Quando il dubbio, il diavolo e l’amore si scontrano

Sono sempre alla ricerca di un album di debutto interessante ma se a questo si aggiunge la voglia di ascoltare del buon country, allora non resta che guardare oltre oceano per vedere cosa offrono da quelle parti. Dall’assolata Florida si fa avanti il nome di Hannah Harber che con la sua band, The Lionhearts, si presenta con Long Time Coming. Sette tracce fatte di quel country che andavo cercando oltre che essere un debutto uscito all’inizio di quest’anno. Questa cantautrice ci ha messo poco a convincermi che meritava ben più di un ascolto.

Hannah Harber
Hannah Harber

Si comincia subito forte con la bella Come Alive. Non c’è tempo per i convenevoli, la Harber e la sua band piazzano un country rock ben tirato e carico. Le chitarre riempiono l’aria e la voce colpisce nei punti giusti, “It’s time to stop that self destruction / Nothing lies like a lonely heart / This is a good love interruption / A lightning bolt across the dark / Come alive, in the light of love“. La successiva Slow Leak, come da titolo rallenta il ritmo, trasformandosi in un rock vagamente blues. La Harber è perfetta e i suoi “cuori di leone” sono trascinanti e capaci di cambiare stile, decisamente rock’n’roll nel finale. Una prova di forza da ascoltare tutta d’un fiato, “There’s a slow leak and I’m losing time / I’m playing hide and seek with my pride / When doubt and the devil and love collide / It’s the great divide“. Sorry Darlin’ è un country collaudato ma che si lascia ascoltare volentieri. Ben supportata dalla band, la Harber accende il brano con la sua voce, più pulita ed educata che in precedenza, “But I don’t miss a thing, I’ve just been drinking / I’m in the mood for reckless and wishful thinking / Maybe I needed reminding just how bad it’s really been / To see how great I’m doing since you left / I’m sorry darlin’“. Non manca in questo album la ballata malinconica, qui con il titolo Hold On You. Hannah Harber però ha l’abilità di non cadere in banalità sentimentali, riuscendo a mantenere un piglio rock non troppo marcato, “I wish I could call you everything under the sun / Wish I could call you the one / The one who would never leave / But now crying is the only thing I know to do / Even still I know it’s true / Crying don’t change a thing“. Oh Papa è un bel country blues oscuro, con riferimenti religiosi. La Harber ci svela così l’altra faccia della sua musica, più dura e misteriosa, “Away with the key to the door of the devil’s den / One foot in the grave, one foot in the garden / We’ve been through hell and here comes the high water / Oh papa, we ain’t going under“. Heartaches è una canzone su un amore che fa soffrire, una ballata forte e sentimentale. Bella la scelta di accompagnare la voce con solo il suono di una chitarra acustica, “My heart aches every day for you / And my soul shakes at the hell you put me through / But I’m growing stronger the longer this takes / But my heart aches“. La title track Long Time Coming è una lunga cavalcata rock che sfiora i sette minuti. Ancora tanto spazio alla musica che arricchisce le melodie country del canto della Harber, “The least, the last, shall be first / And I’m still out of line / I’m speaking fire and getting burned / Until the smokes clears / I’m just blind leading blind“.

Long Time Coming è davvero un ottimo debutto. La scrittura e le atmosfere tipicamente country di Hannah Harber sono supportate dalla band The Lionhearts che ha un orientamento più rock. Un mix che regala all’album quel qualcosa in più che manca spesso ad alcuni album country. Questa cantautrice ha tutto il talento necessario per ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto in questo panorama musicale e Long Time Coming è il suo biglietto da visita. Purtroppo sono solo sette tracce ma sono sicuro si tratti solo di un inizio, e Hannah Harber ha tutto il tempo davanti a sé e, si sa, il buon country migliora con in tempo.

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Qualcosa di lento e dolce

Questo blog ha seguito la carriera artistica di Lily e Madeleine Jurkiewicz fin dal loro esordio nel 2013 con The Weight Of The Globe (Realtà e promesse sulla nuova strada), seguito lo stesso anno dal primo album omonimo del duo, Lily & Madeleine (Misteriose sparizioni). L’anno successivo è il turno di Fumes (Conigli, lupi e mentine) nel quale si intravedeva un progressivo distaccamento dalle sonorità folk in favore di altre più pop. Nel 2016, le due sorelle americane, tornano con Keep It Together (Luci e ombre) che conferma la loro svolta pop. Lo scorso mese è uscito il quarto album, dal titolo Canterbury Girls, nel quale scoprire l’ulteriore passo in avanti di queste due giovani cantautrici. Le premesse, ovvero i singoli che hanno preceduto l’album, rivelavano una sostanziale riconferma delle loro recenti scelte musicali, non senza qualche gradevole sorpresa.

Lily & Madeleine
Lily & Madeleine

Self Care è un splendida ballata pop soul, guidata dalla voce di Madeleine. Le difficoltà in amore sono da sempre fonte di ispirazione e le due sorelle sanno come metterle in musica. Un inizio che richiama gli esordi, soprattutto per la scelta del pianoforte, “I don’t need this to feel / Like I’ve become something real / Your beautiful eyes and your blank stare / I can’t make myself care“. La successiva Supernatural Sadness vira in direzione delle tranquille acque del pop, già esplorante in precedenza. In primo piano ancora l’amore, questa volta non è finita bene, che traccia una melodia malinconica e vagamente psichedelica, “Heavenly host, body’s a ghost / Isn’t it nice not to feel? / Supernatural sadness / Only ever brought me down with you / Magnetic madness / Vision of a heartbreak coming true / And I won’t be around / No, I can’t help you out / Supernatural sadness“. C’è ancora del soul in Just Do It. Questo sound è la vera novità di questo album e Lily & Madeleine dimostrano di trovarsi comunque a proprio agio, “A little less talk, a little more actin’ on it / Got no satisfaction, I don’t want it / I can’t stay too late / Enough is enough, no, I can’t quit / Too much wasted time, got it coming / I can’t wait, time to play“. La title track Canterbuty Girls è una delle canzoni più belle di questo album. Forse una delle canzoni più mature del duo, capaci di creare un’atmosfera notturna ed attraente. Triste al punto giusto, dove le voci leggere delle ragazze si fondono con una musica più grave. Da ascoltare, “Dancing moonlight muses all this time / I know there’s a limit but I don’t feel it, not tonight / Soaked in sunshine, don’t know where to be / But if you’re doin’ what I’m doin’, then we’re free“. Eterea e leggera la bella Bruises. La musica riecheggia sullo sfondo sul quale scivolano, morbide le voci delle sorelle Jurkiewicz. Un brano che ricalca le atmosfere del precedente album, “Looking at my skin, I can feel the imperfections / Tryna be with you and I see all my projections / I didn’t wanna be the only one who gets ya / But now you’re holding me, telling me I’m no better“. Ispirata da un viaggio a Tokyo, Pachinko Song è una bella cavalcata pop dalle tinte notturne. Si percepisce la sintonia della coppia ed una ritrovata ispirazione, “I’m scared my bitterness, written all over my face / Takes over everything / I ran through Tokyo hoping to find the place / Where only I could be, but I never found it“. Circles è una ballata che ricorda molto quelle di inizio carriera. Il pianoforte guida le due voci angeliche e calde delle ragazze. Ancora un amore difficile è protagonista di una canzone di questo album, “Got my body in a trance / Holding onto things I can’t stand / I’m tangled in a dance with the man I hate / Oh, faith isn’t my friend“. Il pezzo forte, anche il brano più pop, è Can’t Help The Way A Feel. Trascinante pop anni ’60 piuttosto inedito per la coppia. Una canzone orecchiabile non a caso scelta come singolo, “Something ‘bout you makes me wanna give you more than I ever gave / I try to keep myself together but I’m losing it anyway / I change my clothes and my hair / My friends tell me that I shouldn’t care, but I / Can’t help the way I feel“. Analog Love esprime il desiderio di una relazione vera, faccia a faccia, in un’era invasa dai rapporti vituali. Trovo bello che due ragazze giovani esprimano il desiderio di abbandonare, anche solo per qualche tempo, il mondo digitale, troppo freddo per far crescere un amore, “I want an analog love / Something slow and sweet / Give me an analog love / Wanna feel the Earth underneath our feet / ‘Cause nothing ever seems like it will last / With every passing day moving too fast / I want an analog love“. La ballata conclusiva, initolata semplicemente Go, è malinconica e poetica. Il pianoforte torna protagonista, la voce delle ragazze sempre spendida e melodiosa, cos’altro chiedere di più? “I let the flowers die / He said good things come in time / But good things never seem to comfort me / Even removed I say I’m sitting next to you / Like running isn’t part of my identity“.

Canterbury Girls è l’album che racchiude questi sei anni di una carriera appena iniziata ma già delineata da quattro album sempre ottimi, caratterizzati dallo stile unico della coppia Lily & Madeleine. Qui potrete trovare le loro ballate, le variazioni pop e un pizzico di soul che era mancato finora. Queste due sorelle sono molto giovani e hanno davanti a loro ancora molto tempo per osare qualcosa di diverso. In realtà, ascoltando il loro esordio si può percepire che questo cambiamento è già avvenuto, in maniera così graduale che è stato quasi impercettibile in questi anni. Ma Canterbury Girls sembra voler tirare una riga e delimitare il passato dal futuro del duo, un album di transione come di usa dire. Chissà cosa ci riserveranno nei prossimi anni ma ciò che ci fa ben sperarare è la perfetta affinita di sorelle e l’innato talento che entrambe posseggono. Tutto il resto è da scoprire e io non mancherò di esserci quando un nuovo passo sarà compiuto dalle sorelline Lily & Madeleine.

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Mali minori e melodie morte

Risale al 2012 l’esordio solista del cantautore canadese Jon Samuel che con l’album First Transmission (La prima trasmissione di Jon) si faceva conoscere al di fuori della band Wintersleep, di cui ne fa parte dal 2006. Questo gruppo canadese ha un posto speciale nella mia musica e proprio prima dell’uscita del loro nuovo album, ecco che Jon Samuel dà alla luce Dead Melodies, il secondo disco in solitaria. Il suo esordio fu per me una sorpresa, un album davvero ben fatto, dalle sonorità indie ma anche profondamente cantautorale. Non sapevo cosa aspettarmi da questo nuovo album ma non ho esitato un istante ad ascoltare questo artista che di sicuro sa fare musica al di là di generi e definizioni.

Jon Samuel
Jon Samuel

Si parte subito con il trascinante indie rock di Another Lie. Sommersa dal suono distorto delle chitarre si fa spazio la voce inconfondibile di Samuel. Tanto ritmo ma senza rinunciare alla melodia, con un’attenzione particolare al testo, “I got out of bed / Opened up the blinds / i saw a man walking / Into the drugstore / He had no shoes / Wore bandages on his feet / I must confess I’ve never been there / For people in need“. La title track Dead Melodies alza il tiro e la voce sprofonda ancora di più in una nebbia di suoni distorti. Jon Samuel trova però il modo di emergere grazie ad ritornello orecchiabile molto indie rock, “We’ve come face to face / With the doldrums of our age / Falling in love with the chase / Afraid to be out of place / Running the rat race / Black death and / Dead melodies dead melodies / Ringing in my head“. Tra le migliori dell’album, la bellissima Modern Lovers. In linea con le sonorità dell’album d’esordio, Jon Samuel, sfodera tutta la sua poesia e sensibilità di cantautore, accompagnato quasi esclusivamente dal suono di una chitarra. Un testo oscuro e fatto di immagini vivide, “Mother nature and father time / They could not nurture / We’ve cracked their spines / They’re ancient myths / And modern lies / In a Petri dish / Leading clandestine lives“. La successiva To Repel Ghosts si affida ritmo per guidare il canto sottovoce di Samuel. Ancora un testo criptico e dalle tinte scure ma che incanta l’ascoltatore, “Coffin keyhole pupils / Speakers for the dead / Sifting through delirium / Lacking hospice for a collapsed lung / A knife to puncture breathing holes“. Lesser Evils è il pezzo più forte dell’album. Un brano pop rock dalle sonorità anni ’80, che fa presa fin dalle prime note. Qui Jon Samuel dimostra di sapersi muovere anche al di fuori di territori vicini al rock, facendoci anche un po’ ballare, “I’ve lost to the lesser evils / But they don’t deceive me / Machination lies / I’ve lost to the lesser evils / If you don’t believe them / The congregation dies“. Salvo poi tornare ad un marcato sound rock con Unlovable. Una canzone rabbiosa ma mai eccessiva, sempre tirata, e ben scritta. Qui si può notare la particolare abilità di songwriting di Samuel, “You won’t find love sleeping / In the backseat of your car / You paint pictures in the windows with your breath / Laying waste to all your old friends / Your frostbitten skin / Your lips turn a deathly blue / As the universe dies you wonder / If you were ever really you“. Ormai la strada è aperta e Sister Outsider segue le orme della canzone precedente. Jon Samuel scrive un’altra canzone affascinate per il suo carattere oscuro e criptico, ma incredibilmente accattivante, “Headphones on / Protomartyr splitting my ears / Dressed all in black like an afro punk / Could’ve been this for years / Summertime crush summertime blues / Got no time for tears / Gonna sit at the bar / Pixelate my social fears“. Heels Of The World è una lenta cavalcata rock pervasa da immagini di un modo violento, nel quale sembra non esserci speranza per il futuro, “Collecting knives for the cue / Violent scenes wash through your dreams / Can you hear the voices calling you / To disinfect disaffected youth / The gnawing blood dripping dagger tooth / A holy hunger ravaging truth / Words that crumble from your mouth / Come to choke you while you sleep“. Questo Jonny protagonista in Jonny Panic And The Bible Of Dreams è un ragazzo schiacciato dal nostro tempo che vuole trovare redenzione nella musica. Una bella canzone per chiudere l’album, “Johnny Panic wants to get his shit together / Start a punk band and carry on that way / He says pop music has gone from the cradle to the grave / And the hangman’s noose is in the hands of a DJ“.
Dead Melodies offre una prospettiva diversa della musica di Jon Samuel ascoltata nel primo First Transmission. Il sound è più sporco e dark, così come le tematiche al suo interno. La bravura di Samuel è quella di non lasciare sprofondare l’ascoltatore nel buio ma di tenerlo in un limbo affascinante. Il lento processo creativo, che ha portato alla nascita di questo album, si nota nella scelta di ogni singola parola e delle sue melodie che vanno ad incastrarsi perfettamente con le scelte musicali (supportate anche da Loel Campbell, batterista dei Wintersleep). In definitiva Jon Samuel crea un disco ancora una volta sorprendente e ben scritto. Non lo faccio spesso, solo in rare occasioni, ma il consiglio è quello di ascoltare tutto l’album per scoprire davvero la musica di questo artista.

 

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Allora, ragazzo, che ti è successo?

Ho impiegato quattro mesi per finire questo libro ma ne è valsa la pena. Infinite Jest è un romanzo del 1996 di David Foster Wallace e la sua caratteristica per cui è famoso è che è parecchio lungo e ricco di note. Ma soprattutto è considerato il capolavoro dell’autore americano morto suicida nel 2008. Non voglio e non posso fare una disamina dei temi trattati in questo libro ma vorrei solamente convincervi a leggerlo, se non l’avete ancora fatto, e allo stesso tempo avvisarvi di quello che ci troverete dentro.

Da dove posso cominciare? Partirei dal titolo del libro, Infinite Jest, che è il titolo di un film del regista James O. Incandenza padre di uno dei principali protagonisti, Hal Incandenza appunto. Chiunque lo guardi non riesce più a smettere di vederlo, diventando di fatto dipendente da esso fino alla morte. Il romanzo è ambientato in un futuro di poco successivo agli anni ’90 ma nel quale gli anni perdono la loro numerazione e sono sponsorizzati. La maggior parte delle vicende si svolge nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend e vede numerosi protagonisti che si alternano guadagnandosi ciascuno il proprio spazio. La città che ospita i due luoghi principali, la Ennet House e la Enfield Tennis Academy (ETA), è quella di Boston, Massachusetts. La Ennet House è una casa di recupero per tossicodipendenti ed è poco lontana dall’ETA, accademia di tennis fondata proprio dal regista J.O. Incandenza¹. Hal è il personaggio intorno al quale si svolgono le vicende all’interno dell’accademia caratterizzata da una disciplina piuttosto rigida che non contempla gli insuccessi. L’altro personaggio principale è Don Gately, ex rapinatore dipendente dagli antidolorifici, residente e consigliere della Ennet House. Un omone fondamentalmente buono al quale è facile affezionarsi. Alla Ennet entra anche Joelle Van Dyne, conosciuta con il suo nome d’arte Madame Psychosis e nota anche come la Più Bella Ragazza Di Tutti i Tempi all’interno del romanzo. Non dico altro su di lei per non rovinarvi il piacere della lettura². Non posso citare qui, per lo stesso motivo, tutti i coloriti personaggi che popolano la casa di recupero e le loro storie.

Questi due mondi apparentemente opposti sono in realtà molto vicini (non solo fisicamente). Entrambi nascondo storie tristi e esperienze dalla dipendenza, non solo da sostanze ma anche dal successo. I numerosi personaggi che si affacciano in questo libro sono divisi in queste due parti ma andando avanti nella lettura alcuni di essi finiscono per toccarsi, intrecciando le loro storie e definendo un quadro generale sempre più chiaro. Ma non illudetevi troppo. Tutto questo non porterà da nessuna parte. Ad un certo punto troverete la parole FINE che chiude tutto senza ulteriori spiegazioni e i suoi personaggi vi mancheranno da morire, credetemi.

David Foster Wallace ha scritto Infinite Jest con l’intento di fare un romanzo triste. Il risultato è più vicino al tragicomico. In realtà l’impressionante talento di scrittore di Wallace gli permette di cambiare registro (triste, comico, satirico, sensibile, volgare) nel giro di poche righe. Vi ritroverete a sorridere per un episodio divertente per poi rimanere anche disgustati per alcuni passaggi piuttosto forti. Wallace non risparmia storie di abusi, violenza e ovviamente tossico dipendenza, prevedendo in modo lucido e impressionante la diffusione delle droghe pesanti tra gli adolescenti. Sempre con una maniacale ricerca del dettaglio, senza mai risultare noioso o ripetitivo. Altra previsione ancora più esplicativa del genio di Wallace è la diffusione dei video di intrattenimento ben prima dell’avvento di YouTube e dello streaming. I protagonisti posso scegliere quando e cosa vedere. I video, spesso brevi, sono disponibili su cassetta e conducono alla fine della televisione degli anni avanti sponsorizzazione (A.s. nel libro). Wallace si chiede se davvero questa forma di intrattenimento che lascia libera scelta sia la cosa migliore per lo spettatore, che finisce per non vedere altro che cose simili una con l’altra, alimentando così una sorta di dipendenza. Il romanzo stesso mette alla prova il concetto di intrattenimento. Tante storie, personaggi, intrecci ed argomenti, che fanno crescere la tensione della narrazione ma che non giungono mai ad una vera conclusione. Può essere frustrante leggere Infinite Jest, davvero.

Si potrebbero scrivere pagine e pagine riguardo agli argomenti trattati in Infinite Jest e delle decine di personaggi e delle loro storie ma nulla è paragonabile alla lettura di questo romanzo. Ognuno di noi si riconoscerà in almeno uno dei suoi protagonisti e apprezzerà l’incredibile abilità di Wallace nel creare situazioni e sensazioni. Se qualcuno mi dovesse chiedere con quale persona scomparsa mi piacerebbe fare una chiacchierata, David Foster Wallace sarebbe in cima alla lista. Oggi avrebbe 57 anni e sono sicuro averebbe una visione della società di oggi molto più chiara di noi. Trovate molte sue interviste in rete e leggerle oggi fa davvero un certo effetto notare come fosse in anticipo sui tempi. Un vero genio della letteratura che ha realizzato con Infinite Jest una delle opere più complesse e allo stesso tempo cult del secolo scorso³.

1. Dovrete abituarvi alle abbreviazioni, acronimi e soprannomi (e alle note come questa). Ce ne sono tanti. Ad esempio la famiglia Incandenza, composta dalla madre Avril (detta la Mami), i suoi figli Hal, Orin e Mario, si riferiscono al padre James O. Incandenza come Lui In Persona o La Cicogna Triste. Lo stesso film Infinite Jest compare nel romanzo come l’Intrattenimento o samizdat.
2. Sappiate solo che va in giro con un velo che le copre il volto. Non è chiaro se è perché è troppo bella (e questo potrebbe causare qualche problema in chi la guarda) o perché un tempo era bella e poi è rimasta sfigurata. Resta uno dei tanti misteri del romanzo.
3. Siccome questo è un blog dove si legge principalmente di musica, c’è il video della canzone dei The Decemberists intitolata Calamity Song che riproduce la partita di Eschaton (una sorta di risiko molto complesso giocato sui campi da tennis) che ha un ruolo centrale nelle vicende dell’ETA e di Hal. Una ricostruzione davvero molto fedele e accurata, quasi commovente.

In questo vecchio paese

Il nome di Andrea von Kampen non è nuovo su questo blog. Infatti il suo EP di esordio intitolato Desdemona risale al 2016 e aveva dato un assaggio delle doti di cantautrice di questa ragazza americana. Per lei è giunto il momento di misurarsi con il suo primo album, dal titolo Old Country. Sei tracce originali scritte dalla von Kampen, più una cover ed un brano tradizionale, compongono questo esordio dalle tinte folk, influenzate dalle sonorità dei grandi maestri (come Bob Dylan) del cantautorato a stelle e strisce. C’è tutto quello che piace a me e dunque non vendo motivo per conoscere meglio quest’artista.

Andrea von Kampen
Andrea von Kampen

L’album si apre con la triste Tomorrow, un indie folk incentrato sulla voce eterea della von Kampen. Si delinea subito l’atmosfera di questo album e l’essenzialità delle scelte musicali, straordinariamente evocative, “How long till you unlock the cage? / How long till their free from their pain? / How long can the blood stain the hands / Of greedy men with greedy thoughts in their head?“. Teton si affida alle atmosfere malinconiche del folk americano. Andrea von Kampen, con la sua voce pulita, mette in luce le sue ottime capacità di scrittura, “I got off at Jackson Hole / There was a nice strong man in a blue strong coat / He said I’ll help you / Mama said, ‘beware of nice men / Funny thing is they never seem to listen’“. Il singolo Portland è una delle canzoni più belle di questo album. Ancora un po’ di nostalgia ben mescolata con un senso d’amore e speranza, lasciano a chi ascolta una bella sensazione, “Nobody cares if the foundation’s cracked / As long as it looks good when somebody asks / Yet I’ve got a man who loves me despite what I lack / We’re goin’ to Portland, Oregon if anyone asks“. La successiva Try richiama alla memoria le sonorità dell’EP di debutto. Un testo poetico e incredibilmente maturo che conferma le ottime doti di songwriting della von Kampen, accompagnata dal suono del violino. Da ascoltare, “Yes I’ll try, do my best / Can’t promise I’ll always be kind / But I’ll try, do my best / Can’t promise we’ll always see eye to eye / But I’ll try“. Julia racconta di un amore e di un’attesa vana con una leggerezza che rischiara i colori della prima parte dell’album. La cantautrice americana dimostra di essere a suo agio anche in questa occasione, “Julia moves to the city to find a new kind of memory / clear her mind / And the sun goes down, and the sun goes down / She won’t find another / Julia is hung up on her lover“. Wildwood Flower è un tradizionale canzone country trasformata dalla von Kampen in una ballata folk malinconica. Davvero una scelta azzeccata, impreziosita dal violino, “Oh I’ll twine with my mingles and waving black hair / With the rose so red and the lilies so fair / And the myrtles so bright with the emerald dew / The pale and the leader and eyes look like blue“. La title track Old Country è una sorta di preghiera cantata dalla von Kampen con il cuore. Una delle canzoni più emozionanti dell’album, una prova del suo talento, “Working longer in the fields these days / With nothing to hold on to / Except a Mama laying flat in a daze / Praying and pleading for you / Old country, why did you let him leave?“. If You See Her, Say Hello è una bella cover dell’originale di Bob Dylan. Non si sbaglia mai a fare una cover di Dylan e Andrea von Kampen non si allontana molto all’originale, aggiungendo solo una spiccata sensibilità tipicamente femminile, “If you get close to her kiss her for the kid / Who always respected her for doin’ what she did / Oh, I know it had to be that way it was written in the cards / Though the bitter taste still lingers on it all came down so hard“.

Arrivati in fondo ad Old Country si ha la sensazione aver appena ascoltato un’artista di indubbio talento che, in particolare per le canzoni originali, riesce ad incantare per la semplicità con la quale queste canzoni sembrano essere state scritte. Chi ascolta non può fare a meno di ammirare la capacità di Andrea von Kampen di tratteggiare immagini ed emozioni con straordinaria chiarezza. Non c’è una ricerca di grandiosità o sorpresa ma un costante tentativo di racchiudere, attraverso le parole e la musica, qualcosa che sarebbe difficile spigare altrimenti. Old Country nonostante la sua breve durata, ci rivela senza dubbio una giovane cantautrice dal talento cristallino, nascosto in parte ancora dall’eco di chi l’ha preceduta ma pronto a brillare presto.

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Mi ritorni in mente, ep. 59

Non sono solito ascoltare album esclusivamente strumentali ma questa volta ho voluto provare a farlo. La tradizione musicale scozzese non è fatta solo di ballate ma anche da musiche composte per lo strumento musicale nazionale, ovvero la cornamusa. La giovane musicista scozzese Brìghde Chaimbeul (nome in gaelico che si pronuncia Bree-CHU, come in “church” Campbell) originaria della bella Isola di Skye, è al suo debutto con l’album The Reeling. Undici brani tratti dalla tradizione della sua terra e da quella bulgara, da ascoltare ad alto volume per poterne apprezzare tutti i livelli musicali di cui è composto. Non c’è solo il suono della cornamusa, suonata dalla Chaimbeul, ma quello del violino di Aidan O’Rourke, della concertina (una piccola fisarmonica) di Radie Peat e della voce della cantante scozzese Rona Lightfoot, che con in suoi ottantadue anni è una maestra del cosiddetto canntaireachd, un particolare tipo di canto che attraverso le parole vuole imitare il suono della cornamusa.

Qui sotto un assaggio di questo meraviglioso album, che si potrebbe definire incantevole, per come evoca paesaggi sconfinati. Brìghde Chaimbeul riesce davvero a catturare l’attenzione di chi ascolta, dando nuova forza alla tradizione.