Ancora un altro libro, ep. 16

È giunto il momento di dare spazio alle mie letture, l’ultimo post di questo genere risale alla metà dello scorso dicembre. Qui brevemente cercherò di riassumere le mie impressioni raccolte di volta in volta termino un libro.

Cominciamo da Le strade di Laredo di Larry McMurtry. Ambientato circa vent’anni dopo i fatti narrati nel precedente Lonesome Dove, questo romanzo racconta una caccia all’uomo tra Texas e Messico. I protagonisti sono più o meno gli stessi, solo più vecchi e abituati ad una vita diversa, a parte il capitano Woodrow Call che si mette sulle tracce di un pericoloso assassino. La storia però procede lentamente e bisogna attendere tre quarti di libro prima che succeda qualcosa di significativo. Nel frattempo gli assassini psicopatici diventano due e uno è di troppo e, a conti fatti il suo peso nella trama è praticamente nullo. Inoltre ci sono troppe coincidenze, comportamenti inspiegabili da parte di alcuni personaggi, situazioni poco credibili e numerose ripetizioni. Anche i dialoghi non sono all’altezza del suo predecessore ma in generale è un romanzo ben scritto. Le strade di Laredo è una storia profondamente triste e diversa da quella di Lonesome Dove, nella quale non c’è redenzione per nessuno.

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Ancora un altro libro, ep. 15

Prima che finisca questo 2023 è bene che io raccolga qui le mie impressioni su gli ultimi libri che ho letto dallo scorso mese di luglio.

Il sesto volume della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind, intitolato La fratellanza dell’ordine, vede Richard e Kahlan impegnati ancora contro la minaccia dell’Ordine Imperiale. Come al solito sono costretti a dividersi e, come al solito, pensano sia per sempre. Ed ecco che il dramma della separazione inizia a diventare troppo ricorrente in questa saga. Questa volta è colpa di Nicci, una Sorella dell’Oscurità che inizialmente sembra essere un personaggio spietato e pericoloso ma poi Goodkind finisce per stravolgere tutto troppo velocemente, rendendolo anonimo. Richard, al solito, è bravo a fare tutto e questo spesso lo fa diventare prevedibile e in questa occasione anche un po’ insopportabile. La trama è meno complessa dei precedenti, con un finale insipido, piena di riempitivi (il capitolo 19 è inutilmente lungo) e carica di un significato piuttosto banale. Sappiamo bene che Goodkind voleva diffondere il relativismo ma per ora non mi sembra niente di così eccezionale. Sarebbe stato meglio si fosse preoccupato di essere meno infantile e semplicistico in alcuni passaggi e avremmo avuto un più che discreto fantasy d’intrattenimento.

Il secondo libro della trilogia di Stoccolma, intitolato 1794 e scritta da Niklas Natt och Dag, riprende le atmosfere del precedente e in parte anche le tematiche. Un thriller storico arricchito dalle descrizioni della città e dei suoi vicoli. Sembra quasi di vederla e di sentire gli odori nauseanti che le pervadono e di toccare le difficili condizioni di vita di allora. La scrittura è pulita, con capitoli spesso brevi e significativi, mai inutili. La struttura del romanzo è particolare, si passa da un punto di vista all’altro e si fanno dei passi indietro che poi permettono di comprendere meglio le vicende successive. Non mancano violenza e volgarità, le quali possono impressionare qualche lettore. Alla fine restano alcune questioni in sospeso che si concluderanno nel terzo volume.

Underworld di Don Delillo è così denso di contenuti che è difficile descrivere in poche parole che cosa racconta. I temi più ricorrenti che ho potuto cogliere sono: la spazzatura, i complotti, la guerra fredda, il nucleare, il numero tredici, l’educazione, l’arte e la cultura italo-americana. I personaggi che prendono parte a questo romanzo in realtà non sono molti e tutti entrano in qualche modo in contatto tra loro. Nella parte centrale, forse la più brillante ed eterogenea del libro, troviamo brevi spezzoni di vita americana, tutti rigorosamente scritti nello stile postmoderno di Delillo. L’autore fa avanti e indietro nel tempo, terminando, prima dell’epico epilogo, con un lungo flashback che va a chiudere il cerchio. Qualcosa rimane in sospeso, va a perdersi nel flusso di parole, negli ottimi dialoghi e nelle lunghe disamine. Ma così deve essere, è nello stile pulito e discorsivo di Delillo e nella sua visione postmoderna. Un libro che si deve leggere per il piacere di farlo, cogliendone i numerosi spunti di riflessione, e non per trovare colpi di scena (che non mancano) o per seguire una trama lineare.

Robert Harris prende in prestito l’idea di Philip K. Dick per il suo Fatherland, immaginando un mondo nel quale la Germania nazista vince la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è perfino migliore del precedente tentativo, più realistico e plausibile nel suo complesso. L’unico difetto è che non rappresenta davvero un valore aggiunto, anzi in un certo qual modo ne smorza la tensione. Se questo thriller fosse stato ambientato negli ultimi anni del conflitto, o subito dopo, invece che in un ipotetico 1964, a mio parere, sarebbe stato più interessante e la trama, con qualche accorgimento, sarebbe stata in piedi lo stesso. Il detective protagonista, solitario e tormentato, e la bella e brillante americana che lo aiuta nelle indagini, rendono questo romanzo piuttosto prevedibile nelle dinamiche. Il movente degli omicidi è quasi scontato, compensato però da un buon colpo di scena finale. Quello che resta è un buon thriller godibile, dal ritmo serrato e dalla particolare ambientazione ucronica ma non privo dei cliché del genere.

Il sesto volume de Le storie dei re sassoni, dal titolo La morte dei re, conferma le ottime qualità di narratore di Bernard Cornwell e il suo amore per la storia del regno d’Inghilterra. Come di consueto le note storiche ci rivelano le fonti, le quali, proprio perché esigue, permettono all’autore di prendersi numerose libertà nel rispetto della storia. Uhtred è figlio del suo tempo, intelligente ma superstizioso, irrispettoso ma fedele al suo giuramento, con comportamenti che alla morale moderna ci appaiono violenti ma purtroppo non lontani da quelli testimoniati nelle guerre di oggi. Tanto tempo è passato ma poco sembra essere cambiato. Sempre ottimo il giusto peso che Cornwell dà agli eventi paranormali e al ruolo delle donne del tempo. Lascio Uhtred alle sue avventure ancora una volta pienamente soddisfatto e con il desiderio di ritornare al più presto nelle terre della futura Inghilterra.

Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle, è un classico della fantascienza ormai entrato nell’immaginario comune anche grazie alle numerose trasposizioni cinematografiche. Un breve romanzo dallo stile scorrevole e serrato, con un deciso cambio di ritmo nella terza parte. I colpi di scena sono probabilmente ciò che rendono questo libro così famoso ma che però rischiano di oscurare il resto della storia che offre numerosi spunti di riflessione sul rapporto tra umani e animali. Su questo punto forse soffre di una visione un po’ datata, non più in linea con quella moderna, ma del tutto comprensibile se si considera che è stato pubblicato nel 1963.

Cinque colpi delle dita, ep. 10

Dopo una breve pausa riprendo a scrivere su questo blog. E lo faccio riprendendo una rubrica che giace in attesa da un anno. Qui di seguito qualche breve consiglio cinematografico sui film che ho visto negli ultimi dodici mesi.

Richard Jewell – Una storia vera di un responsabile della sicurezza che sventa un attentato, scoprendo una bomba in uno zaino. Qualcosa non torna però e lui stesso viene accusato di aver piazzato l’esplosivo. Eastwood espone i fatti e lascia aperta la questione con maestria. Un ottimo film che ha dell’incredibile. Voto 8
Il ritorno dell’eroe – Commedia degli equivoci belga/francese in costume. Questo genere di film mi piace e il cast è ottimo, anche troppo. Perfetto per farsi due risate senza pensieri. Voto 7
Il silenzio degli innocenti – Classicone che non avevo mai visto. Che dire, non mi ha impressionato come avrebbe dovuto. Ammetto che all’epoca dovesse essere stato qualcosa di eccezionale ma oggi risulta un po’ prevedibile e, francamente, anche un po’ improbabile, soprattutto in alcune scene. Voto 7
Il domani tra noi – Una coppia di sconosciuti rimane vittima di un incidente aereo sulle montagne innevate. Il resto potete immaginarlo come pure il finale. Idris Elba e Kate Winslet sono male assortiti e il film non gira come dovrebbe. Voto 6
Una notte in giallo – Commedia leggera anzi leggerissima con Elizabeth Banks. Credevo peggio, una di quelle cose demenziali made in USA. Invece di lascia guardare e a tratti diverte ma niente di memorabile. Non lo rivedrei. Voto 6
Maria regina di Scozia – Saoirse Ronan e Margot Robbie tengono in piedi un film altrimenti poco accurato e affetto da qualche intrusione del politicamente corretto. In generale non è malvagio, soprattutto per i costumi e le scenografie. Voto 7
Ghostbusters: Legacy – Non è mai facile fare un seguito ai film di culto, entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Ma qui in qualche modo ci sono riusciti, dando anche il giusto collocamento agli attori originali, perfino allo scomparso Harold Ramis. Un film che fa leva sull’effetto nostalgia ma che funziona bene e diverte. Voto 8
L’uomo sul treno – C’è Liam Neeson e quindi è già chiaro cosa succederà. Questa volta è su un treno di pendolari che vedranno la loro routine sconvolta. Insomma c’è Neeson. Serve altro? Voto 6
Jungle Cruise – Prendete Dwayne Johnson ed Emily Blunt e una vagonata di CGI. Piazzateli nella foresta Amazzonica alla ricerca di un fiore miracoloso. Aggiungete un po’ di idee dai Pirati dei Caraibi, qualche colpo di scena e il film è servito. Ci si diverte, tutto funziona a dovere, basta non farsi troppe domande. Voto 7
Don’t Worry Darling – Ero curioso di vedere questo film per il mistero che la storia sembrava riservare. Ma qualcosa non funziona. Tutto inizia ad andare a rotoli troppo presto e lo spettatore, che vuole il colpo di scena, deve aspettare troppo a lungo per avere ciò che vuole. Sì, c’è un idea interessante ma resa con fin troppi buchi di sceneggiatura e una massiccia dose di moralismo. Florence Pugh prova a colmare il vuoto ma non può fare tutto da sola. Voto 5
Babylon – Quando un film fa discutere, lo devo vedere. Questo è cinema, punto. Un cast stellare, scenografie e musiche impressionanti. Un’opera mastodontica che ci racconta l’ascesa del sonoro nel cinema e il declino dei film muti. Qualche eccesso di troppo ma è quel tipo di eccesso che è pura meraviglia. Forse un capolavoro incompreso? Voto 9
Blonde – L’altro film discusso e discutibile è proprio questo che racconta la vita di Marylin Monroe, che io conoscevo poco. Togliamo per un momento le scene più scandalose, i nudi frequenti e la dubbia aderenza ai fatti reali. Resta un film di grande impatto, sia artistico che emotivo. In un certo senso mi ha sorpreso positivamente. Ana De Armas è forse la Monroe più somigliate all’originale mai vista su uno schermo. Voto 7
Everything Everywhere All at Once – Avevo grandi aspettative per questo film. La mia curiosità era alle stelle. In parte è stato quello che immaginavo, un tripudio di visioni fantastiche e folli. Il problema è che tutto è rigidamente inserito in un contesto famigliare che porta ad un finale già visto e che poco ha a che fare con il resto del film. Non mi spiego come possa aver dominato agli Oscar. Non è male ma non lo rivedrei. Anche perché se lo rivedessi noterei ancora di più le incongruenze e i buchi di sceneggiatura. Voto 7
La mosca – Ho visto o forse rivisto questo classico di Cronenberg, di un epoca nella quale i film duravano ancora 90 minuti. Ispirato ad un fumetto ed ad altri adattamenti, racconta la storia di uno scienziato che accidentalmente fonde il suo DNA con quello di una mosca. Trasformazioni corporali, deformazioni e disgusto sono il sale dei film di questo regista. Un applauso per gli effetti speciali “reali”. Voto 7
Amsterdam – Un perfetto esempio dove sono ancora gli attori protagonisti a tenere in piedi una sceneggiatura traballante e noiosetta. Si vuol far ridere o quanto meno sorridere ma qualcosa non va. Troppo lungo, denso e verboso. Ci si perde anche un po’. Un peccato davvero. Aveva il potenziale per essere un gran bel film. Voto 6
X – Quasi un horror, quasi una parodia di un film horror. Insomma non un granché. Tutto prevedibile, a tratti divertente ma un po’ spinto, ma è tutto qui. Credevo in qualcosa di più originale. Voto 6
Nope – Ogni film di Jordan Peele è un enigma. Qui un po’ meno. Il film regge bene lungo tutta la sua durata, inserendo anche una vicenda parallela collegata solo in parte alla storia originale. Mi è piaciuto ma non è per tutti gusti. Voto 8
Triangle Of Sadness – Una crociera per ricchi si rivela un totale disastro. Non c’è occasione migliore per fare un po’ satira e mettere alla berlina la borghesia moderna. Un film interessante dal finale inaspettato e che fa riflettere. La durata di due ore e mezza non si fa sentire troppo. Voto 8
Titane – Dunque, c’è una donna con una piastra di titanio in testa. Uccide per chissà quale motivo. Ad un certo punto rimane incinta di un’automobile. Sì, avete letto bene. Braccata dalla polizia decide di fingersi un ragazzo. Da qui in poi è un susseguirsi di vicende poco credibili (come nascondere completamente una gravidanza di nove mesi con una fascia). Ah ma ha fatto sesso con un auto! Allora vale tutto. Voto 5
Glass Onion – Quasi meglio del primo film. Credevo di trovarmi di fronte ad un giallo cervellotico e invece no. Ben congegnato e divertente. Un altro cast stellare che rende tutto molto godibile e colorato. Un film leggero che ti fa passare una serata insieme al geniale Beniot Blanc. Voto 7
Omicidio nel West End – Molto meglio il titolo originale See How They Run che richiama il tema del film. Ovvero visto un giallo, li hai visti tutti. Da qui l’idea di un giallo divertente che rompe gli schemi con la coppia Sam Rockell e Saoise Ronan in perfetta sintonia. Nel finale ho creduto che si sarebbe ribaltato tutto ma fortunatamente non è stato così ed è un bene. Sarebbe stato troppo geniale ma difficile da tenere in piedi. Lo rivedrei oggi stesso. Voto 8

Ancora un altro libro, ep. 13

Ecco il consueto appuntamento con una veloce recensione dei libri che ho letto negli ultimi mesi. Alcuni ottimi e altri un po’ meno.

Black Jesus. The anthology di Federico Buffa è una raccolta di aneddoti sul mondo della pallacanestro USA infarciti di termini gergali, nomi noti, altri meno, soprannomi e curiosità varie. Incomprensibile per chi non mastica un po’ di basketball. Fortunatamente non è il mio caso, altrimenti mi sarei trovato ancora più spaesato. Lo stile di Buffa è difficile da seguire su carta, spesso e volentieri si perde il filo. Mi sono ritrovato a rileggere più volte le stesse righe nel tentativo di capirne il significato. A tutto questo si aggiungono numerosi refusi (mai visti così tanti in un libro solo!) e ripetizioni inutili. Sarebbe bastato un minimo di editing, indicare almeno l’anno in cui è stato scritto ciascun capitolo e rivedere lo stile di scrittura per ottenere un libro tutto sommato godibile e interessante. Invece, così com’è, è francamente illeggibile.

Con la raccolta di racconti Scheletri, King si conferma essere un abile narratore anche quando lo spunto per una storia si dimostra un po’ debole. Quando questo autore sceglie di condensare la sua fantasia in poche pagine, viene a mancare la profonda caratterizzazione dei personaggi, caratteristica fondamentale dei suoi romanzi. Inoltre è in raccolte come questa che emergono, in maniera più evidente, le influenze di autori come Lovecraft (La nebbia, La scorciatoia della signora Todd, La nonna) e Poe (L’uomo che non voleva stringere la mano, L’immagine della falciatrice, Nona). Alcuni racconti sono stati inseriti più per “beneficio di inventario” che per altro ma altri sono dei piccoli capolavori (L’arte di sopravvivere, su tutti). Un’ottima raccolta che offre un’ampia panoramica sullo stile e l’immaginario di Stephen King.

Frank Herbert ha avuto il merito di aver creato un mondo complesso, un vero e proprio universo. Eppure anche in questo terzo volume della saga, intitolato I Figli di Dune, tutto si riduce ad una questione di famiglia. Leto II ripercorre i passi del padre Paul, affrontando pari pari le stesse visioni e facendo le medesime riflessioni anche se con esiti differenti. Gli altri personaggi sono gli stessi di sempre e mettono in piedi complotti e contro-complotti che sono difficili da seguire. Herbert, con il suo stile dico/non dico, non aiuta affatto il lettore nel districarsi tra di essi. Manca empatia con i protagonisti, in particolare con Leto che sa sempre cosa succederà (ma non lo dice a nessuno, anche perché se lo facesse sarebbe inutile continuare a leggere il resto del romanzo). La cerchia ristretta di personaggi rende vani alcuni colpi di scena ed è un peccato, soprattutto quando si ha a disposizione un intero universo. Il ritmo è lento e un buon centinaio di pagine sono di troppo. In definitiva un capitolo che porta avanti le incredibili vicende di Arrakis, appoggiandosi su di un intreccio complesso ma frastagliato, con dinamiche per larga parte prevedibili, salvandosi in un finale che lascia presagire importanti cambiamenti ma non soddisfa appieno.

Se nel primo volume di questa trilogia Mervyn Peake ha costruito il microcosmo di Gormenghast, in questo seguito, intitolato per l’appunto Gormenghast, lo distrugge pezzo dopo pezzo. Dopo una prima parte che ricalca le atmosfere grottesche e bizzarre del suo predecessore, il romanzo prosegue poi su un binario differente, più cupo e malvagio. Il personaggio chiave è Ferraguzzo sempre più disposto a tutto per ottenere il potere. Il giovane conte Tito è un ribelle che mina dall’interno le fondamenta del castello di Gormenghast mettendo a dura prova le solide mura di pietra e i suoi immemorabili rituali. Lo stile di Peake è unico, fatto di descrizioni dettagliate ma mai noiose, dialoghi scorrevoli (sempre divertenti gli scambi di battute tra il dottor Floristrazio e la sorella Irma) e colpi di scena spiazzanti. Non so sinceramente cosa aspettarmi dal terzo capitolo ma anche se non dovesse essere all’altezza di questi primi due, sono contento di essermi perso ancora una volta per gli immensi corridoi e le infinite stanze di Gormenghast.

Ancora un altro libro, ep. 7

Non è passato molto tempo dall’ultima volta che ho pubblicato un post riguardo alle mie letture. Infatti nel frattempo ho letto solo due libri ma entrambi meritano due parole. In particolare il primo di questi ovvero, Gli inganni di Locke Lamora (The lies of Locke Lamora) di Scott Lynch. Primo della serie dei Bastardi Galantuomini, è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 2006 e sono previsti altri sei volumi. La pubblicazione in Italia è stata travagliata ma lo scorso anno la Mondadori ha dato nuova vita ai primi tre capitoli, il quarto sarà pubblicato in lingua originale alla fine di quest’anno. Come potete notare, tra la pubblicazione del primo, Gli inganni di Locke Lamora appunto, e il successivo I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies), passa solo un anno ma ci vorranno ben sei anni prima di poter leggere La repubblica dei ladri (The Republic of Thieves). Scott Lynch ha dovuto affrontare diversi problemi personali che hanno rallentato la realizzazione delle opere, compreso l’ultimo romanzo The Thorn of Emberlain che uscirà a quattro anni di distanza dal precedente.
Vi starete chiedendo quindi come è questo Gli inganni di Locke Lamora. Innanzi tutto si potrebbe definire un fantasy. Ma è finalmente un fantasy dove il protagonista, Locke Lamora, non è un eroe che deve salvare il mondo, dove non c’è una netta distinzione tra male e bene e dove la magia non è onnipresente. Ci sono maghi ma un po’ diversi dal solito. Molto permalosi, vendicativi e anche parecchio costosi. La particolarità dello stile di Lynch è l’uso di toni adulti, con un linguaggio carico di parolacce, con un uso frequente di violenza fisica e verbale, ma sempre con una vena di ironia nera. Tutto ciò può piacere a molti e dare fastidio ad altri. Per certi versi può ricordare un po’ lo stile tarantiniano, per intenderci. Lo stesso Locke non è un personaggio per bene e, anche se appare simpatico e affabile, è disposto a tutto pur di salvarsi la pelle e guadagnarci sopra qualche moneta. Perché Locke è prima di tutto un abile ladro e truffatore e insieme ai suoi Bastardi Galantuomini mette a segno colpi mirabolanti. Jean Tannen è abile con le armi (ma anche senza), i gemelli Calo e Galdo Sanza sono ottimi in tutto e il giovane Cimice deve imparare ancora molto ma non gli manca certo il coraggio.
All’inizio va tutto per il verso giusto al nostro Locke Lamora e ai suoi compagni. La truffa al ricco Don Lorenzo Salvara inizia nel modo migliore ma la presenza nella città di Camorr del misterioso Re Grigio rovina i piani della banda. Camorr, appunto. Lynch pone i protagonisti in una simil Venezia settecentesca, dove si trovano tracce di una civiltà antica che costruiva tutto con un vetro indistruttibile. Gli uomini che la abitano hanno perso ogni conoscenza di quel periodo e vivono in un mondo più simile al nostro. L’autore crea tutta una mitologia, una religione originale e curiosa, fatta di numerose divinità. Spesso ci sono brevi digressioni che spiegano il contesto sociopolitico nel quale si muovono i personaggi senza mai approfondire troppo per non risultare noioso. I capitoli che raccontano la storia principale sono intervallati da flashback sulla gioventù di Locke Lamora e dei suoi colleghi e spesso influenzano la trama successivamente.
Quando iniziano i problemi e troppe cose mettono i bastoni tra le ruote alla Spina di Camorr (così è soprannominato Locke) si fa fatica a staccarsi dalle pagine grazie a colpi di scena del tutto inaspettati. Preparatevi perché succede di tutto. Non aggiungo altro per non rovinarvi il piacere della lettura, se non che la scrittura di Lynch, supportata da una traduzione più che ottima, è moderna e scorrevole, infarcita di parole desuete e altre del tutto inventate. Non vedo l’ora di leggere il secondo libro e scoprire qualcosa di più sui personaggi rimasti in secondo piano.

L’altro libro è La lunga marcia di Richard Bachman ovvero niente di meno che Stephen King. Lo pseudonimo fu creato da King nel tentativo di vedere se il suo successo era legato alle sue storie o semplicemente al suo nome. Non riuscì mai a scoprirlo dato che fu smascherato troppo presto (colpa dei diritti d’autore a suo nome) ma i numeri, piuttosto scarsi per Bachman sono a sostegno più della seconda ipotesi. Questo è il secondo romanzo a nome Bachman, il primo Ossessione, è stato ritirato dal mercato per volontà dello stesso King a seguito di alcuni episodi di violenza forse legato ad esso o forse no. La lunga marcia è stato pubblicato per la prima volta nel 1979 ma è stato scritto tra il 1966 e il 1967, otto anni prima dell’esordio di King con Carrie.
Cento ragazzi partecipano ad una logorante marcia che parte dal confine del Maine con il Canada per arrivare fino a Boston, a meno che non rimanga un solo concorrente. Sì perché chi rallenta, commette infrazioni previste dal regolamento viene prima ammonito tre volte, poi “congedato” ovvero fucilato sul posto da inflessibili soldati. Alla fine il vincitore avrà un sacco di soldi e un imprecisato Premio. Ovviamente ci troviamo negli Stati Uniti ma diversi da come li conosciamo. Sembra esserci un regime militare che non viene mai approfondito dall’autore. In realtà sono tanti i punti oscuri di questo romanzo. Quello che conta è la marcia. La scelta di King di raccontarla dal punto di vista di Ray Garraty, un giovane concorrente, lascia pochi dubbi su come vada a finire.
King riesce a dare forma ad un vero proprio incubo al quale prendono parte dei ragazzi incoscienti della loro scelta. La tensione è sempre alta e sembra di partecipare con loro a questa logorante “passeggiata” che porterà i concorrenti a reagire in modi diversi. Chi si arrende e accetta la morte, chi non vuole mollare e in un certo senso “muore”, annullando sé stesso, spegnendosi lentamente. Non c’è alternativa, o cammini e vinci o muori. Ottima quest’idea di base e la scelta di non approfondire il contesto nel quale si svolge la competizione, lasciando al lettore la libertà di immaginarsi questi Stati Uniti distopici e la natura del Premio. Ma si tratta pur sempre di un King acerbo, che perde la bussola nel capitolo finale, accelerando troppo e senza motivo. Tutti sanno che il Re ha qualche problema con i finali e questo è il più enigmatico dei suoi letti finora. Ho girato l’ultima pagina credendo di trovare il resto ma era completamente bianca. Forse una vera conclusione avrebbe deluso comunque ma vale lo stesso la pena di leggerlo, consapevoli che King ha scritto di meglio. Conta di più il viaggio che la meta.

Ancora un altro libro, ep. 4

Ultimamente ho dedicato poche righe alle letture più recenti ma questa volta devo fare un’eccezione per un classico moderno come Il Signore Delle Mosche scritto da William Golding e pubblicato per la prima volta nel 1954. Vorrei sottolineare come questo autore sia stato un po’ bistrattato dagli editori italiani che ormai offrono ormai solo la traduzione questo suo romanzo più celebre, nonostante sia stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1983. A parte questo fatto che trovo piuttosto curioso, Il Signore Delle Mosche l’ho avuto tra le mani molti anni fa, credo almeno quindici. Ero un giovane studente e probabilmente ero venuto a conoscenza di questo libro durante qualche lezione di letteratura. Prima di rileggerlo avevo pochi ricordi della trama ma di una cosa ero certo: non mi era piaciuto e non ero nemmeno riuscito a finirlo. Ora posso dire che della seconda affermazione non ne sono del tutto sicuro. Pagina dopo pagina mi sembrava di essere già stato su quell’isola selvaggia, in mezzo a quei bambini, arrivando ad un finale che sembrava già presente in un angolino sperduto della mia memoria. Questo mi ha convinto a pensare che molto probabilmente l’avevo letto tutto, seppure con fatica, per poi dimenticarlo quasi completamente. Da qualche anno però meditavo la possibilità di rileggerlo. Mi dicevo: ho letto diversi libri da allora e mi sono fatto le ossa con tomi anche più ostici e noiosi, cosa sarà mai un romanzo che consigliano come lettura ai ragazzini? Quel momento è arrivato e posso riflettere un po’ più chiaramente su quest’opera che, mi è parso di capire, è oggetto di opinioni spesso contrastanti. Si rende però necessaria una premessa: ho letto un edizione Mondadori dei primi anni duemila, la quale riproponeva una traduzione degli anni ’50, che conservava quell’insopportabile usanza di tradurre anche i nomi di persona. Al di là dei tre protagonisti principali, Ralph, Jack e Piggy ecco spuntare Maurizio, Aroldo, Ruggero ecc. Se ci aggiungete anche l’uso di un inspiegabile “Ohé!” al posto di un più normale “Ehi!” ed espressioni dialettali varie ma soprattutto la scelta di usare il termine “orgasmo” al posto di “eccitazione” o “entusiasmo”, capirete che non sempre la lettura è risultata scorrevole come ci si aspetterebbe.

La trama. Durante un conflitto globale, appena accennato nel romanzo, un aereo precipita su un isola deserta. Sopravvivono all’incidente solo un gruppo di bambini di età diverse e nessun adulto. Dopo un primo momento, nel quale i ragazzi sono al settimo cielo per la possibilità di essere liberi dai “grandi” in un ambiente paradisiaco, si profilano i primi problemi e conflitti interni. Da una parte il capo Ralph e il suo saggio amico Piggy, dall’altra l’autoritario Jack. Le due personalità differenti dei due, che in un primo momento sembrano convivere seppur con difficoltà, con il passare del tempo si deteriorano precipitando in un aperto conflitto violento, descritto in modo crudo da Golding. A questa opposizione, tra bene e male, e allo sviluppo di una sorta di società primitiva che indaga l’animo umano, si appoggiano i sostenitori di questo romanzo. Il paradiso tropicale si trasforma dunque in un inferno fuori controllo.

Il romanzo. Golding è indubbiamente bravo a gettare il sasso nello stagno. La domanda alla base del storia è chiara: cosa succederebbe se un gruppo di ragazzini si ritrovasse solo senza una guida adulta? L’autore, che diceva spesso “gli uomini producono il male come le api producono il miele“, dà una risposta altrettanto chiara: la violenza e la forza prenderanno il sopravvento, l’istinto selvaggio avrà la meglio sulla ragione. Ed ecco che su questo tema si posso aprire mille riflessioni, che possono dare ragione o torto alla visione dell’autore. Quindi perché ci sono anche i detrattori di questo romanzo? Proverò anche io a riflettere sui difetti de Il Signore Delle Mosche, facendo il punto su ciò che mi ha convinto e cosa no, per la seconda volta, della storia raccontata Golding.

L’incidente. Non è chiaro come e quando l’aereo precipita sull’isola. Poco importa, non è necessario ai fini della storia e non si può pretendere che un gruppo di ragazzini ne sappia qualcosa. Resta però un mistero del perché Golding non ci porti mai tra i resti del velivolo, sappiamo solo che ha lasciato un profondo solco sul terreno. I ragazzi non proveranno mai da avvicinarsi ad esso, anche solo per recuperare qualche oggetto, un pezzo di metallo, un sedile o cose di questo genere. Più si prosegue nel racconto e più l’aereo viene dimenticato, nascosto al lettore. Il dubbio che sia mai esistito un po’ viene. Ma sopratutto perché così tanti bambini sono presenti su quel volo? Non è dato sapere. Perché nessuno conosce nessuno? Non c’è bambino che riconosca un amico o compagno di scuola. Non si sono mai visti prima di allora, eppure erano sullo stesso volo. Perché? Non è dato sapere nemmeno questo.

I ragazzi. Sono tutti inglesi e questo è chiaro fin da subito. C’è chi indossa un uniforme scolastica, chi fa parte di un coro, chi ha il padre in Marina, chi ha la zia premurosa e poco altro. Si conosce davvero poco del loro passato. Un accenno ad un episodio legato alla vita di Ralph offre un veloce scorcio su di un tempo che fu, offrendo un momento nostalgico che non si ripeterà più nel proseguo del romanzo. Non si conosce il vero nome del ragazzo chiamato Piggy (il traduttore ha avuto l’accortezza di non tradurlo, spiegandolo solo con una nota) e questo non è affatto un male, perché dà un aura di mistero al personaggio più complesso e caratterizzato di tutti. Ralph è il ragazzo buono che viene subito scelto come capo per il suo bell’aspetto e per il suo carattere solare ma poco incline a pensare come un adulto. Per questo ha bisogno dell’aiuto di Piggy. Ralph è l’unico che continua a nutrire la speranza di essere salvato, per lui la cosa più importante è tenere vivo il fuoco di segnalazione. Jack, invece, si propone subito come suo diretto concorrente anche se tra lui e Ralph inizialmente non ci sono particolari attriti. Gli altri personaggi sono poco caratterizzati, molti di loro sono solo un nome sulla carta, vanno e vengono, solo nel finale un paio di loro si rendono protagonisti. Difficile provare empatia per questi ultimi (solo un po’ di più per i tre protagonisti), perché di loro non sappiamo nulla. Chi erano prima dell’incidente, da che famiglia provengono, che educazione hanno ricevuto. Nulla di tutto questo. Ad esempio Simone che parla con il “signore delle mosche” è un episodio centrale del libro ma non è chiaro perché proprio lui, da dove arriva la sua predisposizione mentale a questo genere di visioni che sia una malattia o un trauma precedente.

La scrittura. La prima parte (abbondante) del romanzo è piuttosto lenta. Golding si dilunga nelle descrizioni dell’isola, che in un primo momento aiutano il lettore a farsi un’idea di cosa lo circonda ma poi tendono ad essere un po’ ripetitive. Un giovane lettore potrebbe essere messo in difficoltà fin dalle prime pagine. La seconda parte è più scorrevole e va dritta al sodo tenendoti incollato alle pagine. Anche se le stranezze relative alla traduzione, non imputabili quindi all’autore, mi hanno fatto storcere il naso più volte. In generale ho trovato Golding capace di cambiare registro con facilità e dare sempre una visione chiara dei fatti, spostando di frequente il punto di vista. Ricorre anche a salti temporali in avanti che fanno scorrere il tempo velocemente lasciando il lettore un po’ spaesato. All’inizio dei capitoli, ci ritroveremo spesso a chiederci: ma quanto tempo è passato? Non è chiaro nemmeno da quanto tempo i ragazzi sono sull’isola, perché il romanzo inizia quando essi sono già lì e finisce senza che ci si sia un chiaro riferimento temporale. Questo potrebbe non piacere a qualcuno ma io la vedo con una trovata dell’autore per farci percepire un senso di smarrimento simile a quello che provano i ragazzi sull’isola.

Interpretazione. Quella più diffusa è la più immediata: gli uomini, in questo caso degli innocenti bambini, senza regole, scelgono gli istinti selvaggi e la violenza per formare un società organizzata un modo gerarchico e dittatoriale. L’istinto vince sulla ragione quindi, in linea con il pensiero pessimistico di Golding. Un’altra interpretazione mette al centro la religione. Quello che succede nel romanzo è ciò che succederebbe in una società senza Dio. Ognuno la pensi come vuole, io credo che Golding abbia semplicemente lasciato che i bambini reagissero alla situazione nel modo più spontaneo possibile, seguendo la sua filosofia e, perché no, preferendo la svolta violenta anche solo per rendere il libro più interessante. Se i bambini avessero costruito una società ben organizzata e pacifica, non sarebbe stato poi così entusiasmante come libro o sbaglio? Se siete interessati trovate molte riflessioni riguardo al significato e all’interpretazione che si vogliono dare a questo romanzo, a mio parere pure fin troppe.

In conclusione. Il Signore Delle Mosche è un libro dal fascino del tutto particolare. Un classico per certi versi intoccabile ma che non ha passato indenne l’esame del tempo. Un romanzo che solleva sicuramente delle questioni importanti, di cui si potrebbe discutere per delle ore ma che si lascia dietro delle domande senza risposta legate soprattutto allo sviluppo della trama. Lungi da me criticare l’idea di Golding alla base ma qualche difetto sulla sua realizzazione non è difficile notarlo. Il Signore Delle Mosche è sicuramente da leggere almeno una volta nella vita, anche solo per farsene un’idea personale. Potreste scoprire un capolavoro che amerete oppure un buon libro che riporrete sullo scaffale non del tutto soddisfatti.

Questa volta no

Non sono solito leggere due libri alla volta ma in queste due settimane ho potuto alternare la lettura de Le notti di Salem di Stephen King con Timeline di Michael Crichton. Premesso che è il primo libro di Crichton che leggo in assoluto, questo romanzo mi ha un po’ deluso. Sono da sempre affascinato dai viaggi nel tempo oltre che dalla storia medievale perciò Timeline mi è sembrato perfetto per iniziare con questo scrittore. Avevo un vago ricordo del film omonimo tratto da questo romanzo, così vago che praticamente non ricordavo nulla. Non mi aspettavo di certo un libro di chissà quale levatura però una bella storia di fantascienza ed mistero, questo sì. Invece si è rivelato poco più di una piacevole lettura con qualche passaggio che non mi ha convinto. Partiamo dalla trama, piuttosto semplice e lineare (ed è un bene). Attenzione, ci saranno spoiler come se piovesse, vi avviso.

Una misteriosa azienda dal nome innocuo di ITC, guidata dal prepotente genio della fisica Doniger, ha messo a punto una macchina per viaggiare nel tempo, o per meglio dire, tra gli universi, sfruttando la teoria dei quanti. Il romanzo si apre con un viaggiatore nel tempo che, a causa di un errore della macchina, si ritrova in mezzo al deserto e viene soccorso da due automobilisti di passaggio dei giorni nostri. Morirà poco dopo a causa di “errori di trascrizione” che ne hanno modificato il corpo, danneggiandolo. I sospetti della dottoressa e dello sceriffo di turno, ben approfonditi all’inizio del romanzo, si rivelano del tutto inutili al fine della storia, finendo dimenticati insieme ai due personaggi, compreso il malcapitato viaggiatore.

Lo sguardo poi si sposta in Francia in un sito archeologico dove sono impegnati il Professore, Kate, Chris, Marek e Stern, tutti i principali protagonisti da qui in avanti. Insospettito da una visita della rappresentante della ITC che finanzia gli scavi, tale Kramer, il Professore decide di fare visita nei misteriosi laboratori, incontrando Doniger. I sospetti sorgono quando Kramer fa rifermenti a particolari del sito, non ancora scoperti dagli archeologi, sottolineando anche la volontà della ITC di ricostruire tutto come l’originale medievale. Durante l’assenza del Professore, il resto del team rinviene i suoi occhiali e alcuni documenti dell’epoca con la sua calligrafia in una sala appena scoperta e quindi inviolata da secoli. Un evento incomprensibile, che solo il Professore potrebbe spiegare se non fosse scomparso nel nulla.

Messo alle strette Doniger invita il team di scienziati nei suoi laboratori rivelando loro che il Professore è tornato indietro nel tempo e, non avendo più fatto ritorno, spetta a loro salvarlo con l’aiuto di due viaggiatori esperti, Gomez e Barreto. Nonostante il divieto di portare con sé armi moderne, Barreto all’insaputa di tutti porta delle bombe a mano (!?) che non esita ad usare alla prima zuffa con dei cavalieri. Il caso vuole che mentre si preparava a lanciare questa bomba, Barreto finisca dentro la macchina del tempo e torna nei laboratori ITC, insieme alla bomba. La bomba esplode e distrugge le apparecchiature del laboratorio, in particolare gli schermi d’acqua che proteggono la macchina del tempo, impedendo così ai nostri di poter rientrare nell’immediato. Ora spiegatemi perché uno dovrebbe portarsi dietro delle bombe a mano (pure vietate) per difendersi da degli uomini armati di spada. Capisco una pistola ma le bombe mi sembrano eccessive. Ma il motivo è presto detto: con i protagonisti bloccati nel medioevo è tutto più interessante. Ovviamente i tre avventurieri Kate, Chris e Marek (Gomez è morta nella zuffa e Stern ha, provvidenzialmente, preferito rimanere nei laboratori) sono ignari di tutto e danno il via ad una serie di rocamboleschi eventi. I tre hanno solo 37 ore per ritrovare il Professore e tornare nel futuro mentre Stern e Gordon, uno scienziato della ITC, lottano contro il tempo per rimettere in piedi il laboratorio.

Le scene ambientate nel medioevo sono molto belle e curate, soprattutto perché ci sono molte espressioni nelle lingue parlate ai tempi, comprese dai nostri eroi grazie a degli auricolari che permettono una traduzione istantanea. Solo Marek conosce e parla l’occitano, perché molto appassionato di quel periodo storico. Questi auricolari permettono ai tre di comunicare tra loro anche a distanza e hanno un ruolo importante, e allo stesso tempo inutile, all’interno del romanzo (spesso non funzionano bene). Nel corso della storia, in queste 37 ore, i tre si separano, si ritrovano, rischiano di morire e si feriscono un numero considerevole di volte mentre nel futuro si continua a cercare un modo di ripristinare il tutto. Ho trovato piuttosto eccessivo l’accanimento verso i tre da parte degli uomini di allora che appaiono piuttosto nervosetti (comprensibile considerando che su di loro grava un imminente attacco del nemico).

I protagonisti, sono piuttosto piatti e Crichton non approfondisce molto la loro psicologia. Basta sapere che Marek, da appassionato, si sa muovere bene nel medioevo tra tornei e usanze, ed è lui a togliere d’impaccio gli altri due dalle situazioni più pericolose. Chris è il classico studente un po’ fifone ma che sotto sotto non se la cava male. Kate è un architetto appassionata di arrampicate. Questa sua abilità viene sfruttata fin troppo nel romanzo. Insomma, ognuno è specializzato in qualcosa che torna utile a tutti.

Presto, nel gruppo si insinua il sospetto che qualcuno, alla corte del signore del luogo, sia in realtà un viaggiatore anche lui ma non ci sono, inizialmente, prove a riguardo. Viene poi smascherato grazie al fatto che costui aveva rubato l’auricolare alla defunta Gomez e alla reazione avuta ad una comunicazione tra i tre protagonisti. Bella la trovata del viaggiatore in incognito, peccato solo che non ha molto peso nella storia se non nel finale quando ormai sanno tutti chi è. Questo viaggiatore viene spedito nel passato perché i numerosi viaggi lo avevano reso pazzo a causa di grave errori di trascrizione subiti. Non so perché la scelta di intrappolarlo nel passato considerando poi che tra tutti gli antagonisti era il meno pazzo. I tre malcapitati infatti sono in balia di uomini d’arme piuttosto folli e crudeli (uno su tutti il cavaliere pazzo rinchiuso nella cappella è risibile) che tentano in tutti i modi di porre fine alle loro inutili vite. La sequenza di peripezie è lunghissima ma alla fine il Professore rientra sano e salvo nel futuro (grazie alla collaborazione tra Stern e Gordon), insieme ai suoi, eccetto Marek che si trova benone nel medioevo.

Il finale riserva una sorpresa che mi ha lasciato piuttosto perplesso. I viaggiatori di ritorno sono contrariati da tutto quello che hanno dovuto passare nel medioevo ma, come si dice in questi casi, tutto è bene quel che finisce bene. No, Crichton non ci sta e inspiegabilmente, Gordon e compagnia, spediscono l’antipatico Doniger nel passato durante l’infuriare della peste bubbonica, condannandolo di fatto a morte certa. Non ho capito tutto questo odio nei confronti di un personaggio che è stato, sì prepotente ed egoista ma il suo ruolo non ha intralciato più di tanto le vicende dei protagonisti. Vero, lui li ha mandati nel passato ma a loro rischio e pericolo (tant’è vero che Stern si è rifiutato di partire). Era giusta una punizione per la sua condotta dell’operazione ma farlo morire di peste è una fine troppo crudele per il personaggio.

In definitiva Timeline è un romanzo molto curato negli aspetti tecnici (teoria quantistica e storia medievale) ma un po’ carente nella trama e nei personaggi. La trovata della bomba è troppo costruita per essere minimamente presa sul serio e il finale pestifero è poco condivisibile. I tre viaggiatori in 37 ore se la vedono brutta troppe volte, massacrati in ogni modo ed incredibilmente chi ci lascia le penne sono gli unici due viaggiatori esperti ed addestrati (sopravvivono pochi minuti). Lo stile di Crichton, veloce e pulito, tiene incollato il lettore senza annoiare ma è troppo cinematografico per i miei gusti. Non so se leggerò altro di questo autore (ho in lista Congo e naturalmente Jurassic Park) ma spero di non essere l’unico ad esserne rimasto deluso.

Cent’anni

Dopo aver letto L’arciere del re ho continuato, insieme al protagonista Thomas di Hookton, la ricerca del Santo Graal. Il secondo libro s’intitola Il cavaliere nero e l’autore è sempre lui, Bernard Cornwell. Ora vorrei capire da dove hanno tirato fuori la traduzione del titolo in italiano. L’originale è Vagabond e ha il suo perchè ma Il cavaliere nero è un po’ forzato. Il cavaliere nero in questione è oggetto di un maciata di pagine e non è nient’altro che lo stesso protagonista Thomas che finge di essere un infernale cavaliere portatore di morte, con il solo scopo di spaventare dei soldati nemici. Poi non c’è più nessun riferimento a questo cavaliere… ma non importa, non cambia nulla. Come avevo già spiegato nel precedente post su L’arciere del re, questo Il cavaliere nero lo avevo letto già diversi anni fa, più o meno nell’anno di pubblicazione, il 2003. Di solito mi ricordo bene le trame dei libri che leggo ma di questo avevo dimenticato praticamente tutto e se si aggiunge che era pure il secondo di una trilogia allora avrei fatto bene a cominciarla dall’inizio.

Rieccomi dunque a rileggere Il cavaliere nero nella sua edizione originale. Per darvi un’idea della meticolisità delle descrizioni di Cornwell e della sua accuratezza storica vi posso dire che quasi mezzo libro racconta “solo” la battaglia di Neville’s Cross, alle porte di Durham, avvenuta nell’ottobre del 1346, tra scozzesi e inglesi. Sembra di essere lì, spostarsi per quelle colline testimoni di massacri, stando fianco a fianco dei soldato inglesi. Cornwell fa sembrare tutto attuale, vivo, senza annoiare. L’autore non modifica gli eventi per adattarli alla trama del suo romanzo ma sono i protagonisti che si ritrovano parte della Storia. Sono personaggi di fantasia che interagiscono con persone realmente esistite, che escono dai noiosi libri di storia di scuola e combattono con loro o contro di loro. Un bel modo per studiare storia sarebbe leggere Cornwell. I protagonisti, anche se apparentemete stereotipati, hanno una personalità complessa. Non esitono buoni o cattivi. Thomas, arciere inglese, diventa amico di uno scozzese, Robbie e entrambi anche se sembrano in fondo brave persone, non esitano a cercare una vendetta senza pietà. La ricerca del Santo Graal continua dal libro precedente ma senza particolari colpi di scena. Qualche domanda trova risposta ma il prossimo La spada e il calice (titolo originale Heretic) è quello conclusivo e sicuramente tutto sarà chiarito. La trilogia ha prodotto anche una sorta di spin-off intitolato L’eroe di Poitiers (1356) ma di fatto la ricerca del Santo Graal si conclude al terzo libro.

Bernard Cornwell non è a caso definito un maestro del romanzo storico d’avventura. Recentemente ha pubblicato anche un saggio storico intitolato Waterloo: The History of Four Days, Three Armies and Three Battles, il primo della sua produzione. Ovviamente il tema è la battaglia di Waterloo e le sue ripercussioni sulla storia europea. Pare sia molto ben scritto e accurato. Interessante. Prima però vorrei leggere qualche suo romazo del ciclo sassone composto da ben otto libri. Prima ancora però sarebbe meglio che concludessi la storia di Thomas di Hookton con La spada e il calice. Non vedo l’ora di tornare indietro nel tempo con Cornwell e i suoi eroi.

Leviatano

Chiamatemi Ismaele. Così inizia uno dei capolavori della letteratura americana, Moby Dick. Herman Melville pubblicò questo romanzo nel 1851, dopo una serie di libri di successo ma Moby Dick, come si potrebbe pensare, non fu il suo successo maggiore. Anzi, segnò praticamente la fine della sua attività di scrittore. Fu stroncato dalla critica e le copie vendute furono pochissime. Solo molti anni dopo fu riscoperto e diventò una delle storie più conosciute. Moby Dick è un classico che mi mancava. Tutti conosciamo la Balena Bianca e il capitano Achab ma quanti possono dire di aver letto il romanzo? Eccomi dunque alla fine di questa avventura. Si sono spesi fiumi di parole su questo libro e leggendolo ne capisco anche il motivo. Non è una semplice storia. Nell’introduzione dell’edizione Feltrinelli (la consiglio, soprattutto per le sue numerose note) è riportato un fatto curioso. L’edizione originale contava 470 pagine. Le pagine che raccontano l’avventura di Ismaele a bordo della baleniera Pequod erano un centinaio, di cui solo una trentina riguardavano lo scontro tra Achab e Moby Dick. Cosa c’è quindi nelle restanti 370 pagine? Mi verrebbe da rispondere: tutto. Si parla di balene, classificazione di balene, vita delle balene, balene nella mitologia, balene nella storia, balene nella letteratura, balene nell’arte, scheletri di balene, interiora di balene ma anche tutto sulla caccia alle balene. Come si cattura una balena, come si uccide, come si lavora, come si estrae l’olio, lo spermaceti, come si vive su una baleniera, quali sono i compiti di ciascuno, quali sono le leggi che regolano la caccia, quel è il futuro delle caccia alle balene. In quest’ultimo punto Melville ci aveva visto lungo. Pensava che continuando con quel passo, i leviatani degli oceani, sarebbero diminuiti di numero ma pensava anche che non sarebbero mai scomparsi. Melville conosceva bene queste cose essendo stato su navi mercantili e baleniere. Oltre a tutto questo non si contano digressioni filosofiche, ironiche, satiriche. Tutto, insomma. La storia spesso si ferma per fare spazio a tutte queste cose che il narratore, Ismaele, sembra conoscere perfettamente. Sa anche tutto quello che succede sulla nave, anche cose che a volte viene da chiedersi come faccia a saperle. Ismaele è presente ovunque ma è soprattutto l’unico sopravvissuto del disastro del Pequod. Poi c’è Achab, il vecchio capitano monomaniaco, ossessionanto dalla vendetta. Uccidere Moby Dick è per lui lo scopo ultimo della sua esistenza e niente e nessuno potrà fermarlo. Achab è un personaggio che alterna momenti di lucidità degna del migliore filosofo a momenti di totale pazzia e irrazionalità. Dall’altra parte la preda Moby Dick, enorme capodoglio bianco, che spinge la narrazione fino all’epico scontro finale.

Moby Dick è un romanzo per chi ama “leggere” e non semplicemente “leggere una bella storia”. Un romanzo adatto a chi, come me, ama le digressioni e le continue interruzioni che raccontano tutt’altro. La definizione che mi viene da dare a Moby Dick non è romanzo d’avventura ma semplicemente, un libro. Un libro da leggere per il solo piacere di farlo. Perdersi a bordo del Pequod e nei mari che attraversa è qualcosa di unico. Credo di non aver mai letto mai nulla di così coinvolgente e istruttivo. Moby Dick richiede, però, una buona dose di pazienza e attenzione nei passaggi più filosofici e descrittivi che si contrappongono a scene divertenti e ironiche, spesso enfatizzate da un linguaggio teatrale. Limitarsi alla conoscenza della Balena Bianca e del capitano Achab per sentito dire, è un vero peccato. Leggere Moby Dick è davvero un’esperienza unica che di sicuro ripeterò appena ne avrò voglia.

Dio ti aiuti, vecchio, i tuoi pensieri hanno creato una creatura dentro di te; e colui che l’intensità del pensiero rende un Prometeo, di quel cuore per sempre si ciberà un avvoltoio; quell’avvoltoio è la creatura stessa che egli crea.

Battaglie, cavalieri e spade

Diversi anni fa acquistai un libro di Bernard Cornwell intitolato Il Cavaliere Nero non sapendo che si trattava del secondo volume di una serie di libri con protagonista l’arciere inglese Thomas di Hookton. Ultimamente avevo voglia di leggere qualche bel romanzo ambientato nel Medioevo, pieno di battaglie, cavalieri e spade. Ecco quindi che ritrovai Il Cavaliere Nero nella mia libreria e pensai che sarebbe stato bello rileggerlo anche perchè non mi ricordavo assolutamente nulla di questo libro. Però non potevo leggere di nuovo il secondo libro della serie senza aver letto il primo. Ecco che, il fatto di non ricordarmi la trama, mi ha permesso di ricominciare la storia di Thomas di Hookton da zero. Il primo libro s’intitola L’Arciere Del Re. Il titolo in italiano appare un po’ banale in confronto al più evocativo Harlequin originale. L’autore è il già citato Bernard Cornwell inglese e maestro dei romanzi storici d’avventura. I suoi libri più conosciuti sono quelli con protagonista Richard Sharpe ambientati tra fine del ‘700 e l’inizio del ‘800. La serie che si apre con L’Arciere Del Re è ambientata nel 1300 e racconta le avventure del giovane Thomas di Hookton alla ricerca del Santo Graal.

Se volevo battaglie, cavalieri e spade ho avuto tutto e anche di più. Cornwell descrive le battaglie in modo preciso e crudo, sembra quasi di vederle. Scordatevi cavalieri dalle armature luccicanti su maestosi destrieri che cavalcano compatti incontro a epiche battaglie. Qui si fa sul serio. La prima cosa che viene in mente è: massacro. Sì, le battaglie con spade, lance e archi erano dei veri e propri massacri. Cornwell non tralascia particolari macabri e tutto così appare più vero. Ti fa pensare a quanto fosse dura la vita in quegli anni soprattutto per i soldati. Ti fa pensare a questi uomini che hanno sacrificato la loro vita per il loro popolo dedicandola alla guerra e scrivendo la storia. Cornwell spiega che, a parte un paio di fatti più o meno insignificanti che si è inventato per il romanzo, tutte le battaglie tra francesi e inglesi raccontate e vissute da Thomas sono avvenute veramente in Francia poco prima della Guerra dei Cent’anni. Perfino l’ultima epica battaglia, la battaglia di Crécy, raccontata nel libro è accaduta realmente. Eppure sembra una trovata letteraria, un finale perfetto ed invece è un terribile fatto storico che forse per a causa della sua distanza storica non ci sembra niente di così terribile. Ma Cornwell con la sua capacità di trascinarti dentro quell’inferno ti fa capire che le guerre erano brutte ieri come oggi.

Sono contento di aver ritrovato Bernard Cornwell e di avere già pronto Il Cavaliere Nero perchè voglio tornare del 1300 e conoscere le sorti di Thomas di Hookton, che non è il classico eroe senza macchia e senza paura ma un personaggio più complesso e umano. Certo L’Arciere Del Re rimane pur sempre un romanzo d’avventura ed è quindi lecito non aspettarsi chissà quale profondità nella psicologia dei personaggi ma è il bello di questi libri. In definitiva un romanzo che si fa leggere volentieri e ci fa assaporare più da vicino un periodo storico che di solito si conosce solo per come ce lo raccontano i libri di scuola. Bernard Cornwell ci garantisce una lettura di qualità ma allo stesso tempo appassionante e sorprendente. Da leggere se volete battaglie, cavalieri e spade.