Non mi lascerai entrare con questo tempo

Esattamente dieci anni fa debuttavano con l’EP The Weight Of The Globe, seguito dall’album omonimo del duo, le sorelle Jurkiewicz, note con il nome Lily & Madeleine. Questo mese hanno pubblicato il loro quinto album, Nite Swim, a distanza di quattro anni dal precedente. Le sonorità folk degli esordi sono ormai un ricordo e il loro posto è stato preso da un indie pop etereo e disteso. I singoli che hanno anticipato questo disco confermano la scelta di proseguire per la strada intrapresa ma gli anni passano e, ascolto dopo ascolto, Nite Swim, rivela un cambiamento, a tratti impercettibile, ma presente.

Lily & Madeleine
Lily & Madeleine

Canzoni come Windowless Bedroom e Rolling Rock lasciano intendere che c’è continuità con il precedente album Canterbury Girls, a partire dal tratto più caratteristico, ovvero l’armonia della due voci. La title track Nite Swim si affida ad un’essenziale indie pop nel tipico stile del duo, con l’aggiunta di distorsioni a contrasto. Un po’ di rock lo si ritrova anche successivamente e in maniera più marcata in Good Things e nella poetica Embers. La conclusiva Lost Boys mescola pop e rock, addolcito dalla voce morbida della sorelle. Nonostante tutto però, il folk prova a riemergere nella bella Ocean Ave e sottotraccia anche nell’affascinante Decaying Rules. L’elettronica non manca e si fa sentire in Part Of Me o nella sfuggente Cologne.

Nite Swim ci offre la possibilità di ascoltare Lily & Madeleine in una varietà di forme più ampia di quanto sia stato possibile finora ma non è questo a rendere l’album diverso dai precedenti. C’è un cambiamento più profondo ed inevitabile. Queste due ragazze appaiono artisticamente più mature, consapevoli e coraggiose, intenzionate a lasciarsi alla spalle l’immagine di giovani promesse. Sì, Nite Swim è l’ennesimo passo in avanti per le sorelle Jurkiewicz, un passo verso un’identità sempre più definita, che in questa occasione, come mai prima, riparte anche dagli esordi, abbracciando un processo di crescita inesorabile che le vede sempre più padrone del loro destino.

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Solo due secondi

Cosa poteva offrire un’artista come Lana Del Rey dopo i due album, entrambi pubblicati nel 2021? Viene spontaneo chiederselo, perché in fin dei conti sono passati solo due anni da allora. Davvero Elizabeth Woolridge Grant è in un tale stato di grazia da riuscire a realizzare tre album in tre anni? La risposta è possibile trovarla nel nuovo e lungo (a partire dal titolo) Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd. Quello che si potrebbe considerare il nono album della sua carriera è anche il più lungo in termini di durata (poco dietro a Lust For Life) ma non per numero di tracce. Per questo motivo non capisco chi si sorprende della sua lunghezza, Lana Del Rey del resto ci ha abituati a i suoi album infiniti. Come ad ogni uscita, quest’artista americana mi mette nella condizione di sospettare che la sua deriva pop (ma davvero compiutasi) sia dietro l’angolo. Ma all’età di trentasette anni e l’influenza che ha avuto nella musica internazionale possono ancora farmi dubitare di lei?

Lana Del Rey
Lana Del Rey

The Grants è una canzone ricca di ricordi, dalle tipiche caratteristiche della Del Rey, che ci delizia con sua voce che galleggia sulle note del pianoforte. La title track Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd si ispira al Jergins Tunnel per dare vita alla classica canzone riflessiva e malinconica ma sempre ben riuscita. Sullo stesso solco procede la bella Sweet dalle atmosfere dolci e romantiche. A&W, contrazione di American Whore, è di tutt’altro tenore e ad affronta in oltre sette minuti i ricordi di una vita e la dipendenza dal sesso. Una canzone essenziale divisa in due parti, di cui l’ultima elettronica e dal gusto hip-hop. La controversa Judah Smith Interlude è la registrazione di un sermone del pastore vip Judah Smith. Una di quelle cose tipicamente americane, un po’ eccessive. Segue Candy Nacklace nella quale la Del Rey torna in territori più congeniali, collaborando con il musicista jazz Jon Batiste, che ritroveremo subito dopo nel dialogo a due intitolato Jon Batiste Interlude. Kintsugi ci restituisce una Del Rey particolarmente malinconica e nostalgica, seguita a ruota da Fingertips che rimane nella sua comfort zone almeno musicalmente. Il testo invece è un flusso di coscienza, senza filtri che impressiona per le sue immagini semplici ed immediate, reali e incredibilmente vicine. Lana non si fa mancare qualche sperimentazione con Paris, Texas, campionando I Wanted To Leave di SYML così com’è. Ancora la famiglia e ricordi sono al centro delle canzoni di questo album e Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing non fa eccezione. Il pensieri corrono al padre e al nonno in un ritratto familiare e malinconico, quasi una preghiera. In Let The Light In ritroviamo Father John Misty in un duetto su una relazione clandestina. Margaret vede la partecipazione del produttore Jack Antonoff ed è dedicata alla sua fidanzata Margaret Qualley. Una canzone intima e sincera, tra due amici. Fishtail riprende il tema della famiglia e dei ricordi nel tono sussurrato, non certo nuovo per la Del Rey, con l’aggiunta di un beat che ricorda i suoi esordi. Peppers si avvale della partecipazione della rapper Tommy Genesis che presta a Lana la sua Angelina per una canzone tutto sommato orecchiabile. L’album si conclude con Taco Truck x VB anch’essa divisa in due parti, nella seconda Lana cita sé stessa riproponendo una nuova versione della sua Venice Bitch.

Probabilmente per la prima volta nel corso della sua produttiva carriera, Lana Del Rey, si concede il lusso di guardarsi indietro e rimettere insieme i pezzi della sua vita musicale e non. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd ci propone un’artista che ormai da tempo a smesso i panni di pop star, non mancando di essere provocatoria quanto basta per rimanere nel personaggio (la foto in topless e le pose ammiccanti sono parte di esso). Ma poi emergono come sempre le debolezze, le insicurezze e i momenti difficili che Lana non ha mai nascosto. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd rappresenta una Del Rey che gioca a fare la Del Rey perché semplicemente è l’unica che se lo può permettere, anche sfruttando campionamenti e collaborazioni alla moda. Vi viene in mente un’altra artista, negli ultimi quindici anni, così riconoscibile e in grado di influenzare le generazioni a venire? Personalmente faccio fatica a trovare un altro nome. Di Lana Del Rey ce n’è una sola e ancora una volta fa la cosa giusta, rifilandoci l’ennesimo album lungo, lento e delreynesco ma del quale non ne possiamo fare a meno. Ah, e la risposta è sì, è in un tale stato di grazia da riuscire a realizzare tre album in tre anni.

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C’è vita laggiù nei posti più bui

Ho un ricordo legato all’album Dear Happy della cantautrice inglese Gabrielle Aplin: è stato uno degli ultimi album che ho ascoltato prima che l’epidemia cambiasse improvvisamente le nostre abitudini. L’album infatti risale a fine gennaio di quell’anno che tutti noi ricordiamo ma sono passati più di dieci anni da quando ascoltai per la prima volta quest’artista. Più passano gli anni e più si avvera il mio desiderio di partecipare al processo di crescita di un artista nel corso della sua carriera. Per la Aplin è arrivato il momento del suo quarto album, intitolato Phosphorescent. Dopo le vaghe contaminazioni folk degli esordi è passata più o meno rapidamente ad un pop cantautorale dal gusto squisitamente british. Con Dear Happy la svolta pop è stata decisamente più marcata e appariva più come la fine di un capitolo piuttosto che l’inizio di uno nuovo. Questo nuovo album, fin dai primi singoli, si è mostrato più maturo ed introspettivo rispetto al suo predecessore.

Gabrielle Aplin
Gabrielle Aplin

Phosphorescent non si discosta molto dal pop proposto dalla Aplin in questi ultimi anni e canzoni come Skylight, Take It Easy e Don’t Say, che poggiano su beat elettronici e ritornelli orecchiabili, si lasciano ascoltare più volentieri. In brani come Good Enough o l’ottimo singolo Call Me si possono riascoltare le sonorità più intense e leggere per le quali quest’artista ha sempre avuto particolare abilità nel dar loro equilibrio, anche grazie alla voce morbida e innocente. Non mancano canzoni nel quali emerge un sound pop soul come in Anyway o Wish Didnt Press Send che per lo meno ci offrono qualcosa di diverso da parte della Aplin. Spazio anche a ritmi danzerecci con Never Be The Same che scorre via senza pensieri, ripercorrendo il solco tracciato dal precedente Dear Happy. Per trovare l’anima di questo album bisogna cercarla in canzoni come Don’t Know What I Want o l’ottima Mariana Trench nelle quali la nostra si spoglia di qualsiasi orpello pop e scava dentro sé stessa. In quest’ultima in particolare, la voce della Aplin è sola con il pianoforte, come in passato è già successo e con ottimi risultati. Le atmosfere distese e effimere si ritrovano anche in Half In Half Out che incanta dando il giusto spazio all’influenza di un pop moderno e giovane.

Nonostante le apparenze, Gabrielle Aplin non è più una ragazzina e questo Phosphorescent in qualche modo sembra voler sottolineare questo passaggio importante. La spensieratezza lascia spazio alla riflessione ma non necessariamente alla tristezza o alla malinconia. La sua voce educata è tratto che più caratterizza le canzoni nelle quali ritrovano, in parte, le sonorità e le influenze degli esordi. Gabrielle ripercorre con Phosphorescent la strada intrapresa nel 2015 con Light Up The Dark (il mio preferito in assoluto tra i suoi) e successivamente smarrita, in alcune occasioni, nella ricerca di un pop moderno ma spesso poco personale e prevedibile. Phosphorescent è dunque un album ben riuscito che, tra alti e bassi, ci restituisce una Gabrielle Aplin ispirata e sulla via di una maturità artistica da tempo ricercata. Resta inteso che lei avrà sempre un posticino speciale tra la mia musica, che si è conquistato negli anni nonostante il suo non sia tra i miei generi preferiti. Per questo ha doppiamente il merito di esserci riuscita.

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Meglio tardi che mai, ep. 2

Prima di che finisca anche quest’anno ho deciso di raccogliere qui qualche uscita che avrebbe meritato un post dedicato su questo blog. Purtroppo non è stato possibile nelle scorse settimane ma ora è arrivato i momento di rimediare. Ecco dunque qualche consiglio. Sarò breve, lo prometto, lascio spazio alla musica.


Fritillaries è un progetto della cantautrice folk Hannah Pawson che debutta con l’omonimo Fritillaries. Insieme al musicista Gabriel Wynne, propone un folk moderno ma allo stesso tempo non lontano dalla tradizione inglese. L’album è davvero molto bello e vario. Atmosfere distese e malinconiche vi accompagneranno lungo tutta la sua durata. Un nome da tenere presente in futuro.


Per la cantautrice canadese Rosie Valland, il nuovo Emmanuelle rappresenta il suo terzo album, nonché la conferma dei quanto ci ha fatto ascoltare con il precedente BLUE. Il suo è un pop moderno nel quale non mancano sperimentazioni ma in più occasioni si dimostra anche capace di creare melodie orecchiabile e accattivanti, come nel caso di Attiser le dilemme.


Quest’anno ha visto anche il ritorno di una delle voci più belle del folk scozzese, ovvero quella di Siobhan Miller. Nel suo nuovo album Bloom, riunisce la band che l’ha accompagnata nel fortunato Strata, portando nuova linfa ai brani tradizionali e cover contemporanee. La voce della Miller è sempre perfetta e pulita in questo album nel quale si respira l’amore per il folk in tutte le sue sfumature.


Andrea von Kampen è una cantautrice folk americana che debutta ora anche come attrice nel film A Chance To Encounter. Nel film interpretata una cantautrice folk che trova l’amore in Italia, più precisamente a Taormina. Le canzoni del film, interpretate dalla von Kampen, sono raccolte in un EP omonimo del film. In attesa di vedere il film (molto probabilmente disponibile solo in lingua originale) si può ascoltare questa manciata di canzoni davvero piacevole, nello stile delicato di quest’artista.

Welch la Rossa, il diavolo e la voce d’oro

Dieci anni. Tanto è passato da quando sono stato catturato e portato nel mondo magico di Florence +The Machine, la band progetto capitanata da Florence Welch che nel 2009 ha debuttato con l’acclamato Lungs. Il quinto album, intitolato Dance Fever, è uscito lo scorso maggio a quattro anni di distanza dal precedente High As Hope che aveva ulteriormente consolidato il sound della band. Cosa aspettarsi, dunque, da questa nuova fatica, nata nei lunghi anni di pandemia? In generale da Florence +The Machine non ci si aspettano sorprese ma un pop di qualità, riconoscibile e affascinante. Non resta che ascoltare e tornare di nuovo alla corte della regina rossa.

Florence Welch
Florence Welch

King apre le danze, con la voce inconfondibile della Welch che corre sinuosa sulle pulsazioni della musica. Una canzone profondamente personale che affronta le insicurezze e le consapevolezze della propria età, “I need my golden crown of sorrow / My bloody sword to swing / My empty halls to echo with grand self-mythology / I am no mother / I am no bride / I am king“. I mostri che albergano nell’animo emergono in Free che corre con ritmo sincopato. Le sonorità ci riportano agli esordi e ci ricordano perché questa band è così amata da allora, “I’m always running from something / I push it back, but it keeps on coming / And being clever never got me very far / Because it’s all in my head / “You’re too sensitive” they said / I said “Okay, but let’s discuss this at the hospital”“. Choreomania sottolinea in modo marcato il tema di fondo dell’album, la mania di ballare, un’ossessione irresistibile. Una canzone che va in crescendo, avanzando lenta ma costante, guidata dall’energia della Welch, “And I am freaking out in the middle of the street / With the complete conviction of someone who’s never had anything actually really bad happen to them / But I am committed now to the feeling“. La successiva Back In Town segna un momento più riflessivo e malinconico. Una canzone insolitamente scarna ed essenziale per la band, sorretta dalla voce della sua leader, “I’m back in town, why don’t we go out / And never go to sleep? / Throw our dreams out, let them pile up on the streets / I thought that I was here with you / But it was always just an empty room / ‘Cause it’s always the same“. Girls Against God continua sulle stesse sonorità ma il testo è molto personale e frammentario. Florence si lascia andare a ricordi ed immagini del passato, e lo fa con passione e sensibilità, “And it’s good to be alive / Crying into cereal at midnight / If they ever let me out, I’m gonna really let it out / I listen to music from 2006 and feel kind of sick / But, oh God, you’re gonna get it / You’ll be sorry that you messed with this“. La successiva Girl Dream Evil vira verso un pop rock in pieno stile della band. Le atmosfere oscure ribaltano il mito della ragazza dei sogni, “Am I your dream girl? / You think of me in bed / But you could never hold me / And like me better in your head / Make me evil / Then I’m an angel instead / At least you’ll sanctify me when I’m dead“. Preyer Factory è un breve intermezzo di poco più di un minuto che concede pieni poteri alla voce della Welch, “All the things that I ran from / I now bring as close to me as I can / Ripping hotel sheets with gritted teeth / My montage of lost things / My shiny trinkets of grief“. Cassandra sembra una riflessione, tra realtà e immaginazione, del periodo difficile del lockdown. Un mondo fermo dove ognuno era solo e perso,”Well, can you see me? / I cannot see you / Everything I thought I knew has fallen out of view / In this blindness I’m condemned to / Well, can you hear me? / I cannot hear you / Every song I thought I knew, I’ve been deafened to / And there’s no one left to sing to“. Heaven Is Here è un’altra canzone personale con chiari rifermenti alla carriera di artista. Breve nella durata e scarna ma originale nell’accompagnamento, “And I ride in my red dress / And time stretches endless / With my gun in my hand / You know I always get my man / And every song I wrote became an escape rope / Tied around my neck to pull me up to Heaven“. Tra le mie preferite c’è la bella Daffodil. Qui sente la versione più epica, quasi mistica dei Florence + The Machine. Tutto è ben bilanciato e ispirato. Da ascoltare, “There is no bad, there is no good / I drank all the blood that I could / Made myself mythical, tried to be real / Saw the future in the face of a / Daffodil / Daffodil“. Il singolo di punta dell’album, nonché la canzone più in linea con la consueta produzione, è sicuramente My Love. C’è poco da aggiungere, la classe e lo stile della Welch sono qui, “I was always able to write my way out / Song always made sense to me / Now I find that when I look down / Every page is empty“. Nemmeno un minuto per Restraint, nella quale Florence canta con voce sommessa pochi versi, “And have I learned restraint? / Am I quiet enough for you yet?“. Cambio di passo con The Bomb. Nonostante il titolo faccia presagire altro, ci troviamo invece di fronte ad un lento dalle tinte classiche. Una canzone d’amore come di deve, “I’ve blown apart my life for you / And bodies hit the floor for you / And break me, shake me, devastate me / Come here, baby, tell me that I’m wrong / I don’t love you, I just love the bomb“. Si chiude con Morning Elvis. Una canzone dolorosa e triste, che sembra raccontare le difficoltà di essere un’artista e soffrire sul palco come l’ultimo Elvis, “Well, pick me up in New Orleans / Pinned in a bathroom stall / Pick me up above my body / Press my corpse against the wall / I told the band to leave without me / I’ll get the next flight / And I’ll see you all with Elvis / If I don’t survive the night“.

Dance Fever è un album figlio del suo tempo che ci riporta ad una Florence Welch più umana, per così dire. Le incertezze, le insicurezze e la voglia di riscatto di questi tempi emergono da ogni strofa. Non c’è volontà di sperimentare per i Florence + The Machine, se non in brevi e rare occasioni, ma l’ennesimo tentativo riuscito di mantenere sempre alta la qualità delle loro canzoni. Questo è stato finora il loro segreto: fare sempre delle ottime canzoni, senza forse prendersi dei rischi ma del resto non hanno nemmeno il bisogno di farlo. Non ne ha bisogno Florence Welch, che si dimostra ancora un’artista irraggiungibile ma meno dea e sempre più mortale.

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C’est parfait si l’on tremble

Non è passato molto tempo da quando la cantautrice canadese Béatrice Martin ha voluto dare alla luce un album esclusivamente strumentale, eppure ecco qui tra le mani il suo quinto album. Cœur de pirate, questo il suo nome d’arte, è tornata con dieci canzoni pop raccolte sotto il titolo di Impossible à aimer. Lo fa affidandosi ancora alla lingua francese, abbandonando definitivamente quella inglese con la quale aveva flirtato del 2015. Cœur de pirate è una cantautrice pop dalla spiccata vena compositiva, spesso sincera, capace di sfornare canzoni orecchiabili ma allo stesso tempo poetiche e profonde. Sarà stata in grado di ripetersi ai livelli fin qui raggiunti? Non resta che ascoltare Impossible à aimer.

Cœur de pirate
Cœur de pirate

Une chanson brisée richiama alla memoria le sonorità degli esordi. Il pianoforte, la voce melodiosa e malinconica. Una canzone per un amore finito male, una canzone rotta per chi non si merita altro. Strano modo di cominciare un album, “Mais qu’importe tu m’aimes oui / Ça justifie tous tes oublis / Mais qu’importe le temps joue / Une chanson sur mes plaies qui s’entrouvrent / Tu sais que j’en ai plus qu’assez / T’es con en plus t’as pas compris / Que j’allais plutôt te laisser / Tu ne mérites qu’une chanson brisée, désolée“. Con On s’aimera toujours si torna prepotentemente al pop. Lo stile è quello della Martin, il testo è schietto, tutto è perfetto. Un singolo che funziona con un ritornello che è una gioia per le orecchie, “Et je sens mon cœur s’étendre / Quand mes yeux se fondent au vert des tiens / Si le passé nous secoue tu sais / C’est qu’on pense au lendemain / Si on revit de nos cendres / C’est parfait si l’on tremble“. Une complainte dans le vent è una ballata pop che corre sulle note di una chitarra. Ancora una canzone d’amore, ancora un amore finito. L’interpretazione della Martin è impeccabile, sempre venata di una dolorosa malinconia, “Je longerai l’anse vers toi, pour tes soupirs / Les rives d’un fjord m’attendent, j’en perds mes vivres / Je ne comprends plus pourquoi on ne chantait plus / Une complainte dans le vent / Mon amour perdu“. La successiva Le Pacifique è un pop leggero ed impalpabile in contrasto con le immagini che evoca il testo. Una delle canzoni più belle di questo album, con un altro ritornello a dir poco perfetto, “Mais moi je t’attendrai là-bas / Sur les rives, morte de froid / Dans l’espoir que j’ai partagé avec moi seule pour constater / Que tu ne m’atteins pas et c’est comme tous ces pas / Que le sable pourra effacer / Du Pacifique, tant aimé“. Tu ne seras jamais là è una canzone che viaggia sulle note di un pianoforte suonato dall’artista canadese Alexandra Stréliski. Poesia e musica si fondono in un altro gioiellino nato da una collaborazione più che riuscita, “Mais quand tu partiras au large / Essaie de rester loin de moi / Ton retour n’est plus qu’un mirage / J’essaie de rester comme avant / Quand tu n’étais pas là, quand tu n’étais pas là, et tu n’étais pas là, tu ne seras jamais là“. Spazio al pop e al ritmo con Dans l’obscurité. Cœur de pirate non si accontenta della musica accattivante e l’arricchisce di un testo che vuole trasmettere tutta la forza dell’amore, “Pourrais-je la voir sourire / Dans un monde comme le mien / Je ferais tomber les murs entre nous cette fois / Malgré les interdits / Traverser les eaux plus troubles qu’autrefois / Affronter le passé, qu’on s’impose dans l’obscurité“. Segue Tu peux crever là-bas che viaggia negli stessi territori ma questa volta non c’è spazio per sentimentalismi. Un tradimento diventa ispirazione, Cœur de pirate, sotto una melodia accattivante, non le manda a dire, “Pourrais-je la voir sourire / Dans un monde comme le mien / Je ferais tomber les murs entre nous cette fois / Malgré les interdits / Traverser les eaux plus troubles qu’autrefois / Affronter le passé, qu’on s’impose dans l’obscurité“. Un pop anni ’80 si espande nell’aria con Crépuscule. Un’altra canzone perfetta, nello stile ormai riconoscibile e irresistibile di questa cantautrice, “Et le temps d’avant / Nous tend ce que l’on caressait / À vif, nos vies, ne laissaient que nos / Cris au loin, crédules, nos peaux au crépuscule / Et pourtant j’espère encore que l’enfant que j’étais / Retrouve enfin, une parcelle de paix / De rires, de liberté, sans fin“. Fin dal titolo, Le monopole de la douleur, si presenta come una sommessa ballata che si srotola sulle note di un’arpa. Parole e musica sono pura poesia, “Que je crie plus fort que toi, tu n’entends plus rien / Que je maudisse tes actions, tu n’y vois qu’un autre destin / Et les rêves qu’on chérissait deviennent les pires des cauchemars / Mais j’en ai marre qu’on garde espoir“. La conclusione dell’album arriva con Hélas. C’è solo la voce ma distorta e sdoppiata, in modo da amplificarne l’effetto musicale. Un’inedita trovata per la Martin che non sbaglia scelta, riuscendo ad esprimere un senso di solitudine con grande efficacia, “Hélas, je pensais être seule / Et ce retour vient me noyer / Dans les abysses de l’inconnu, que je ne croyais toucher“.

Impossible à aimer, come il precedente, sembra voler ripercorrere la carriera di Cœur de pirate iniziata nel 2008 con l’album omonimo. C’è il pianoforte, le canzoni d’amore e poi ancora il pop orecchiabile e la leggerezza dell’accompagnamento con gli archi. Béatrice Martin torna con un album perfetto, senza sbavature, ben bilanciato ed ispirato. Ancora una volta c’è un’attenzione particolare alla composizione, all’idea di trovare al melodia perfetta. Impossible à aimer è un ottimo album, un esempio di come per me deve essere la musica pop. Un album che non delude ma anzi conferma Cœur de pirate come un eccezionale cantautrice pop che ha saputo, in più di dieci anni, mantenere sempre alta la qualità delle sue canzoni, rimanendo fedele alle sue scelte.

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La luce rossa

A cinque anni di distanza dal suo debutto, intitolato Hold Your Mind, è tornata la cantautrice inglese Bess Atwell con il nuovo Already, Always. L’approdo alla corte di Lucy Rose, fondatrice della etichetta discografica Real Kind Records, ha finalmente sbloccato la realizzazione di questo disco. L’esordio mi aveva fatto scoprire un’artista di sicuro talento e dalla voce cristallina, che con il suo folk moderno e minimale si era rivelata una delle sorprese di quell’anno. Non vedevo l’ora di tornare ad ascoltare qualcosa di nuovo di Bess Atwell e scoprire come era cambiata la sua musica in seguito all’EP Big Blue del 2019.

Bess Atwell
Bess Atwell

L’album si apre con la bella Co-op, nella qual ritroviamo le sonorità alla quale la Atwell ci ha abituato. Una canzone malinconica fatta di ricordi frammentari, tracciati da una voce delicata e pulita, “I slip my hands into my pockets / Lean against the wall at a Blondie tribute concert / We had that same old talk in the car / On the way over, I said I love him / I said I’m not in love“. All You Can Do si affida ad un indie rock lento che accoglie il canto. Un brano dolce ed essenziale che vive di un melodia piacevole e leggera, “I know I’m in love with your cheeks / You’re my sweet puppy / Is man’s best friend on a lead? / Are you coming through / Is this what you’d choose / I can’t unring that bell I rang for you“. La successiva Silver Fir si appoggia su pulsazioni elettroniche che conferiscono un’atmosfera densa, tagliata dalla voce della Atwell. Sono ancora i ricordi a popolare i suoi testi, “The smell of leather in your mother’s car / The peppermints she kept in the glove compartment / Does she have a car in Barcelona? / I know she banked on everybody coming over“. Tra le mie preferite c’è Dolly, un’altra canzone nostalgica e fragile. La voce è sommessa ed eterea, una delle tante caratteristiche che la rendono speciale, “I wanna cleanse your body, clean your arm and kiss your head / I want to wrap you up in cotton wool and make your bed / I want you to let go so you can see what you have left / Choose your wars wisely ahead, choose your wars wisely ahead“. Segue Love Is Not Enough, una canzone d’amore che vuole essere una riflessione sulla sua forze. Non sembra essere abbastanza in questo caso e la voce delicata ne incarna il sentimento, “But what if love is not enough to keep us? / The biggest joke the big man’s had, and we bear the brunt / You are how I learned to feel fine / I can’t hold you in my hands and walk away at the same time“. How Do You Leave si lascia andare verso un indie pop affascinante. Bess Atwell con voce calda evoca immagini sfuggenti ma capaci di evocare qualcosa di profondo, “How do you leave someone you trust? / Who built you like a boat / Can you mourn somebody breathing / Now that you can float?“. Time Comes In Roses sceglie una via più acustica, vivendo ancora di ricordi. Una riflessione sulla vita, sul tempo che scorre inesorabile. Un ritornello perfetto e oscuro, “But time comes in roses, I really love ya / I’m tired of being like my mother / I get excited, I get depressed / I’m never happy with how I’m dressed“. Il singolo Red Light Heaven è un bel pezzo indie pop nel quale quest’artista dà il meglio di sé. Un ritornello orecchiabile e ancora un testo che sembra un flusso di coscienza ma sempre ispirato e ben interpretato, “I can’t stop looking for that red light / Heaven is below my feet / And I could beat around the fucking bush all week / And I won’t be funny or fast / I won’t make you dance / I won’t help you forget / You need a bit of that“. Olivia, In A Separate Bed è una canzone che una musica che cresce pian piano e accompagna la voce della Atwell, assoluta protagonista, “I chose the love of strangers / I chose the fickle crowd / And the woman I wagered / Won’t look at me right now / Not now“. L’album si chiude con Nobody, nella quale si sceglie ancora un approccio più acustico, lasciando spazio alla melodia del canto. Una canzone triste e riflessiva, di poche parole scelte,”Nobody is meant for me / I crossed the river to find / Love was made for watering / If I don’t believe in us / Nobody is meant for me“.

Already, Always ci permette di tornare a riascoltare un voce unica, unita ad una capacità di fondere melodia e parole che si vede raramente. La velocità è lenta e costante, senza strappi né saliscendi. Bess Atwell ripropone la sua ricetta vincente, senza perdersi alcun rischio, confermandosi così tra le cantautrici più interessanti della sua generazione. Already, Always è un album che vive di ricordi e sensazioni, spesso slegate tra loro e non sempre di facile comprensione. Non importa però. Bess Atwell sa come attrarre a sé l’ascoltatore, accompagnandolo negli intricati meandri della sua mente e del suo cuore. Lasciando sempre la piacevole sensazione di essere partecipi di qualcosa di speciale.

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Più facile a dirsi che a farsi

Da dove cominciare? Dal fatto che non sono un fan dei concept album o dall’incomprensibile moda di scrivere i titoli delle canzoni tutti minuscoli? Oppure dalla chiara svolta pop intrapresa da Kacey Musgraves, iniziata con il precedente Golden Hour? Il nuovo album della cantautrice texana, intitolato star-crossed, si presenta subito in linea con il gusto pop dei giorni nostri, accompagnato anche da un film che riassume questa tragedia in tre atti. Un’imponente macchina commerciale è stata messa in moto per questo album, ispirato dal divorzio da Ruston Kelly, dopo tre anni di matrimonio. Ma io sono qui per la musica. Metto da parte film, video, lettere minuscole e cose varie e ascolto star-crossed come non fosse successo nulla.

Kacey Musgraves
Kacey Musgraves

La title track star-crossed imposta le premesse di questo album. Cori angelici e una chitarra solitaria ci presenta due amanti arrivati alla fine del loro amore. Le carte firmate, le strade che si separano nonostante gli sforzi. L’inizio è eccezionale e cinematografico, “Let me set the scene / Two lovers ripped right at the seams / They woke up from the perfect dream / And then the darkness came / I signed the papers yesterday / You came and took your things away / And moved out of the home we made / And gave you back your name“. Segue good wife che ribalta il concetto moderno di moglie, riflettendo sul ruolo più classico. La Musgraves è sembra essere disposta a fare la brava moglie pur di salvare il suo matrimonio. Un pop anni ’70 che ricorda le sonorità del precedente album, “Help me let go of all the things that make me mad / At the end of the day, he’s gotta know that I’ve got his back / And if he comes home stressed out, I could pack him a bowl / Just let him be himself, don’t try to control“. cherry blossom è la prima delle canzoni più danzerecce di questo album. Testo essenziale e scontato che sembra un po’ slegato dal resto dell’album. Un pop dalla presa facile e nient’altro, “I’m your cherry blossom baby / Don’t let me blow away / I hope you haven’t forgotten / Tokyo wasn’t built in a day / I’m your cherry blossom baby / I don’t wanna blow away“. La successiva simple times è un pop in linea con quello che si può ascoltare oggi, con accenni orientaleggianti. Qui la Musgraves sembra voler rifiutare il fatto che le cose non vadano affatto bene, “I think I’m going off of the deep end / I wanna wake up on an island / Throw everybody a peace sign / Put all the static on silent / We could stay up all night / Pour one out for the simple times“. if this was a movie.. vede Kacey riflettere sulle differenze tra realtà e finzione, in un lento pop pulsante. Qui siamo ancora nel disperato tentativo di salvare un amore ormai senza speranze, “If this was a movie / I’d be surprised / Hearing your car / Coming up the drive / And you’d run up the stairs / You’d hold my face / Say we’re being stupid / And we’d fall back into place / If this was a movie“. justified è un singolo che riprende le sonorità di Golden Hour ed torna, di nuovo, a riflettere su questa difficile relazione. Kacey Musgraves illumina il brano con la sua splendida voce e poco altro, “It was a fun, strange summer / I rolled on, didn’t think of you / We lost touch with each other / Fall came and I had to move / Moving backwards, hurt comes after / Healing doesn’t happen in a straight line“. angel è un parentesi acustica, raro momento di poesia e tenerezza di questo album. Una canzone d’amore genuina e sentita nel quale ritrovare la Musgraves che fu, “If I was an angel / I’d use only pretty words / And when I’m talking to you / It would never hurt / You’d only get the best of me / I’d never make you wanna leave“. Ecco che ci pensa un brano con breadwinner a riportarci sulla terra. Si torna al pop orecchiabile anni ’90 che va in contrasto che l’atmosfera evocata dal testo, “Here’s what he’ll do / He’ll play it cool / When he hangs out with a woman like you / Say he ain’t pressed by all your success / Tell you he’s different than all of the rest“. Con camera roll c’è un inaspettato ritorno al country o quanto meno a qualcosa di molto vicino. Si sente l’emozione, tutta la dolcezza e la malinconia della voce della Musgraves, “Chronological order / And nothing but torture / Scroll too far back / That’s what you get / I don’t wanna see ‘em / But I can’t delete ‘em / It just doesn’t feel right yet / Not yet“. easier said galleggia su un tappetto di pulsazioni elettroniche. Qui siamo alla resa, l’amore è giunto al capolinea. Una canzone piacevolmente triste, “But it ain’t easy / It ain’t easy to love someone / I’ve been tryin’ and I found out / That it’s easier said than done / Easier said than done / It’s easier said than done“. hookup scene è una bella ballata pop che dimostra che Kacey ci sa ancora fare. La sola voce angelica e la chitarra acustica sono più che sufficienti, “So if you’ve got someone to love / And you’ve almost given up / Hold on tight / Despite the way they make you mad / ‘Cause you might not even know that you don’t have it so bad“. La successiva keep lookin’ up è un luminoso pop che finalmente esce dal buio dei precedenti brani. La semplicità funziona ancora, “Keep lookin’ up / Don’t let the world bring you down / Keep your head in the clouds / And your feet on the ground / Keep lookin’ up / Keep lookin’ up“. what doesn’t kill me ritorna al pop facile e consumato, e quindi orecchiabile ma tutto sommato piacevole, “But you’re gonna feel me / You’re gonna feel me / You’re gonna feel me / When I’m done / When I’m done / What doesn’t kill me / What doesn’t kill me / What doesn’t kill me / Better run / Better run“. there is a light apre alla speranza e lo fa con una musica danzereccia, un po’ leggera ed inconsistente. Forse la canzone meno ispirata di questo album e anche un po’ fuori contesto, “There is a light / At the end of the tunnel / There is a light / Inside of me / There was a shadow of a doubt / But baby it’s never going out / There is a light / Inside of me“. Si chiude una bella cover di gracias a la vida. Cantata in spagnolo con voce dolce e amara. Tra le distorsioni si intravede il talento della Musgraves, che ci lascia con una delle canzoni più belle di questo album, “Gracias a la vida, que me ha dado tanto / Me dio dos luceros que cuando los abro / Perfecto distingo lo negro del blanco / Y en el alto cielo su fondo estrellado / Y en las multitudes el hombre que yo amo“.

Cos’è dunque star-crossed? Difficile dirlo. Più che un concept album io lo definirei un album monotematico. Una sfoltita alle sue quindici tracce io l’avrei data, togliendo quelle due o tre canzoni che sembrano fuori contesto, soprattutto musicalmente. Sembra ormai chiaro che non risentiremo più la Kacey Musgraves irriverente e controcorrente, che aveva giurato eterno amore al country. Forse questo album rappresenta il divorzio, non solo dal marito, ma anche dal genere musicale che l’ha lanciata. La scrittura è forse un po’ ripetitiva e l’amore finito è un tema fin troppo ricorrente, così tanto da perdere forza avvicinandosi alla fine. star-crossed è un album ambizioso, dove la Musgraves, a mio parere, ha fatto il passo più lungo della gamba. Il risultato è un disco eccessivamente lungo, pericolosamente ripetitivo, capace di emozionare solo in poche occasioni. La mia speranza di tornare ad ascoltare una Kacey Musgraves più ispirata e meno pop è ancora viva e resto qui ad aspettarla.

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Piccolo cuore solitario

Quattro anni fa, quando uscì l’album di debutto di Holly Macve, intitolato Golden Eagle, mi resi conto che c’era del potenziale in questa giovane cantautrice inglese. Non sapevo che dovevo aspettare ancora qualche anno per poter ascoltare il suo seguito, pubblicato lo scorso maggio, dal titolo Not The Girl. Il tratto caratteristico di quest’artista è la sua voce, o per meglio dire, l’uso che ne fa. Il suo modo di cantare può non piacere a tutti, può sembrare un po’ pigro e svogliato, ma è senza dubbio originale, almeno di questi tempi. Il debutto era caratterizzato da qualche (perdonabile) passaggio a vuoto ed ero curioso di ascoltare questo nuovo disco per scoprire se il tempo e l’esperienza avevo giovato alla Macve. Ecco Not The Girl, quel momento è arrivato.

Holly Macve
Holly Macve

Si comincia con Bird che fin da subito introduce le atmosfere che caratterizzavano il debutto ma con maggiore convinzione. La voce della Macve sa apparire a volte calda e altre più fredda. Eye Of The Storm si affida alle note del pianoforte e al canto. Cori e archi le danno un aspetto vagamente soul e la illuminano sempre di più. Be My Friend vira verso un folk dallo stampo classico ma condizionato dalla voce della Macve. Una canzone orecchiabile e piacevole che si distingue dalla produzioni precedenti di quest’artista. You Can Do Better è una ballata poetica, accarezzata dalla voce e percorsa dal suono delle chitarre. Holly prova a cambiare di nuovo, scoprendosi comunque a suo agio. Daddy’s Gone è un altra bella canzone che trae spunto dalle sonorità del passato, con una sferzata indie rock. Ancora una volta il risultato è ben bilanciato e arricchisce questo album mantenendone l’anima intatta. La successiva Little, Lonely Heart è tra quelle che preferisco. Una melodia perfetta accarezza il ritornello e la voce è angelica. Holly Macve si muove bene e non si fa prendere la mano dai vocalizzi. Perfetta. Sweet Marie vede un cambio di registro, passando ad un cupo rock lento. La voce di fa più dura. Un bel cambio di passo che però riesce a non distaccarsi troppo dal resto dell’album. Variazione indie pop con Who Am I. Orecchiabile e solare, questa canzone emerge sulle altre per la sua melodia e ritmo. Un bel tentativo di provare ancora una volta qualcosa di diverso. Decisamente meno luminosa la title track Not The Girl. Qui la Macve ritorna alle sonorità nostalgiche e in po’ vintage dell’esordio. Lo fa bene crescendo verso il finale. Behind The Flowers fa altrettanto. La canzone si chiude su sé stessa cercando uno sfogo nel ritornello. Questa cantautrice appare sempre più sicura nella scrittura, sapendo di poter fare affidamento sulla voce. Il finale è più folk ed è nella mani di Lonely Road. Atmosfere malinconiche ritornano prepotentemente, sottolineate dal canto accorato.

Not The Girl ci offre una Holly Macve capace di variare, passando dal folk americana al indie rock, senza disdegnare passaggi più pop. Tutto questo è costantemente segnato dalle capacità vocali di quest’artista, che ne caratterizzano inevitabilmente a produzione fin dagli esordi. Evidente è però la maturazione artistica della Macve che a saputo cogliere i pregi del primo album e dimenticare i difetti più evidenti. Uno su tutti, la monocromia di Golden Eagle lascia spazio ad una tavolozza più ampia, nel quale prevalgono i toni scuri ma con qualche eccezione. Not The Girl è un bell’album che svela con maggiore chiarezza il talento della Macve e conferma le potenzialità già espresse in passato. Un album che ben s’addice all’estate che sta iniziando.

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Una delle tante voci nella testa

Tre anni fa usciva l’album di debutto della cantautrice australiana Kaity Dunstan, nome d’arte Cloves, intitolato One Big Nothing ma fin dal suo precedente EP, la sua voce e la sua immagine di cattiva ragazza mi hanno incuriosito. L’album si rivelò più che buono ma soprattutto lasciava intendere che quest’artista non si sarebbe fermata lì. Ecco dunque il nuovo disco dal titolo Nightmare On Elmfield Road che si presenta subito con un cambio di immagine ed atmosfere. Paesaggi urbani e notturni, incubi e malesseri vari si fanno largo tra le canzoni di questo album. Tutto ciò mi ha incuriosito a partire dai singoli che ne hanno anticipato l’uscita.

Cloves
Cloves

Si comincia con Manic, che si srotola su di un sottofondo elettronico, lasciando spazio di movimento alla voce morbida della Dunstan. Si viene subito introdotti nel malessere che caratterizza questo album, “Crooked smile / Blackened day / Silent loud / Empty space / I’m alright / Not okay / Hold me close / For all the time it takes / For all the time it takes“. Tra le mie preferite c’è sicuramente Sicko. Qui in un revival anni ’00, si affronta la situazione che definiremmo, in modo semplice, pazzia. Lo fa attraverso l’immagine di un malato che vive dentro di lei, “In the corner on the outside / Lookin’ in I see a sicko / Starin’ at me on the wrong side / Won’t be the last time / In the corner on the outside / Lookin’ in I see a sicko / Starin’ at me on the wrong side / Won’t be the last time“. Nightmare sprofonda nella buia notte e ci trascina con sé in una spirale di pensieri, frutto forse di un’amore finto male o di qualcos’altro? Difficile a dirsi, “Marching in your masquerade / Banging words like a war drum, into my brain / Pushed into your blank parade / It’s a skill, taking what’s real and making it fake / Yeah“. Un intermezzo parlato di mezzo secondo, dal titolo And now a word from one of the many voices in my head saying something I won’t remember later, spezza in due l’album. Un frammento tra il serio e il faceto di quello che è il disturbo ossessivo compulsivo, “Kaity quit obsessively overthinking with the help of [*beep*] and support, talk to a doctor about [*beep*] and a support plan that’s right for you“. Il singolo Dead è un affascinate, quando inquietante, pezzo pop orecchiabile. Non lasciatevi ingannare dalla sua apparenza leggere, il testo è pesante e per nulla banale, “Its suffocating this conversation got me on a leash / No escaping, I’m shaken, taped up to reality / Intoxication takes motivation / What you doing with your generation“. Screws si fa ancora più cupa e sembra fa emergere con forza il disagio che la Dunstan vuole esprimere. C’è ancora un chiaro rifermento alle sonorità di inizio millennio che sembrano riaffiorare dalle nebbie del tempo nelle quali erano state intrappolate, “Red light red light / Fuck what you said / I’ve got a couple of screws / Loose in my head / Real lives cut ties / Yeah, yeah / I’ve gone a couple steps / Close to the edge“. Better è un brano che fa leva più sulla melodia, anche qui si strizza l’occhio a quel decennio, che sul testo. Frammenti di parole e un canto angelico si contrastano e si bilanciano allo stesso tempo, “Honestly / What you got / Is what you want / Not what you need / I don’t no / If you can tell / All it does / Is give me hell“. La successiva Paranoid parla chiaro. Quando la paranoia arriva trascina con sé altri problemi. La sanità mentale è al centro di tutte le canzoni, “Yes I’m a bitch I complain / I think I’m bent out of shape / But you get, what you get / (And you ain’t heard nothing yet) / This only ends in one way / It’s not an even exchange / But you get, what you get / (And you ain’t heard nothing yet)“. Grudge ha due facce, una melodiosa che sia affida alla voce unica della Dunstan, l’altra è quella ruvida e inquietante del ritornello. Anche questa è tra le mie preferite, perché mi da sempre qualche brivido, “Weighed down in a hotel / Talking to myself / Lately I’ve been there / Lurking around / Most times it’s torment / Waiting for perfect / So I’m clinging to something / That’s better than now“. Si chiude con Beast. La voce si muove sinuosa e minacciosa. Una canzone che viaggia sottotraccia, un pericolo sommesso e strisciante che cresce pian piano, “I’m the only one / That’ll wish you well / Then do you harm / And give you hell / And give you hell / Heart break hour / Stalking me / Love gone sour / I’m your beast“.

Nightmare On Elmfield Road non è un album che ci fa stare bene, anzi sembra volerci rendere partecipi del male che lo ha generato. Vuole trascinarci con sé, ci attrae con la voce di Kaity Dunstan, che con il nome di Cloves ha già dimostrato di essere un animo inquieto. Qui tutto emerge prepotente, un incubo notturno destinato a non sparire con la luce del mattino. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla capacità di Cloves di riproporre le sonorità di qualche decennio fa senza essere ripetitiva. Nightmare On Elmfield Road è davvero un ottimo album, ben bilanciato anche nella sua durata, fosse stato più lungo, il rischio sarebbe stato quello di risultare pesante e pomposo. Brava dunque Cloves a non cadere nella tentazione di fare un album epico su un tema così intimo e forte.

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