare, seguendo le chitarre e regalandoci ancora una volta un’altra splendida canzone. Un pianoforte apre Steady Rolling che svela un’intensa ballata notturna. La DeMuth ci cattura con la sua voce e ci accompagna in una notte di pensieri e malinconia, “I come from the old time, babe / Too late for you to save me / If I remain then I’m to blame / But if you should ever need me / I’ll go where you lead me / It’s all the same / The same old game“. Segue Signs che abbraccia delle sonorità più folk e degli echi di un pop rock anni ’90 che fu. Ancora una volta la vita e l’amore si intrecciano, ispirando canzoni come questa, il resto lo fa il talento di questa cantautrice, “Iʼm afraid of everything at night / The sounds and all the shapes that come to life / By the way, I feel you in my blood again / Looking through the attic for your clothes / It was a fever and a bad dream I suppose“. Anche Photographs si può classificare tra le ballate di questo album dove il tema dell’amore fa capolino tra le tracce lasciate dalla malinconia. Tante canzoni come questa sono state scritte ma questa è una di quelle con qualcosa in più che è difficile da spiegare. All The Liars affronta il tradimento sempre attraverso le suggestioni di un pop rock energico e vivo. Diana DeMuth nasconde dentro di sé un persistente sentimento di libertà e rabbia. In Ivory White rallenta e si affida al suono del pianoforte dando vita ad un’altra splendida ballata. Più poetica e riflessiva rispetto alle precedenti, questa canzone mette in luce un’altra faccia della musica della DeMuth e di questo le siamo riconoscenti, “Iʼm pretty sure we drank too much / And threw the room around / But I like you best when you get undressed / And talk too loud“. Chiude l’album Already Gone. Anche qui spazio ai pensieri che corrono liberi esprimendo un desiderio di fuga e vita che è un po’ il tema portante di tutto il disco.

Misadventure ci fa scoprire un’artista di indubbio talento e capacità. Tra ballate e variazioni rock, Diana DeMuth, si apre a noi attraverso una voce magnetica ed espressiva, carica di energia quando serve ma anche dolce e malinconica se necessario. Non una sola canzone di questo debutto sembra essere messa lì a fare numero, anzi lo stretto indispensabile di dieci brani, tutti al di sotto di tre minuti e mezzo, dimostrano l’urgenza espressiva di questa ragazza. Non c’è posto per lungaggini o virtuosismi, il talento di rivela a partire dai primi minuti, non è necessario dimostrarlo in altro modo. Qui sotto trovate Hotel Song perché vorrei che anche voi, che leggete, vi convinciate ad ascoltare Misadventure, canzone dopo canzone.

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Mi ritorni in mente, ep. 72

Mi capita a volte di uscire dalle strade sicure dei generi musicali che più amo e scoprire qualche artista interessante. Questo è il caso di Lynne Jackaman, cantautrice inglese, al suo debutto come solista, dopo l’esperienza nella band Saint Jude. One Shot, questo è il titolo dell’album, si appoggia alla straordinaria voce della Jackaman e spazia dal soul a funk, dal r&b al jazz, passando per il pop e il rock. Insomma è un album carico di energia ed emozione, partendo proprio da Supernasty, singolo di punta che prestava il nome all’EP che ha preceduto questo album.

Ci sono altre canzoni che meritano più di un ascolto, come Copy Cat o Nothing But My Records On o il trascinante jazz di Soon Or Later. Se preferire il rock c’è Red House oppure I’ll Allow You. Se preferite qualcosa di più malinconico c’è On My Own Stage. Insomma ce ne per tutti i gusti. Non si può rimanere indifferenti di fronte alla voce di Lynne Jackaman, capace di graffiare quando necessario ma anche di accarezzare con un tono più morbido e confidenziale. Davvero un notevole debutto. Spero che Supernasty, qui sotto, sia sufficiente a convincervi ad ascoltare One Shot, perché altrimenti sarebbe un peccato.

Ancora un altro libro, ep. 3

Non c’è solo musica in questo blog e chi mi segue da qualche tempo lo sa. Ho sempre dedicato un po’ di spazio anche alle mie letture. Ultimamente cerco di riassumere in un solo post le mie impressioni sui libri che ho terminato di recente. Non sono un avido lettore, non divoro libri come se non ci fosse un domani ma mi prendo il mio tempo cercando di non spezzettare troppo la lettura. Per la verità accumulo titoli più di quanto riesca a leggerne, soprattutto ora che mi sono dotato di un lettore di ebook.
Ma veniamo al dunque e partiamo dal libro che ho iniziato successivamente alla pubblicazione dell’ultimo episodio di questa rubrica, ovvero Manituana di Wu Ming. Si tratta del terzo libro che leggo del collettivo italiano, celebre per il bestseller Q, e devo dire che non mi ha entusiasmato molto. Racconta, da un punto di vista insolito, le origini dell’indipendenza americana, ovvero quello dei nativi americani e gli alleati inglesi. La prima parte e piuttosto lenta, non è una novità per i Wu Ming, ma la storia non decolla mai davvero. Alcuni personaggi sono un po’ piatti, poco caratterizzati e alcuni di loro realmente esistiti. Molto bella la parte ambientata a Londra, ricca e divertente anche se fine a sé stessa. Ciò che segue questo intermezzo oltreoceano manca però di ritmo. Il finale è tirato per le lunghe e non aggiunge nulla. Un romanzo che fa riflettere su chi siano stati i buoni e chi i cattivi nella storia americana ma non uno dei migliori Wu Ming.
Probabilmente Le sette morti di Evelyn Hardcastle dell’esordiente Stuart Turton è il libro che più mi ha tenuto incollato alle sue pagine da un paio d’anni a questa parte. Un ottimo giallo dai toni classici ma decisamente originale nella forma. Il protagonista rivive per sette volte, incarnandosi ogni volta in un diverso personaggio, la giornata che porta alla morte della giovane Evelyn Hardcastle. L’obiettivo è scoprire il colpevole prima che le sette vite siano terminate. Nonostante sia complesso l’intreccio delle reincarnazioni, Turton riesce a renderlo solido, a prova di errore. L’ho letteralmente divorato, grazie alla sua tensione costante e la scrittura scorrevole. Davvero un debutto notevole. Da leggere senza distrazioni però, perché le azioni dei vari personaggi si intrecciano e si sovrappongono più volte e potrebbe essere difficile seguirle.
Spinto dai consigli di Stephen King, ho letto L’incubo di Hill House di Shirley Jackson. Non è il primo romanzo di questa autrice che leggo e sapevo che cosa aspettarmi. Infatti non ci sono state sorprese. Un buon romanzo, breve e scorrevole, forse invecchiato non proprio benissimo. La Jackson è brava a dare voce ai pensieri e alle ansie della protagonista ma spesso si dilunga troppo sulle conversazioni tra gli ospiti della casa. Il finale riserva qualche colpo di scena ma, a mio parere, la situazione precipita troppo velocemente. Consigliato ma non aspettatevi un horror di azione o indagine.
Ultimo ma non ultimo, L’incendiaria di Stephen King. Sto procedendo in ordine cronologico con le opere del Re e questo era il turno della bambina dai poteri pirocinetici. Non tra i migliori libri di King che ho letto finora ma pur sempre un ottimo libro. Bello il legame tra padre e figlia, reso ancor più bello dalla capacità di questo scrittore di descrivere il mondo dei bambini. In generale ho trovato la storia un po’ debole e prevedibile ma King con il suo talento salva tutto, caratterizzando come sa fare solo lui i pochi personaggi di questo libro. L’idea della Bottega, una agenzia governativa segreta che indaga sul paranormale, mi è sembrata un po’ abbozzata e il Re poteva sfruttarla meglio. Ma chi sono io per criticarlo?