Cattive abitudini

Lo scorso anno incappai nella bionda cantautrice americana Logan Brill (Ape regina) e fui sorpreso dall’energia delle sue canzoni. Ma ciò che più mi sorprende è come, a distanza di un anno, il suo album Shuteye fatichi ad uscire dalla mia personale classifica degli ascolti. Segno che Logan Brill è risuscita nella non facile impresa di fare un album sempre piacevole da ascoltare e riascoltare. Perché fermarsi a Shuteye quando alla mia collezione mancava il suo album d’esordio? Ecco dunque Walking Wires, pubblicato nel 2013 che va completare la discografia di Logan Brill e a soddisfare la mia curiosità. Almeno per il momento.

Logan Brill
Logan Brill

No Such Thing As Ghosts apre l’album all’insegna delle atmosfere country che sono degnamente interpretate della Brill. La musica e i ritornello suonano familiari ma la sua voce dà un’energia particolare alla canzone. Segue l’accattivante country rock di Month Of Bad Habits. Un brano perfetto come singolo, con una Logan Brill a suo agio tra il suono delle chitarre. Un’anticipazione delle sonorità dell’album Shuteye. La canzone che preferisco di questo album è la successiva Scars. Una bella ballata arricchita dall’intensa interpretazione della Brill sempre in grado di trasmettere energia e allo stesso tempo essere delicata ed emozionante, “‘Cause your love is like a loaded gun. Should’ve put it down before you hurt someone. And if I survive this broken heart, soon you’ll be another scar“. Nobody’s Crying è un’altra bella canzone con un ritornello che ha tutto il sapore del country americano dell’originale di Patty Griffin. Sincerità è la parola d’ordine in canzoni come queste e Logan Brill è sincera. Lei sfodera la voce e ti viene voglia di cantare a squarcia gola. Rewind è una bella cover dell’originale di Paolo Nutini. La voce ruvida del cantautore scozzese è sostituita da quella morbida e pulita della Brill. Il risultato è sorprendente, con quel retrogusto americano in più, “I’m not sleeping at night. But I’m going from bar to bar. Why can’t we just rewind? Why can’t we just rewind? Why can’t we just rewind?“. Seven Year Rain è un’altra canzone che ricalca tutti i tratti caratteristici della musica della Brill. Un mix di malinconia e romanticismo che scaldano il cuore, con melodie collaudate ma di sicuro effetto, “Can’t stop the pain, can’t change the truth. Can’t take the shame of being here not loving you. Too tired to swim, too weak to crawl. And if you need someone to blame say it’s my fault. Call it love, ain’t no such thing. And I’m tired of this seven year rain“. Ne’er Do Wells è una cover di una canzone di Audra Mae. Una versione molto simile all’originale, con un piglio più rock. Una cover che dimostra tutta la bravura di questa cantautrice, “Ne’er do wells and woe be gones Show your face for we were wrong Ne’er do wells and woe be gones Feel no shame it won’t be long“. In canzoni come Write It On Your Heart viene fuori tutto il cuore della Brill. Una canzone di spiccata sensibilità e dolcezza. Un piacere per le orecchie che scaccia via i pensieri negativi. Tricks Of The Trade è un altra cover di una bella canzone di Paolo Nutini. Una versione più country ma molto ben fatta e rispettosa dell’originale. Chiude l’album Fall Off The Face Of The Earth che incarna tutta la bellezza delle ballate nelle corde di Logan Brill. Una canzone poetica che arricchisce questo album di un altro piccolo gioiello.

Logan Brill in questo Walking Wires si muove tra i nomi di Patty Griffin, Audra Mae, Paolo Nutini, Chris Stapleton e Andrew Combs, riuscendo nell’impresa di dare una propria impronta personale ad ogni canzone. Al di là dei singoli brani, questo album si ascolta piacevolmente, dall’inizio alla fine,  grazie all’interpretazione sempre sincera e spontanea di Logan Brill. La sua voce è il mezzo perfetto per veicolare un’emozione, una sensazione, spesso un po’ malinconica ma sempre positiva. Insomma se volete ascoltare un album rassicurante e familiare, Walking Wires è quello che fa per voi e il successivo Shuteye come sua naturale conseguenza.

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Ragazza dal Nord

Monica Heldal è una giovane cantautrice norvegese originaria di Bergen. Nonostante le sue origini nordiche, la Heldal si ispira alla tradizione americana e al folk anglosassone, cantando non in norvegese ma in inglese. Fin da subito sono rimasto colpito dalla sua particolare voce e, come è noto ormai, ho un debole per le voci caratteristiche e riconoscibili, siano esse femminili o maschili. Da più parti ho letto giudizi positivi sul suo album d’esordio Boy From The North pubblicato lo scorso anno e non ho potuto esimermi dall’ascoltarlo. Anche questa volta mi sono buttato direttamente sull’album subito dopo aver ascoltato il singolo omonimo Boy From The North. Finora non ho mai avuto particolari delusioni facendo così e non è successo nemmeno questa volta.

Monica Heldal
Monica Heldal

Boy From The North apre l’album nel migliore del modi. Subito si notano i tratti tipici della tradizione americana ma è la voce della Heldal a catturare subito l’attenzione e a dare corpo alla canzone, “And I know you came with the travelling show / you started out too young / You can find me back where we used to meet / Now hear me call / from the hall“. Conman Coming apre ad un blues rock convincente che ci fa intravedere una maturità per nulla scontata. Un brano perfetto per la colonna sonora di un film western, “There’s a conman coming / there’s a conman coming / there’s a conman coming down the old railroad“. La successiva Silly Willy è la canzone più orecchiabile dell’album e anche la più immediata anche grazie alla dolcezza che la voce di Monica Heldal sa esprimere, “Silly Willy made a bad choice / he didn’t think twice / Silly Willy made a bad choice / he made a choice on the rolling dice“. Fightin’ Son conferma ancora la passione della cantautrice per la canzone made in USA. Questo brano in particolare si distingue per i suoi tratti scuri e dalla magia che trasmette l’incomparabile voce della Heldal. Una delle canzoni più belle dell’album, “Fightin’ son / with your sword and shield / Fightin’ son / running through the fields to get back home“. Follow You Anywhere è il pezzo più folk delle dieci. Leggera e malinconica, forse un po’ scontata ma molto piacevole da ascoltare, “I guess there’s no place for us now / but I’ll go with you anywhere if you’ll allow me / this town has started to look down upon us now / cause baby you’re no good“. Tape 03 continua sulla stessa strada, con la counseta dolcezza della voce che accompagna una musica altrettanto tale, “And in bad and stone cold weather / My love I’ll shoot for my escape / No fear I’ll piece you together / With thick and black duck tape“. Più seria e rock I Don’t Mind arricchita da un finale quasi esclusivamente musicale che mette in mostra le doti della ragazza e della sua band, “And I don’t mind, I don’t mind / cause in time when the winds howling high / my valentine begins to cry, begins to cry“. Die For You è una canzone che prende spunto da più parti. Un po’ country, un po’ irish folk e tutto funziona alla perfeziona facendone una delle canzoni più belle di questo album nonchè una delle canzoni più originali, “What are those beautiful memories meant to define / that my life was silver and your life was gold / and my life was silver that’s what I’ve been told“. In Flight non ha nulla da invidiare alla precedente anche ad un piglio più pop rock e dallo stile meno marcato, “When the carnival leaves this small town / And everyone’s waving goodbye / Asking you, tell me of the things that you’ve seen / Oh now tell me the stories from places you’ve been“. Chiude Boy From The North un brano dal titolo The Road Not Taken. Un’altra bella canzone che regge per tutti i suoi sei minuti e che dimostra la straordinaria maturità di questa artista nonostante la sua giovane età, “Did you cry like I cried my love / Did you laugh like I do when it’s on time / Did you feel alone but made the best of it / just like I try to do / Still I got hope of how happiness can be“.

Un album incredibilmente piacevole da ascoltare e sorprendente per i ventitre anni della sua autrice. Ai primi ascolti ho temuto che quelle influenze americane così marcate per un’artista europea risultassero un po’ artefatte e cercate, invece appiono naturali e ispirate. Non mi sorprende che la Heldal abbia scelto la lingua inglese per le sue canzoni e non credo si tratti solo di motivi commerciali ma anche dalla necessità di rendere al meglio in questo genere musicale. Forse sarebbe bello sentirla cantare in norvegese ma non credo ci proverà mai. Interessante anche notare la propensione per gli artisti del nord Europa di farsi interpreti delle sonorità nord americane, mi vengono in mente gli svedesi Holmes o le First Aid Kit su tutti. Spesso succede anche il contrario. Monica Heldal si aggiunge a quegli artisti che portano un po’ di USA nel vecchio continente.

A casa di Keaton

Sono arrivato ad ascoltare Keaton Henson perché ero rimasto ben impressionato dal You. Questa canzone da sola è bastata a convincermi ha dare un ascolto a questo cantautore, poeta e disegnatore inglese. Henson è davvero un artista completo, dallo stile unico e per questo non apprezzabile da tutti. Inoltre non si esibisce praticamente mai dal vivo per la “paura da palcoscenico”. Come è scritto sul suo sito ufficiale, “Keaton Henson passa il suo tempo da solo, scrive canzoni e qualche volta disegna, non gli piace parlare di sè stesso”. Come si fa a non rimanere affascinati di fronte ad un artista così? Io ero curioso di entrare nel suo mondo e avrei voluto farlo partendo da suo album d’esordio Dear… del 2010 ma la sopra citata You era tratta dal suo secondo album Birthdays del 2013 e così ho scelto quest’ultimo. Non è stato facile, devo ammetterlo. Ai primi ascolti mi sentivo perso, non capivo cosa stavo ascoltando. Un piagnucoloso ventenne depresso o un delicato poeta tormentato? Più l’ascoltavo e più mi confondeva poi, quasi improvvisamente ho capito.

Keaton Henson
Keaton Henson

Keaton Henson ci accoglie nella sua casa con Teach Me. Delicata canzone che suona un po’ come una ninnananna ma la sua voce è così insicura e malferma che ne dà un tono triste, “By all means, give me your lessons in my ways, / But damn it, don’t expect me to change. / Mould me to the man that I should be, / But don’t consider that man to be free“. 10am Gare Du Nord è ancora più ispirata della precedente e si respira un’atmosfera calda e avvolgente. Una canzone per un amore disperato, interpretata come pochi saprebbero fare, “Please do not hurt me love, I am a fragile one / And you are the white in my eyes / Please do not break my heart, I think it’s had enough / Pain to last the rest of my life“. A seguire c’è You, che insieme alla precedente è una delle canzoni più belle di questo album. La voce di Henson si fa a tratti più calda e profonda, sorretta da colori più scuri e cupi che contrastano con il tentativo del cantautore di trasmettere speranza, “And if you must die sweetheart / Die knowing your life was my life’s best part / If you must die / Remember your life“. In Lying To You, Keaton Henson ci mette tutto sé stesso, toccando ancora una volta le corde giuste. Un’altra canzone poetica e pulita, sempre dolce e malinconica nella quale la voce trema più di quanto abbia fatto finora, “As we lie in bed I feel lonely, / Though we’re young, I feel eighty years old. / And your arms around me are keeping me warm. / But baby, I’m still feeling cold“. Un tentativo di dichiararsi ad una bella ragazza incontrata durante un viaggio in treno, questo è The Best Today. Keaton non sbaglia nulla e continua per la sua strada, la stessa percorsa nella precedenti canzoni, “As I get off the train, look back to see you through the frame / A man sits and blocks my view, and then I forget you“. Don’t Swin non è da meno ma questa volta la canzone non scivola via come nelle occasioni precedenti o per meglio dire, lo fa ma si chiude con un esplosioni rock che risolleva gli animi, “Oh my life, tell him you will meet him at ten / On my love, just don’t let me see him again / I just don’t think I can lie / Or not tear out both his eyes“. A questo punto potreste pensare che la vena rock del giovane cantautore si sia esaurita tutta lì e invece è turno di Kronos. Se finora la rabbia sembrava cosa d’altri ecco che Henson si sfoga mettendo in mostra una voce cattiva e fredda come il ghiaccio e riempiedo la scena di chitarre infuocate, “You son of a bitch / Stop writing songs like this / You think you’re better than them / But they don’t have to pretend“. Beekeeper placa i toni e si propaga in territori dalle sonorità rock americane. Un’altra piccola variazione sul tema, “Cause I’m just gettin’ started, let me offend / The devil’s got nothing on me my friend / All I want is to be left alone / Tact from me is like blood from a stone“. Sweetheart, What Have You Done To Us rientra tra le cazoni più belle dell’album e segna il ritorno alle sonorità che lo hanno caratterizzato. Epica e accorata è perfetta per la sempre più tremolante voce del ragazzo, “And God, you were the one who told me not to be, so English / Ohh ohh, ooohhh, ohh ohh / Sweetheart, what have you done to our love?“. Chiude tutto, e anche la porta, In The Morninig che, finalmente si potrebbe dire, dà un po’ di speranza e lascia intavedere una luce in fondo al tunnel, “There may be questions in your head / As a new day is dawning / Like what things for us lie ahead / But woman, I will see you in the morning“.

Questo è il classico album che va ascoltato con il cuore piuttosto che con la testa. Perchè soffermandosi troppo sulle dubbie capacità vocali di Keaton Henson e della sua tendenza a fare canzoni che si somigliano, si rischia di non superare la terza traccia. Ecco perchè io stesso ho fatto fatica ai primi ascolti. Inizialmente quel suo modo di cantare e la musica ridotta all’osso, nella maggior parte dei casi, mi aveva lasciato indifferente. Quasi infastidito. Poi ho fatto uno sforzo e piano piano le sue canzoni hanno cominciato ad entrarmi nella testa. Riascoltandole, poi, è stato come ritrovarle, come se le avessi perse. Birthdays non è un album che può piacere a tutti, in particolare è proprio Keaton Henson che può non andare a genio. Non si può negare, però, che il ragazzo non si celi dietro la maschera di un personaggio. Si mette a nudo con la sua musica e a volte può essere difficile comprenderlo del tutto. Rimane solo aperta la domanda che ho lasciato in sospeso. Un piagnucoloso ventenne depresso o un delicato poeta tormentato? Dopo aver ascoltato questo album ho capito che Henson è per lo più un poeta, che sia tormentato ho dei dubbi ma delicato lo è sicuramente.

Mi ritorni in mente, ep. 18

Nonostante questo EP risalga a più di un anno fa solo negli ultimi tempi ho avuto modo di ascoltarlo. Per ora questo The Boatswain’s Refuge l’ho ascoltato una manciata di volte ma molte di più il singolo Daniel. Sì, perchè non è semplice ascoltare una sola volta questa canzone degli inglesi Patch & The Giant, un gruppo folk dalle sonorità particolari. Immaginate di trovarvi su una nave di pirati che attaccano a far festa, probabilmente sul palco troverete proprio i Patch & The Giant. Conquistano subito con la loro semplicità e la loro musica diretta e caratteristica. Sono divertenti ma capacia anche di fare delle belle ballate.

Questi sono davvero degli sconosciuti. Una chicca. Per ora vi consiglio l’ascolto di Daniel. Provateci ad ascoltarlo una sola volta, se ci riuscite.

La vena madre

Ero sicuro che riascoltando le The Staves avrei saputo apprezzare meglio, ora, il loro esordio. Aspettare è stato un bene. Rispetto ad un anno fa, ho più confidenza con la musica folk e The Staves se ne sono state lì un bel po’ ad aspettare il loro turno. Finalmente la loro opportunità di riscatto l’hanno avuta. Ecco che alcune loro canzoni che ascoltavo con piacere continuano ad avere un effetto positivo e altre, che invece mi lasciavano indifferente, sono cresciute, rivelandosi delle sorprese. Alcune opinioni e perplessità nei confronti della loro musica sono cambiate ma altre sono rimaste più o meno le stesse anche se addolcite da una speranza che le tre sorelle Staveley-Taylor (Emily, Jessica e Camilla) ci possano riservare per il futuro altre canzoni più mature e personali dopo questo Dead & Born & Grown.

The Staves
The Staves

L’iniziale Wisely & Slow è l’essenza delle The Staves, tre voci delicate unite in una sola e musica essenziale. Un lento crescendo con un vivo finale “Tender woman mourns a man / Sits in silent sorrow / With a bottle in her hand“. La successiva Gone Tomorrow è più convincente e affascinante che sfrutta un meccanismo folk ben collaudato, “Just give me some / Time to borrow / You’re here today / Gone tomorrow“. Una delle più belle canzoni dell’album è sicuramente The Motherlode. Anche dopo un anno resto della stessa idea. Delicata, eterea e fiabesca, ecco come si può definire questa canzone, “People running away / Running like strangers / Day after day / Leave him alone“. Pay Us No Mind è l’eccezione dell’album. Un brano dal sapore americano e un po’ blues. Forse un ritmo un po’ più alto e un canto meno sussarato avrebbero evitato un effetto sporifero, “Drink until your lips are black, / You’ve given things you’ll never get back, / Oh you silly thing“. Il singolo Facing West funziona, facendo leva ancora una volta sulla delicatezza delle voci e sulle atmosere spensierate di mezza estate. Tutto sommato una canzone gradevole, “Sing me a song, your voice is like silver and / I don’t think that I can do this anymore“. In The Long Run è un altro esempio di come la musica delle The Staves sia influenzata dalla tradizione americana. Una canzone semplice e lineare che scorre via piacevolmente, “But I know / I’ll see you again in the long run / And I know / I’ll meet you again in the long run“. La title track Dead & Born & Grown forse non è all’altezza del ruolo e resta una bella prova ma convince poco, “And I’ll stay the same and stand here on my own / ‘Til everything is dead and born and grown“. Winter Trees invece, nonostante le sonorità affini, è più convincente e ispirata con un altro finale in crescendo, “White winter trees / Covered in snow / I don’t mind / I don’t mind / I think of you now“. Tongue Behind My Teeth non si discosta molto da quanto sentito finora e se quancuno di voi a questo punto inizia ad avere le palpebre pesanti, sappiate che non sarà questa canzone a svegliarvi, nonostate un altro finale convinto, “I know where you’re going / And I see where you’ve been / Patience is a virtue / And mine with you is wearing thin“. Mexico non è da meno ma è di tutt’altra pasta. Questa canzone è da mettere tra le più belle di questo esordio. Senza dubbio, “I’m saving up / To take a trip to Mexico / I heard it’s the place to go / I want to see the colours of another sky“. Anche Snow non è affato male. Rispetto a quanto sentito finora questo brano appare più personale e intenso, “Oh I know that the shame is mine / And the blame is my own to bear“. Piccola sopresa alla fine dell’album con Eagle Song. L’inizio non riserva nessuna sorpresa ma aspettando un paio di un minuti tutto si accende. I colori della musica delle The Staves si fanno più vivi che mai per poi trovare conclusione in una traccia nascosta da sapore ancora una volta americano, “Call me in the morning I’ll be alright / Call me in the morning I’ll be alright / Call me little honey and I’ll be fine / Call me in the morning, I’ll be OK“.

Questo esordio delle The Staves può considerarsi un buon album che alterna alti e bassi, convincendo a metà. Le premesse per il futuro sono positive ma le tre sorelle dovrebbero provare quancosa di più acceso e intenso piuttosto che fermarsi ad usare (troppo) le loro voci sussurrate. Perchè quando ci provano ad essere più vivaci, i risultati sono molto buoni. Anche le canzoni più blande riescono alla perfezione ma non non tutte sono sullo stesso livello. Dead & Born & Grown è un album per chi resiste bene al sonno (e io resisto bene) senza incorrere nella noia. Sì, perchè noia e sonno non vanno a braccetto anche se a volte sembra. Le The Staves non sono affatto noiose ma il loro approccio soft penalizza i loro intenti. Un album per un’estate sonnacchiosa e calda o per un autunno pigro. Scegliete voi.

Cannibali con le posate

Dopo aver ascoltato il loro EP My Crooked Saint mi sono precipitato verso il loro primo album, intitolato Cannibals With Cutlery pubblicato in versione deluxe lo scorso Ottobre. I To Kill A King sono una band di Londra nata nel 2009 e arrivata fino ad oggi con un paio di cambi rispetto alla formazione originale. Dopo un paio di EP e qualche apparizione a fianco dei più noti Bastille, il gruppo a dato alle stampe questo album. Come al solito sono stato attratto dalla voce particolare del leader Ralph Pelleymounter e da quel mix di folk e rock che mi piace. La versione che ho è quella deluxe che contiene delle tracce aggiuntive già pubblicate nei precedenti EP ma in versioni differenti.

To Kill A King
To Kill A King

Non si può chiedere di meglio alla traccia di apertura I Work Nights And You Work Days con tanto di orchestra che mette in mostra tutta la capacità espressiva del gruppo, “I go, I go home / Just to see your face / To see that it’s not changed”. Cold Skin vira verso tonalità indie-rock dal sapore british. A questo punto si può intuire la costante ricerca del ritornello perfetto in ogni canzone, “They know, we know / We’re not kidding anyone except ourselves / Stop this world for 5 minutes / What kind of chances do we give ourselves?”. A seguire la meravigliosa Funeral. Una dolce amara riflessione sulla morte. Senza dubbio una dei migliori brani di questo album e uno dei più difficili da far uscire dalla testa, “I must make more friends / They’ll be hanging at my funeral / Just to make my parents proud / Just to make my parents smile”. Anche la successiva Wolves non scherza. I To Kill A King fanno ancora centro, “Wolves will keep you warm / If you convince yourself you’re one”. Piccolo intermezzo squisitamente folk con Cannibals With Cutlery che verrà ripresa in secondo momento, “A cannibal with cutlery is a cannibal still / Though you choose to forget that”. Ancora un po’ di indie-folk con Beside She Said nella quale il testo prende il sopravvento sulla musica con una sorpresa nel finale, ““And besides,” she said / “We got time left, we’re only half dead / We’re only half dead,” so goodnight / Goodnight”. Gasp/The Reflex punta ancora sul ritornello e la voce di Ralph Pelleymounter confezionando un salisendi ben riuscito. Choices rallenta il ritmo e si adagia quasi esclusivamente sulle parole, salendo poi nel finale dai toni che ormai abbiamo imparato ad associare ai To Kill A King, “I never took away your crutch / Just became it day by day / Blood fillin’ up our boots / Whats the use in talking?”. Marcatamente indie-rock la successiva Rays dal solito ritornello appiccicoso, “Wash away my mistakes, wash away my mistakes / These ray-ay-ays, ray-ay-ays”. Forse la canzone più poetica di questo album è questa Children Who Start Fire, che dimostra ancora l’ottima capacità di songwriting del gruppo , “I heard you burnt yourself again, / Lighting fires with someone else. / Just because you’re cold, / Just because you’re bored, / Just because you can”. Frictional State non propone niente di nuovo di quanto ci ha già proposto il gruppo, se non un’altra bella canzone con un finale festivaliero, “There’s no hole in my head / Accusation: I just ain’t the family type / Falling short and you’ve got better plans / Escape artist and you just undermine”. Un piccolo capolavoro si nasconde sotto il nome di Family, la melodia e l’inimitabile voce di Pelleymounter si uniscono per creare una sorta di canzone manifesto di questo album, “The difference between a rut and a grave is an inch / Caught in between the earth and a rock like a pinch”. Altre tracce si aggiungono alla versione deluxe. Come la poetica Letters To My Lover (The Dylan Fan) e l’insolita, almeno rispetto a quanto proposto finora dalla band, Standing In Front Of The Mirror. Trovano spazio anche alcuni brani già pubblicati in precedenti EP come We Used To Protest / Gamble e Howling.

Nonostante il gruppo sia attivo da 2009, solo dopo 4 anni ha deciso di pubblicare il primo album e in un certo senso si sente. I To Kill A King hanno già una loro identità ben delineata, un leader forte come Ralph Pelleymounter che rende riconoscibile il gruppo. Una musica ricca e ispirata, a cavallo tra il folk-rock e l’indie-rock condizionata inevitabilmente dalla influenze british. I To Kill A King mi danno la sensazione di essere un gruppo convinto dei propri mezzi e con alle spalle una bella gavetta. Sono convinto che faranno strada e lasceranno il segno nel panorama folk-rock negli anni a venire.

Misteriose sparizioni (Cento)

Eccoci qui nel nuovo anno. Sono passati 2014 anni dalla nascita di Cristo ma molti molti meno dalla nascita di questo blog. Era un sabato, l’8 Gennaio 2011, quando ho pubblicato il primo post. Caso vuole che questo post, pubblicato esattamente a 3 anni dal primo, sia anche il numero 100. E me li ricordo tutti. Non parola per parola ma quasi. Anche in questo 2013 ho avuto la possibilità di continuare a scrivere regolarmente e spero di poterlo fare per altri cento post e cento ancora.

Questa volta torno a parlare di una giovane coppia di cantautrici. Non molto tempo fa avevo scritto riguardo il loro Ep The Weight Of The Globe ed ora è venuto il momento dell’album d’esordio, ovvero Lily & Madeleine. Ero molto incuriosito da questo disco, sopratutto dopo le ottime impressioni avute dal loro primo Ep. Lily & Madeleine è il nome d’arte (o quasi) sotto il quale si nascondono le due sorelle di Indianapolis, Lily e Madeleine Jurkiewicz.

Lily & Madeleine
Lily & Madeleine

Le due ragazze esordiscono con Sounds Like Somewhere nella quale le due voci all’unisono accompagnate dal piano ci fanno capire le intenzioni delle due sorelline, “Someday I’ll find the right words / I’ll sing a song that sounds like somewhere“. A seguire il singolo di punta, Devil We Know, che vi ritroverete in breve tempo a canticchiare, “The grass is dying, and the water comes to revive it / Here it comes again / The great whisper across the plains gives to thunder / Here it comes again“. Nothing But Time ci mette un po’ di ritmo e anche questa volte le sorelle Jurkiewicz fanno centro con un canzone spensierata dal retrogusto americano, “We’ve got nothing, nothing but time“. Più eterea e riflessiva ma straordinariamente ispirata è Spirited Away. Le due voci si uniscono fino a diventare un unico strumento creando un canzone davvero bella, “Remember when we sang / We made echoes off the green house walls“. Disappearing Heart è una delle canzoni più poetiche dell’album e anche una delle più belle. Tutto il merito va alla voce di Lily e Madeleine che viene, ancora una volta usata come fosse un vero e proprio strumento musicale, “I’m not you / You’re not me“. La successiva And Tonight ripropone le sonorità già apprezzate in precedenza senza aggiungere niente di nuovo. La scossa arriva con un’altra canzone più spensierata e leggera delle altre, I’ve Got Freedom, dove l’influenza del folk americano si fa sentire e c’è anche quel ritmo che è mancato in precedenza, “Free from settling, free from wasting my time“. Come To Me è il secondo bel singolo nel quale ancora emerge lo Zio Sam più che mai. Lily & Madeleine mettono a segno una delle canzoni più belle e più orecchiabili dell’album, “If the sky was falling over us / If the ground below us turned to dust / Would you come to me?“. Una classica ballata folk non poteva mancare ed eccola con Lost Upon The Sea. Non è da meno la bella Goodbye To Anyone, “Getting lost like a child in the sun / Looking for another place to run”. Le due sorelline non hanno ancora finito con le belle canzoni e ce ne regalano un’altra intitolata Paradise. Per finire in bellezza ci mettono anche You Got Out dal sapore un po’ natalizio e un po’ invernale, “I let you in but you got out“.

Davvero un bellissimo esordio per questa giovane coppia di cantautrici. Un album molto piacevole che potrei ascoltare in loop senza mai stancarmi. Tutto è a tinte pastello e un po’ zuccheroso ma non mancano le tinte scure e malinconiche. Se si vuole trovare un difetto si potrebbe notare che alcuni passaggi di diverse canzoni si somigliano tra loro ma è cosa di poco conto. Il talento Lily & Madeleine si sente e possono solo migliorare. Si erano intraviste cose molto buone già in The Weight Of The Globe e questo album non solo ne è la conferma ma anche un notevole passo avanti. Se questo è solo l’inizio non oso immaginare cosa riservi il futuro.

Tutto d’un fiato

Questo autunno è stato ricco di uscite discografiche, tra le quali spiccava il secondo lavoro della cantautrice inglese Anna Calvi. Nel Febbraio di quest’anno, fa tra le pagine di questo blog, avevo descritto la buona impressione che la Calvi mi aveva dato con le sue canzoni anche se c’è voluto del tempo perchè ciò succedesse. L’album d’esordio è stato uno dei migliori di quell’anno, il 2011 ed è stato accolto bene anche dalla critica. Ecco perchè questo One Breath era molto atteso e non nascondo che anche io ero molto curioso di ascoltarlo. Detto, fatto. Anna Calvi è tornata ed è sempre lei con qualche sorpresa e asso nella manica in più. Se il primo album ci ha sorpreso per la passione e il calore questo One Breath risulta essere più duro e spigoloso ma comunque carico e intenso come non mai.

Anna Calvi
Anna Calvi

Suddenly è la prova che qualcosa è cambiato ma sempre con qualche rimando al passato (Blackout). Questa è una canzone per ingraziarsi i novizi che inevitabilmente si ritroveranno a canticchiare anche chi, come me, ha già apprezzato la Calvi in passato, “We stand on the edge, it tastes like I’m leaving / Suddenly I’ll leave it all behind“. Eliza è il singolo prescelto soprattutto per il suo ritornello e l’assolo di chitarra che segna il suo ritorno in grande stile, “As if like a kiss we’re the same / So hold me up, hold me up / If only I could be you / Eliza“. La vera svolta arriva con Piece By Piece, una canzone che sembra partorita dalla mente di Thome Yorke prima maniera con in più l’inevitabile dolcezza femminile. Parte decisa e ruvida per poi ammoribidisi man mano. Se non via ha convinti, il ritorno a sonorità più famigliari di Cry ci riuscirà. A parte qualche “schitarrata” messa lì ad effetto, la canzone fila via piacevolmente, “Cry, cry, cry“. Bellissima ed eterea la successiva Sing To Me che ci porta in atmosfere distese e oscure perfette per fare da sfondo ad un film, “Sing to me, beautiful one“. Immediata, carica e epica è Tristan, una delle canzoni meglio riuscite dell’album,”God help you, Tristan“. La traccia che da il nome all’intero lavoro è One Breath. Delicata, fumosa e sfuggente con una Calvi che sussurra da chissà dove per condurci infine in un mondo principesco che sembra uscire da un film in bianco e nero. Se già vi vedevate in qualche reame incantato, Anna vi riporta sulla terra con l’energia del rock. In Love Of My Life sentirete una Anna Calvi distorta, sporca, elegantemente punk. Ammiro lo sfogo e il tentativo ma quello che ne esce non è particolarmente originale se non fosse per degli inserti più rilassati e melodici. Carry Me Over la riporta sui binari giusti e ci regala un’altra bella canzone, forse la migliore dell’album. Bleed Into Me si sviluppa lenta sulla voce e la chitarra della Calvi cresendo nel finale. Ancora più chiusa e buia la successiva The Bridge che chiude definitivamente con la ormai nota eleganza.

Anna Calvi è tornata in tutto il suo splendore e maestosità. Se eravate rimasti affascinati dalla sua chitarra questo album vi potrebbe riservare qualche delusione. Questa volta sono più evidenti la voce, accentuata da vari “ah-aah” e simili, e le percussioni che danno più corpo all’etereo mondo della Calvi. In generale le sonorità del primo album sono ancora presenti anche se in parte trasformate e arricchite da alcune trovate fuori dal coro, discutibili o meno che siano. Anna Calvi ha fatto ancora centro cambiando la maschera ma non il contenuto. Un passo in avanti ben bilanciato tra orecchiabilità e ricercatezza, quest’ultima, che richiede di salire di un livello per comprendere fino in fondo. Ci sono già riuscito una volta con Anna e ci sto riuscendo ancora.

Tutto cambia o forse no

Tra le novità del prossimo anno ci sarà sicuramente in nuovo Ep di Rachel Sermanni. La ventiduenne cantautrice scozzese ha già pubblicato parte delle nuove canzoni che saranno contenute in questo Ep intitolato, Everything changes, in un altro Ep uscito quest’autunno. The Boatshed Sessions è stato registrato live e contiene quattro canzoni del tutto nuove. Di solito aspetto l’album completo prima di ascoltare nuovi brani, ma con Rachel Sermanni non ho saputo resistere.

Rachel Sermanni
Rachel Sermanni

L’iniziale Black Hole non è distante dal folk già proposto dalla giovane cantautrice, se non fosse per delle vaghe e inedite influenze blues. Anche se un po’ scontata, Maybe Not è comunque una bella canzone che conserva tutte le caratteristiche dell’inconfondibile voce della Sermanni. Sicuramente la più orecchiabile e immediata dell’Ep. Dear Granvil è una ballata folk sussurrata che si accende con il ritornello. La successiva Two Birds è un altra prova delle capacità della ragazza nello scrivere canzoni.

Questo Ep dimostra che Rachel Sermanni sta crescendo e maturando, cogliendo più sfumature nella sua voce e nella musica. Nel prossimo Ep saranno presenti sia Black Hole che Two Birds insieme alla canzone che da ne dà il titolo Everything Changes. Ad un primo ascolto potrei perfino dire che è una delle migliori canzoni di quest’artista. In attesa di fine Gennaio, mi ascolto con piacere questa straordinaria canzone accopagnata da un altrettanto splendido video.

Benzina sul fuoco

Non posso nascondere che il secondo album di Agnes Obel era per me uno dei più attesi del 2013. Il primo album Philharmonics risale a tre anni fa e a causa di qualche contrattempo legato alla salute dell’artista, Aventine ha visto al luce con circa un anno di ritardo e finalmente ora ho potuto ascoltare qualcosa di nuovo Agnes Obel. Philharmonics non è stato immediato per me ma con il tempo è cresciuto sempre di più, confermando la posizione della Obel nell’olimpo della mia musica preferita. Ancora oggi mi chiedo se c’è qualcuno al quale non piace almeno una canzone di quest’artista. Ho letto bene di lei perfino in un forum di appassionati di musica metal! Il motivo è da ricercare nella semplicità della sua muisica che allo stesso tempo è profonda e toccante. Per Agnes Obel ripetersi ai livelli di Philharmonics non era facile eppure in alcuni frangenti di questo splendido Aventine è riuscita perfino a superarsi.

Agnes Obel
Agnes Obel

Chord Left è il primo brano strumentale dell’album e fin da subito ritroviamo la Obel così come l’avevamo lasciata ed è una bella sensazione. Fuel To Fire era già possibile ascoltarla prima dell’uscita dell’album. La voce, il piano e gli archi si fondono creando una canzone che è l’emblema di tutto Aventine, Do you want me on your mind or do you want me to go on / I might be yours as sure as I can say / Be gone be faraway“. Dorian è aderente allo stile del precedente album, ricalcando Brother Sparrow viene fuori una canzone dalla melodia dolce e oscura, “Dorian, carry on, / Will you come along to the end / Will you ever let us carry on“. Se finora Agnes Obel non ha fatto altro che confermarsi, la title-track Aventine ci mostra qualcosa di nuovo. La musica, la voce e uno splendido uso degli archi ci porta in luoghi più luminosi e colorati. Uno dei migliori brani dell’album, “Will you go ahead to the Aventine / In the holly red in the night“. Ma la canzone più bella e riuscita, mio parere, è la successiva Run Cried The Crawling. Avvolgente, calda e un po’ fumosa. La voce di Agnes Obel si fa profonda e quasi confonde con la musica. Bellissima, “Baby my heart and soul / A giant in the room / I left him long ago, following you“. Tokka è la seconda traccia strumentale di Aventine. Un piccolo gioiellino di semplicità. The Curse è la canzone fulcro del album. Fiabesca, oscura, Agnes ci culla a mezz’aria verso qualcosa di magico, “The curse ruled from the underground down by the shore / And their hope grew with a hunger to live unlike before“. Un ritorno a qualcosa di più pop e orecchiabile con Pass Them By, Room for many, room for few / Here in the dark I made for you“. Words Are Dead è senza dubbio la più oscura delle undici canzoni di questo album ma allo stesso tempo dolce e confortante. La voce di Agnes è nascosta tra le pieghe delle musica come fosse una nebbia. Un’altra bella canzone come solo lei sa farne, “I wanna buy you roses / ‘Cause the words are dead, / Follow in the blindness / On the arrow head“. Terzo e ultimo brano strumentale, Fivefold è un buio sottofondo di archi che idealmente chiude l’album prima della già nota Smoke & Mirrors. Quest’ultima è una classica canzone della Obel nella quale tutto è perfettamente in armonia, voce, archi e piano, “Oh my one, I’m so happy / That you’ve got so far / I know the good, the great / Is working you like a charm“.

Aventine è tutto quello che ci si aspetterebbe da Agnes Obel. Ci si ritrova tutto quello che c’era in Philharmonics e poco di più. Forse questo può essere considerato un difetto ma trattandosi solo del secondo album, Agnes Obel ha tutto il tempo per provare qualcosa di diverso. Ma in fondo non sono nemmeno sicuro di voler ascoltare una Obel diversa. Bisogna ammettere che l’effetto sorpresa dell’album d’esordio è invitabilmente perduto, in favore di una maggiore coesione delle tracce di questo album. Aventine è un album nato e pensato dalla prima ed ultima canzone e non una semplice raccolta di quanto fatto in questi tre anni. In definitiva, se non avete mai ascoltato nulla di Agnes Obel è il momento di farlo. Provare per credere.