Com’è andata?

Siamo arrivati in fondo a questo 2020. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro purtroppo no. Spero voi stiate tutti bene. Io ho passato indenne questi 366 giorni (un giorno in più era proprio quello che ci voleva) ma non si può dire lo stesso per molti di noi. Passeremo alla storia, non c’è dubbio. Non sappiamo ancora come andrà a finire. Forse passerà tutto presto, non certo in maniera indolore ma passerà prima o poi. Oppure l’umanità si estinguerà piano piano, tra pandemie, inquinamento e surriscaldamento globale, e tra qualche decina di anni rimarrà solo qualche sparuto villaggio di sopravvissuti. Come ne L’ombra delle scorpione o Io sono leggenda.
Sembra passato un secolo da quando andavo in ufficio su di treno affollato e tornavo a casa la sera su di un altro ancora più affollato. Quando andavo a vedere le partite di basket nei fine settimana insieme a migliaia di persone. Quando si poteva vedere un film senza notare quanto le persone sono vicine, senza esclamare “che assembramento!” appena c’è un po’ di folla. Quando tutti puntavano il dito contro Fontana perché indossava una mascherina in TV gettando nel panico i cittadini, non sapendo che di lì a poco l’avremmo indossata tutti quella mascherina. Quando era poco più che un’influenza. Quando siamo andati a prendere in Cina quel ragazzo con la febbre usando un aereo militare attrezzato per il biocontenimento, non sapendo quello che stava succedendo qui, proprio sotto il nostro naso. Quando tutti orgogliosi ci vantavamo di aver individuato i due simpatici cinesi in vacanza con il virus, non sapendo che questi erano soltanto la punta di un iceberg. Quando le immagini del lockdown cinese ci facevano impressione. Poveretti, pensavamo, forse stanno esagerando un po’ ma così imparano a mangiare i pipistrelli vivi. Non sapendo che saremmo arrivati anche noi a quello. Al lockdown intendo, non a mangiare i pipistrelli vivi. Non ancora almeno. Quando a colpi di slogan, Milano, Bergamo e la Lombardia tutta si vantavano che non si sarebbero mai fermate. Poi ci siamo dovuti fermare di fronte alla processione di camion dell’esercito. Quando la domanda più importante senza risposta era “dov’è andato Bugo?”. Quando non sapevamo cosa fossero un DPCM, un tampone molecolare, un asintomatico o un’autocertificazione. Quando non sapevamo che ci fossero così tanti esperti di virus ed epidemie, o tipi diversi di mascherine.

Queste righe che seguono le scrissi diverso tempo fa, con l’intenzione di pubblicarle una volta finito tutto ma siccome non si vede una fine, ho pensato sarebbe stato meglio farlo in questa occasione. Sono incompiute. Non ho saputo dare loro una degna conclusione. Rimarranno così, in memoria di quello che è stato. Di quel momento in cui ho smesso definitivamente di scriverle, perché non sapevo più dove stavo andando a parare. Prendetele per quello che sono, un flusso di pensieri e ricordi che, forse, ci accomunano un po’ tutti.

È arrivato all’improvviso. O forse no, dovevamo aspettarcelo. Ma no dai! Chi se lo sarebbe mai aspettato dopotutto. Deve essere successo per colpa di uno che andava in giro come se niente fosse. Problema risolto, abbiamo trovato il colpevole. L’avevano detto che non ci sarebbe stato nessun pericolo. Da queste parti tutto funziona bene, non c’è niente di cui preoccuparsi. Nel dubbio lunedì in ufficio ci vado in macchina e mi porto il lavoro a casa. Ho preso il treno per tutto il mese senza sapere nulla, se doveva succedere sarebbe già successo. Nel dubbio meglio la macchina comunque, anche se non so quanto potrò lavorare da casa. Un paio di settimane, non c’è niente di cui preoccuparsi. Meno male che non ho rinnovato l’abbonamento del treno. Dai che questa settimana lavoro da casa. Mi distraggo un po’ di più ma è più comodo, o no? Non c’è bisogno di svegliarsi presto. Passano i giorni e mi accorgo di passare il mio tempo seduto davanti al pc. Ve bene ma non è molto diverso che essere in ufficio, ti pare? Mi manca la mia passeggiata in stazione mentre ascolto la musica. Posso ascoltarla mentre lavoro, cosa che di solito non faccio. Non mi piace molto però, finisce per essere un sottofondo che a malapena colgo.

I giorni passano e lavorare a casa mi infastidisce sempre di più. Sono a casa ma non posso fare quello che faccio abitualmente. Tutti coloro che sono costretti a casa si dedicano ai loro hobby, ai libri che non hanno mai letto, ai film che non hanno mai visto. Io invece, purtroppo o per fortuna, continuo a lavorare. Non è un lavoro essenziale ma si continua a farlo, il perché non lo so esattamente o forse sì. I soldi. Alla fine muovono tutto. Questa è la prima cosa alla quale dovremmo ripensare una volta passato il peggio. Abbiamo viaggiato per il mondo come fosse il giardino di casa nostra. Lo abbiamo fatto come turisti, per necessità o per lavoro. Credevamo di essere i padroni e invece non lo siamo per niente. Laddove c’era la normalità ho capito esserci il privilegio. Non ti accorgi dell’importanza di qualcosa finché non te la tolgono, dicono. Mi manca uscire di casa? Neanche più di tanto. Non sono mai stato uno molto sociale e socievole. Mi sembra strano soprattutto non poter uscire liberamente per comprare qualcosa che non sia strettamente necessario o di uscire per una passeggiata.

Che poi a volte mi ritrovo a non pensare ad altro. Se penso al lavoro, penso a quando potrò tornare in ufficio, quando finirò questa parvenza di ferie che ferie non sono, quando potrò smettere di indossare guanti e mascherina e non sentirmi più a disagio. Magari è solo un brutto sogno. Magari domani è tutto finito e si potrà riprendere. Magari non finirà mai e questa è la nuova normalità. Leggo gli esperti che un giorno dicono una cosa e quello dopo un’altra. Anche loro non sanno più che pesci pigliare. Leggo le profezie, alcune ottimistiche che non si rivelano mai veritiere, altre pessimistiche che speriamo non si rivelino veritiere. Ma è tutta una montagna di fuffa, mi dico. Forse, chissà, vuoi vedere che sotto sotto ci prendono? Forse se i Maya avevano ragione. Forse aveva ragione quel vecchio libro sulle presunte profezie di Giovanni XXIII. Forse il buon vecchio Malachia ci ha preso anche stavolta. Ezechiele ci è andato giù pesante per essere sicuro di prenderci. Quella Sylvia Browne eppure l’aveva detto. Beh, come non citare Nostradamus che va bene per qualsiasi cosa. Il buon Bill Gates è stato meno criptico ma nessuno gli ha dato retta. Pure Branko aveva detto la sua.

Poi mi ritrovo ad ascoltare i numeri delle sei del pomeriggio. Non tornano mai. Ci vuole davvero un veggente per interpretarli. Che poi non hanno senso, dicono. E quindi, niente più numeri? Come facciamo ha sapere come sta andando? Un qualche significato devono pur averlo. Che poi visti in percentuale non sono poi così spaventosi. Sì ma rispetto a cosa? A niente? Sì, allora sono un po’ più spaventosi. Ma non c’è da preoccuparsi, andrà tutto bene. In che senso? Per tanti le cose non sono andate affatto bene. Nel senso che finirà prima o poi. Ah sì, questo è sicuro. Per alcuni è finirà prima ma tant’è. Sembra secoli fa, quando tutto andava come sempre, vero? Sembra che siamo fermi da anni. Che il bollettino sia una tradizione nazionale, come Sanremo di febbraio. Mentre noi qui affoghiamo nelle domande senza risposta e nei numeri, la Natura continua il suo corso. Anzi si fa beffe di noi e sta meglio senza. L’acqua e l’aria si puliscono, gli animali arrivano in piazza e il silenzio avvolge tutto. La Natura è più forte perché lei è padrona della Terra e l’uomo una delle sue tante creature. Ah ma non illudiamoci. Vedrete che tutto questo non ci cambierà poi molto. Questione di anni e poi tutto tornerà come prima. L’umanità raramente ha imparato dai propri errori. Ma forse questa volta sarà diverso.

Bello questo 2020 vero? Tutti in piazza a festeggiarlo quando è arrivato. Non mi è mai piaciuta la festa di Capodanno. Non ho mai capito cosa ci sia da festeggiare. E poi è un anno bisestile, lo sanno tutti che “anno bisesto, anno funesto”. Non credo a queste cose ma il mio 2016 non è stato felicissimo e questo 2020 non mi ispirava per niente. Sotto quel simpatico 20 doppio che ci metteva in guardia dallo scrivere le date correttamente per esteso, si nascondeva un problema più grosso. Molto più grosso.

Non mi giudicate – 2020

Siamo arrivati in fondo a questo strano anno. Il 2020 è stato davvero particolare per tutti noi ma avrò modo di scriverne più avanti. Ora è arrivato il consueto appuntamento di decidere quelli che, secondo me, sono stati i migliori album che ho ascoltato quest’anno (e un libro scelto tra quelli letti da Gennaio). Nessuna classifica, impossibile per me farne una, ma solo premi individuali. Il mio pc mi dice che sono 56 i dischi usciti quest’anno ed entrati a far parte della mia collezione e quelli scelti qui sotto sono solo 14, va da sé che molti di essi ho dovuto scartarli. Ma non temete, quelli degni di nota li trovate tutti qui 2020. Molti album non sono passati per questo blog anche se mi sono piaciuti. Ma il tempo è inclemente e faccio quello che posso. Anche questo argomento troverà spazio nei prossimi giorni su questo blog. Se in queste festività, ognuno a casa propria, avanzate un po’ di tempo per ascoltare della buona musica, ecco cosa ho scelto per voi quest’anno.

  • Most Valuable Player: Courtney Marie Andrews
    Questa cantautrice non delude mai e il suo Old Flowers ne è la conferma. Un album emozionante come pochi altri quest’anno e non potevo escluderlo da questa lista.
    Come navi nella notte
  • Most Valuable Album: Huam
    Il trio di artisti scozzesi Salt House pubblica un album magnificamente ispirato. Fin dal primo ascolto si percepisce la sensazioni di non essere davanti ad un disco qualunque.
    La speranza è quella cosa piumata
  • Best Pop Album: The Human Demands
    Amy Macdonald è Amy Macdonald. Questo album è probabilmente il migliore dei suoi finora. L’ho ascoltato un’infinità di volte e non ne ho mai abbastanza. Ho detto tutto.
    Una pallottola al cuore
  • Best Folk Album: An Sionnach Dubh
    Scelta non facile quest’anno ma quello di Dàibhidh Stiùbhard è l’album folk che più mi ha affascinato quest’anno. L’irlandese e gaelico scozzese possono risultare incomprensibili ma la musica è un linguaggio universale.
    La volpe nera
  • Best Country Album: That’s How Rumors Get Started
    Anche in questo caso avevo l’imbarazzo della scelta ma Margo Price con il suo terzo album l’ha spuntata sui concorrenti. Cambio di marcia per questa cantautrice che non tradisce sé stessa.
    Una luna piena sopra una strada vuota
  • Best Singer/Songwriter Album: Song For Our Daughter
    C’è qualcuno che può competere con Laura Marling quando si tratta di cantautrici? Difficile dirlo con obbiettività ma per me lei è tra le migliori in assoluto e lo sarà ancora a lungo.
    L’amore è una malattia curata dal tempo
  • Best Instrumental Album: Shine
    Sto allargando i miei interessi agli album strumentali e questo della musicista irlandese Caroline Keane è tra quelli che ho ascoltato di più.
    Musica tradizionale irlandese per concertina che allieta l’animo.
    Mi ritorni in mente, ep. 70
  • Rookie of the Year: Diana DeMuth
    Pochi dubbi a riguardo. Misadventure è un gran debutto, convincente sotto ogni aspetto. I contendenti non erano pochi ma quest’artista si è guadagnata questo premio con largo anticipo.
    Lo stesso vecchio gioco
  • Sixth Player of the Year: Shayna Adler
    Premio dedicato alla sorpresa dell’anno. Wander è un album, per l’appunto, sorprendente e se lo merita tutto. Un folk americano diverso dal solito, un viaggio affascinante.
    Ho visto tante, tante cose
  • Defensive Player of the Year:  Siv Jakobsen
    Chi invece non è una sorpresa ma una certezza è questa cantautrice norvegese che quest’anno a pubblicato A Temporary Soothing. Un album sincero e personale, anche molto fragile.
    Un lenitivo temporaneo
  • Most Improved Player: Hailey Whitters
    La scelta alla fine è ricaduta su di lei e il suo The Dream che mi ha accompagnato nei momenti più bui della prima ondata. Un buon country, positivo ed orecchiabile. Cos’altro chiedere?
    Bougainvillea, whiskey e un sogno
  • Throwback Album of the Year: In All Weather
    Dedicato all’album non uscito quest’anno. A mani basse lo vince Josienne Clarke. Una cantautrice unica che devo ancora scoprire ma senza fretta. Ogni volta che lo ascolto è come la prima volta.
    Bel tempo si spera
  • Earworm of the Year: Supernasty
    Non è stato un anno di canzoni particolarmente martellanti ma questa di Lynne Jackaman lo è stata senza dubbio. Tutto l’album One Shot merita un ascolto. Non vi deluderà.
    Mi ritorni in mente, ep. 72
  • Best Extended Play: Marmalade
    Il terzo EP della cantautrice Sophie Morgan è andato al di là delle mie aspettative. Si merita una menzione in questa lista di fine anno. Speriamo in un album nel prossimo. Sto già aspettando.
    Mi ritorni in mente, ep. 68
  • Most Valuable Book: Le sette morti di Evelyn Hardcastle
    Ho letto più libri del solito quest’anno ma nessuno come questo. Un giallo tanto appassionante quanto ingarbugliato. Stuart Turton ha fatto un ottimo lavoro. E siamo solo al suo debutto.
    Ancora un altro libro, ep. 3

Le tende della vita

Tra gli ultimi album pubblicati quest’anno non potevo lasciarmi sfuggire il nuovo disco di Keaton Henson. Devo ammettere che mi sono lasciato indietro qualche uscita del malinconico cantautore inglese, in particolare gli album strumentali e sperimentali, in favore dei quelle più canoniche, ovvero gli album di canzoni. Nella mia collezione ci sono dunque quattro dei suoi otto album, compreso il nuovo Monument. Cosa ci si può aspettare ancora dal buon Keaton, sempre alle prese con tristi riflessioni e malinconiche poesie? Da lui non mi aspetto nulla di diverso e ogni volta che ascolto qualcosa di nuovo voglio essere sicuro di trovarmi davanti al solito Keaton ma, spero per lui, solo un po’ più sereno della volta precedente.

Keaton Henson
Keaton Henson

In Ambulance, Henson, chiede aiuto e comprensione. Essere un artista spesso porta a fraintendere i sentimenti di una canzone. Il dolore o un malessere vengono applauditi come un semplice spettacolo di intrattenimento, “I’m empty, but don’t it sound so good? / Oh no, I’d stop if I could / I’m half a songwriter, half a man / Not fully either“. La successiva Self Potrait è una canzone che descrive in modo vivido e forte una sensazione di decadenza, di morte. Parole dure che escono senza filtri dal cuore spezza di Henson. Una canzone dolorosa, “The sun brings up yesterday’s evils / And drags them back into the sky / I have not long enough arms, my love / To reach for the curtains of life“. Ontario trova forma nelle sperimentazioni musicali e la voce di questo cantautore è una costante. Il clima freddo del Canada sembra adattarsi bene all’animo di Henson e ce lo dice con la consueta fragilità e sincerità, “Old sparrow / I’m burying me here / Now I know / The winters for me, dear / Wood sided houses / Here reawaken my bones / And I see now / I’ve had a break in my soul“. Tra le canzoni più commoventi c’è Career Day dedicata al padre scomparso lo scorso anno, l’attore Nicky Henson. La precarietà della vita e le sue contraddizioni emergono in tutte le similitudini che Henson riesce a trovare, per spiegare qualcosa di altrimenti inspiegabile, “I’m an astronaut, baby / I work in the night / I’m a certain kind of crazy / I live in my mind / I’m a deep sea diver / I find ways to breathe / I’m deep undercover / I don’t look like me“. Il lutto per la morte del padre emerge anche in Prayer. La voce dimessa del figlio Keaton canta, con straziante commozione, la percezione di star perdendo qualcosa per sempre, “Hallelujah, I’m saving you up / All for the day you leave / I held you in while you shed your skin / And I read myself to sleep“. While I Can racconta la malattia del padre Nicky dal punto di vista di quest’ultimo. Keaton deve aver fatto uno sforzo enorme a calarsi nei suoi panni. La musica è un inno alla vita e contrasta con le parole dolorose, “While my lungs have breath to sing for you / And I have fingers left to cling to you / While my thoughts are making any sense / While I’m living in the present tense“. Anche in Bad la perdita è ispirazione per il cantautore. La malattia che occupa la mente, le giornate passano nell’attesa di una brutta notizia, “Sick of waiting for bad news / Am I waiting to lose you? / Waiting for bad news / Still“. Segue The Grand Old Reason che con dolcezza e fragilità ci parla ancora di morte, con una sensibilità poetica che fa quasi male. La pena di Henson sembra uscire da ogni singola parola, tanto è il dolore, “But like you, I have tried for so long / Not to cry / That I don’t even know if I can when you die / But I’m sure, as damn hell / Gonna try / Oh I am sure, as damn hell / Gonna try“. Husk è una riflessione sull’invecchiare e non accorgersene nemmeno. Keaton Henson prova a spazzare via un po’ di malinconia con un accompagnamento più ricco ma qualcosa di essa rimane ancora a galla, “The death of a century / Has sunken its teeth in me / How the hands of the clock / Are beating to death / Our memory“. Thesis invece sembra spostare di nuovo l’attenzione sul fatto di essere un artista e giocare pericolosamente con le emozioni. Una voce sommessa e un pianoforte sono più che sufficienti per spiegarsi, “I heard the loneliness leaving / And the metaphors bleeding / Felt the words turn to cliché / As I repeat the things we say / And it’s an elegant thesis / Yeah, the structure is decent / But it lacks catachresis“. L’album si conclude con Bygones che affronta di nuovo i demoni interiori dell’età adulta e vive dei ricordi confortanti del passato. La voce si nasconde, quasi volesse sprofondare per sempre e sparire nel buio, “I don’t want to be the best / I am weary, let me rest / I’m going to wait right here for no one / I’m the reason I can’t sleep / I got all my baby teeth / All buried underneath my grown ones / Oh, I fear the races run / I’m afraid of everyone / I get scared of all this breathing“.

Come si può non voler bene a Keaton Henson? Come si può non percepire il dolore e la forza della vita in Monument? Il contrasto tra la perdita e la fortuna di poter vivere, ammirando le bellezze che ci circondano, sono le colonne di questo album. Ma tutto deve passare dalla morte che rende così meravigliosa la vita, così straordinaria. Keaton Henson riesce a trasmettere il suo lutto dando sfoggio del suo talento di poeta e compositore ma lo fa senza apparire oscuro od opprimente. Monument è un altro grande album di un artista sensibile e apparentemente fragile che ha scavato, e continua a scavare, dentro la sua anima e, inevitabilmente, in quella di ognuno di noi.

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Mi ritorni in mente, ep. 74

In questo periodo dell’anno ritornano, come ogni anno, le canzoni di Natale. Che siano in italiano o in inglese, molte di esse sono tradotte un po’ in tutte le lingue del mondo. Una delle più note, in lingua inglese, è senza dubbio In The Bleak Midwinter, conosciuta anche come A Christmas Carol. Scritta nel 1872 dalla poetessa di origine italiana Christina Rossetti è stat messa in musica per la prima volta nel 1906 da Gustav Theodore Holst e poi nel 1911 da Harold Drake. La canzone racconta naturalmente della nascita di Cristo ed è stata proposta da tanti artisti. Si poteva dunque riproporla in una nuova maniera? Sì.

Ci ha pensato Iona Fyfe, cantante scozzese che ha tradotto il testo in lingua Scots aggiungendo anche una strofa originale. La stessa Fyfe ha tradotto In The Bleak Midwinter, interpretandola quindi con la sua voce cristallina e facendosi accompagnare al pianoforte da Michael Biggins. Le canzoni di Natale hanno un fascino tutto loro e questo è del tutto particolare.

In ‘e bleak midwinter
 A lang lang time ago
 Earth stood hard as iron
 Waater like a stone
 Snaw hid faen
 Snaw on snaw, snaw on snaw
 In ‘e bleak midwinter
 A lang, lang time ago 

Lo chiamano destino ma non lo è

Questo 2020 sta giungendo, finalmente, alla sua fine. Non è ancora arrivato il momento, almeno per me, di tirare le somme di questo anno di musica. Ecco perché ne approfitto per recuperare qualche disco, uscito negli scorsi mesi ma che non ha trovato spazio in questo blog. Bad Luck della cantautrice americana Sylvia Rose Novak è uscito a maggio ed è stato nella mia wishlist per un po’ di tempo. Si tratta del suo quarto album ma rappresenta per lei una rinascita dal punto di vista musicale. Un rock americano sincero, guidato dalle chitarre che mi ha subito conquistato.

Sylvia Rose Novak
Sylvia Rose Novak

Si comincia con Dallas. Gli echi delle chitarre si fanno subito sentire ed introducono la Novak e la sua voce graffiata e sicura. Un bel rock dal ritmo lento al quale è impossibile resistere, “Somewhere east of Fresno / The sun began to rise / Casting shadows on our faces / Dancing diamonds in our eyes / The birds called out a warning / The pedal hit the floor / Just us against a hundred men / Or more“. I colori del southern rock prendono il largo con Little Sister. La Novak ci regala una melodia orecchiabile ma il tema è difficile, lo spaccio di droga al confine con il Messico, raccontato da una donna, “Little Sister, I don’t think I’m gonna make it / I’ve taken far too much to try and fake it / The desert’s quiet and cold / And every ounce I hold / Is gonna break it“. C’è una voglia di scappare da tutto e da tutti in South Of Boulder. Un rock veloce dove la voce della Novak rincorre le note in un desiderio di fuga. Una delle canzoni più trascinanti di questo album, “And you can race the trains from here to Arizona / You can run the rivers to the coast / You can try to find some peace out in Sedona / From the places you have come to fear the most / From the places you have come to fear the most“. Dry affronta temi come l’alcol e la salute mentale. Un brano ruvido e sincero, dalle tinte scure e solcato dalle chitarre che graffiano l’aria. Un altra gran bella canzone rock, “I hear the hollow whisper and / The talk all over town / But if there’s cowardice in compromise / I’ll lay my armor down / There’s a reason that I’m here / Could someone tell me why I came? / Trading nickels in for numbers / Trading number in for names“. Spazio alla melodia con Arkansas che richiama il country, non solo nelle sonorità ma anche nella forma. Una storia fuorilegge fatta di violenza e pistole, “You can damn your youth and waste your life / Have a couple babies, be a real good wife / Or you can fire two rounds / Before they draw / Either way you’ll die in Arkansas“. Florwers Of The Fortunate è un rock veloce che celebra la vita e le sue difficoltà. Un altro brano che si lascia ascoltare volentieri ed entra subito in testa, “It’s a dizzy dance, this second chance / But you say you’re just a victim of circumstance / Caught between could’ve been and could be / Paralyzed by should’ve been and should be / One hand on the throttle and one foot in the grave / Just another soul to save“. Dirty è una ballata rock che si ispira alla storia di una senzatetto di Nashville incontrata dalla stessa Novak. Una delle canzoni che più mi piacciono di questo album, per quella rabbia che la pervade, “When you’re destitute and desperate, it’s easy to steal / When you’ve run out of cards, it’s easy to deal / You’re backed by your badge / But it doesn’t seem real / Anymore“. C’è rabbia e voglia di riscatto anche in Shadow. Testo autobiografico, segnato dai sensi di colpa e dalle difficoltà del mondo della musica. Sylvia Rose Novak qui si lascia trasportare dai sentimenti, “I’m just a shadow of a ghost of a person that you thought you knew / Just a fraction of the fiction that you wrote my life into / If in the attic of your mind you find / A photograph or two / They’re of a shadow of a ghost of a person that you thought you knew“. Wating On October è una ballata dal gusto country, malinconica e disperata. La Novak qui ci incanta con la voce, dura ma capace di tratteggiare immagini vivide, “I stay waiting on October / On a chill / That blankets time and makes the air stand still / Where the cotton fields catch fire / As the sun burns down the day / No gold can stay / We fade away / We fade away“. Si chiude con la title track Bad Luck, nel quale la Novak sfodera un rock deciso e made in USA. Una canzone ispirata dal disturbo ossessivo compulsivo di Warren Zevon di cui soffre la stessa Novak, “Wake up, baby, you’re talking in your sleep / Of shoes and ships and ceiling wax / And wolves among the sheep / You’re running from the future / You’re hiding from the past / At least we know these nightmares / Don’t last“.

Bad Luck è un album che ti cattura fin dal primo minuto, composto da dieci canzoni che hanno quel buon sapore del rock americano che si fa sempre più fatica a trovare. In alcune canzoni mi ha ricordato Lilly Hiatt e ne sono contento. Si sente come un’urgenza nello scrivere e mettere in musica queste canzoni. Sylvia Rose Novak ha dalla sua l’esperienza, non solo artistica ma anche di vita, per affrontare argomenti delicati e difficili, senza apparire mai presuntuosa o banale. Insomma se volete dare un calcio a questo 2020 con un po’ di rock, Bad Luck è quello che fa per voi.

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