So di non sapere

Se c’è qualcosa che muove la mia personale ricerca di nuova musica è senza dubbio la curiosità. La maggior parte delle volte però preferisco rifugiarmi in generi e stili che conosco bene, dove trovo, seppur effimere, sicurezza e conforto. Talvolta però mi piace allontanarmi un po’ dalle strade che conosco e la musica di Jeni Magana, cantautrice di Brooklyn, è una di quelle volte nelle quali la deviazione è dolce e indolore. In realtà, il cantautorato femminile è sempre in cima alla lista delle mie preferenze ma questo EP d’esordio intitolato Golden Tongue mi ha affascinato fin dalle prime note di Inches Apart. Spiegarlo è difficile ma come sempre ci proverò.

Magana
Magana

Get It Right apre l’EP, una bella ballata dal sapore rock. La voce della Magana è dolce e amara, che cattura l’attenzione. Affascina per quella sua aura di tristezza che io trovo sempre irresistibile, facendomi tornare alla mente la migliore Angel Olsen, “If you could see what is in my mind / You would change before my eyes / You were red but my gold turned you green / So you stood there lying through your teeth“. Inches Apart è un’altra canzone triste e malinconica. Magana da prova di sensibilità e delicatezza, doti rare e ricercate. La migliore canzone dell’album per intensità, “When I’m cold / And I’m lonely / Hold me in your arms / We’ll grow old / We will only / Be inches apart“. The World Doesn’t Know è un bel pezzo indie rock tormentato. La voce della Magana è questa volta più ruvida e contribuisce, insieme alla chitarra, ha dare tensione al brano, soprattutto nel ritornello, “Because the world doesn’t know what the world doesn’t know / That it lives in my mind and so now I have total control / And nobody’s aware and so they don’t find it strange / Every cell in your body belongs to the thought in my brain“. Chiude la title track Golden Tongue. Questa volta i toni sono più scuri dove voce e musica di fondono, tirando fuori l’anima rock di questa cantautrice. Un finale intenso, carico di rabbia, “You colored my words with your golden tongue / And shifted and blurred what is in my heart / I am not sure why they call it love / Why does it feel like it’s so damn hard“.

Golden Tongue è un interessante EP d’esordio che si distingue da altri per la sua vocazione artistica. Jeni Magana sembra voler mescolare l’astrattezza dell’arte con la più concreta onestà della musica cantautorale. Il risultato è un EP breve ma che può diventare un ottimo biglietto da visita per un’artista che ha tutte le potenzialità per fare bene anche in un album. Arrivato in fondo a questo EP mi rendo conto di non essermi allontanato troppo dalla mia strada sicura. La musica mi chiama. Io rispondo sempre presente.

Mi ritorni in mente, ep. 41

Tra i primi articoli di questo blog compare un post che raccontava la mia scoperta della cantautrice scozzese Amy Macdonald nel 2011. Quel momento ha rappresentato un punto di svolta nella mia ricerca musicale essendo stata la prima donna ad aggiungersi alla mia musica preferita. Da quel momento ho iniziato il mio consumo di musica che chi legge questo blog ben conosce. Il primo This Is The Life non restò a lungo da solo e qualche settimana dopo ascoltai A Curious Thing. L’anno successivo Amy Macdonald pubblica Life In A Beautiful Light e io prontamente l’ho ascoltato e recensito. Dal quel momento è iniziata l’attesa per il quarto album. Ci sono voluti quattro anni per poter tornare ad ascoltare Amy Macdonald con una nuova canzone.

Ecco dunque che questa settimana ha annunciato Under Stars, il nuovo album che sarà pubblicato il 17 Febbraio dell’anno prossimo, a cinque anni di distanza dall’ultimo Life In A Beautiful Light. L’annuncio è accompagnato da una versione acustica di Down By The Water. Per quello che ho potuto ascoltare dalle registrazioni live di questi anni e da questo nuovo brano, mi sembra di notare la un maggiore maturità con la quale la Macdonald affronta questo ritorno. Down By The Water mi piace e sono convinto che questo album possa essere un passo in avanti per una delle artiste per le quali da sempre ho un debole. Bentornata cara Amy, spero che Under Stars questi cinque anni di attesa li valga tutti. Sono sicuro di sì.

Un milione di occhi

Le settimane passano veloci e i tre anni di distanza dall’ultimo album della cantautrice danese Agnes Obel, sono passati altrettanto velocemente. Aventine è un album di quelli da ascoltare con attenzione, senza distrazioni o pensieri. In realtà tutta la musica della Obel è così. Quest’anno è tornata con Citizen Of Glass, titolo che è la traduzione letterale dal tedesco “gläserner bürger”, termine che viene usato per indicare il livello di privacy dei cittadini, oggi molto basso. Agnes Obel prende spunto da questo concetto per mettere in piedi un ritorno atteso, dove ritrova slancio e nuove idee. L’attesa è finita. Finalmente, cara Agnes, ci rincontriamo.

Agnes Obel
Agnes Obel

Stretch Your Eyes ci accompagna in punta di piedi nelle atmosfere eteree e magiche di questa cantautrice. Tutto questo è ciò che ci si aspetterebbe dalla Obel, che tra gli archi, la sua voce suona come uno strumento musicale. Nulla è lasciato al caso, “Gates of gold / In your head you hold / A kingdom molten / May the gods be on your side / You can give to my heart / Thousand words or more / You can give to my heart / Thousand words or more“. Il singolo Familiar è il brano più orecchiabile dell’album, nel quale si intravede l’approccio più moderno alle canzoni. Nel ritornello la Obel canta con la sua voce modificata di tono che  ne amplifica il mistero, “We took a walk to the summit at night, you and I / To burn a hole in the old grip of the familiar, you and I / And the dark was opening wide, do or die / Under a mask of a million ruling eyes“. Il primo brano strumentale è Red Virgin Soil che prende il titolo dal nome di una rivista letteraria sovietica del 1920. La Obel è capace di incantare anche con la sola musica e lo ha dimostrato più volte anche in passato. La successiva It’s Happening Again riporta alla mente il precedente Aventine nel quale la cantautrice danese riesce dare forma ad una semplice melodia attraverso le parole e il canto. Perfetta, “No future, no past / No laws of time / Can undo what is happening / When I close my eyes / And with the stars and the moon / I woke up in the night / In the same place / To save me for my eyes“. Anche in Stone la voce si trasforma in strumento, portandoci lontano, là dove la straordinaria Riverside ci aveva portati. Una delle canzoni più intense di questo album ma allo stesso tempo delicata, quasi fragile, “Oh how the birds forget to sing / Do they know where I have been? / Oh how I will leave you there again / Deep within my head of stone / Could I be, of stone, could I be, of stone, could I be / You are my only one“. Trojan Horses è un piccolo capolavoro. Agnes Obel sembra sfuggire, appare e scompare. Un’inafferabile voce angelica insegue un ritmo incalzante e sinistro, “I tell myself I wanna hide / I tell myself I wanna be lied to / Silent reader of my mind, do you know what i will ask of you? / Tell me if you wanna hide / Tell me if you wanna be lied to“. La title track Citizens Of Glass, la Obel ritorna ad una purezza e semplicità disarmanti. Tutto è al suo posto, come fosse sempre stato così. Una piccola magia, “Rend a black drop from my heart / With the weight of days / The end of time has just begun / I hear it call your name“. Golden Green è una delle sue canzoni più belle. Un fascino irresistibile pervade la musica e la Obel come un elfo, si muove leggera in un bosco di note. Da ascoltare, “All my eyes can see is / Born out of your imagery / It’s coming at, it’s coming at, it’s coming at my heart / To scorch the earth with fire / Tell me who you really love / Tell me who you really love / Tell me who you really love“. La successiva Grasshopper è l’altro brano strumentale dell’album. Si respira sempre un’aura di mistero nella musica della Obel che, con eleganza e sapienza, viene evocata nella sua forma migliore. Con Mary cala il sipario sull’album. Ritroviamo la Obel degli esordi, voce e pianoforte. Un’atmosfera malinconica scorre in questa ballata che ricalca alla perfezione lo stile della musicista danese, “In my house the silence rang so loud / Under doorways, through the hallway down / Waiting for the secret to grow out / Oh what we do when no one is around“.

Citizen Of Glass ci mostra una Agnes Obel in gran forma, profondamente ispirata che non vuole lasciarsi alle spalle il passato. Un’artista vera, della quale fidarsi sempre perchè la sua musica è sempre sincera ed elegante. C’è solo più ritmo in questo terzo lavoro rispetto ai precedenti ed è questo particolare che dà all’album una marcia in più. Agnes Obel riesce ad arricchire di dettagli le sue canzoni senza in alcun modo appesantirle. Questo è il segno evidente di un duro lavoro che avrà sicuramente ripagato lei e ripaga noi ascoltatori che abbiamo atteso a lungo questo momento. Ora che l’anno sta finendo, Citizen Of Glass si può mettere nella lista dei migliori, dove già gli avevo riservato un posto.

Caccia al tesoro

Sono passati più di due anni da quando mi sono avvicinato con riguardo alla musica di Justin Vernon e dei suo “gruppo” Bon Iver. Quel For Emma, Forever Ago è rimasto fino ad ora l’unico suo album nella mia collezione. Ciò non significa affatto che non mi fosse piaciuto ma semplicemente non ho avuto il piacere di ascoltare il successivo album omonimo pubblicato nel 2011. Si da il caso che Justin Vernon è tornato quest’anno, dopo 5 anni di silenzio, con l’enigmatico 22, A Million.  Io che ero rimasto all’indie folk dell’esordio ho provato un iniziale moto di repulsione di fronte ai primi ascolti dei singoli di questo nuovo lavoro. Credo di aver pensato: “Ma che cosa hai fatto, Justin!?”. Poi, quasi improvvisamente, 22, A Million doveva essere mio. Dovevo ascoltarlo assolutamente, affascinato da tutti quei simboli sulla copertina e gli strani titoli delle canzoni.

Justin Vernon
Justin Vernon

L’apertura è affidata alla poetica e distorta 22 (OVER S∞∞N), nella quale la voce caratteristica di Justin Vernon si eleva pulita e chiara tra suoni campionati in loop. Un inizio fulminante, per certi versi anche inquitante, “It might be over soon, soon, soon / Where you gonna look for confirmation? / And if it’s ever gonna happen / So as I’m standing at the station / It might be over soon“. Si continua con 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄, ancora più destrutturata e disturbante. Ma il caro vecchio Justin appare là in mezzo come unica certezza, unico punto fermo in quel frastuono, confuso tanto quanto affascinante, “I’m unorphaned in our northern lights / Dedicoding every daemon / Taken in the tall grass of the mountain cable / And I cannot seem to find I’m able“. Solo voce nella successiva 715 – CR∑∑KS. Sarebbe meglio dire solo tre voci. Lo stesso Vernon canta con versioni alterate della sua voce che contribuiscono al brano quasi fossero strumenti musicali. Questa è una delle canzoni più belle di questo album dove le parole fanno il gioco della musica, “Low moon don the yellow road / I remember something / That leaving wasn’t easing / All that heaving in my vines / And as certain it is evening ‘at is now is not the time / Ooh“. Il simbolismo di cui è carico questo album comincia da canzoni come 33 “GOD” che dura, guarda caso, esattamente 3 minuti e 33 secondi. Qui Justin Vernon somiglia tanto a quello al quale eravamo abituati, c’è anche un pianoforte, ma tra coretti e ritmi frammentati, il cantautore americano ci sorprende, “We find God and religions to / Staying at the Ace Hotel / If the calm would allow / Then I would just be floating to you now / It would make me pass to let it pass on / I’m climbing the dash, that skin“. La classica canzone in perfetto stile Bon Iver è nascosta sotto il titolo di 29 #Strafford APTS. Ci sono le atmosfere malinconiche e tristi che tanto abbiamo amato. Anche qui però c’è sempre qualche elemento di disturbo, quasi a voler rendere imperfetta una canzone che appare come consumata dall’ascolto. Jusin Vernon però riesce sempre a commuovere, “Fold the map and mend the gap / And I tow the word companion / And I make my self escape / Oh, the multitude of other / It comes always off the page“. Contrapposta alla canzone 33 “GOD” troviamo 666 ʇ. Ancora Vernon usa le sua armi migliori, senza eccedere nell’uso della tecnologia. Nonostante il titolo faccia presagire atmosfere infernali, siamo di fronte a tutt’altro, “And so it’s not in your clasp / What’s the function or the task / Well, I’d stun and I’d stammer / Help me reach the hammer / (For then what will I ask)“. Segue subito senza interruzioni la magica 21 M◊◊N WATER. La perfezione sognante del suo inizio lascia spazio, neanche troppo lentamente, a suoni sconnessi ed interrotti, frammenti di voci in loop che si disperdono nel finale. Il testo è criptico, come tutto il resto dell’album dopotutto, “The math ahead / The math behind / Moon water / Remomrize numb / And half the hum / For moon water / I’d hide Berlin / To run and find it / Moon water / The path ahead / The path behind it / It’s moon water“. L’ottava traccia è appunto 8 (circle), il cui simbolo è uguale a quello dell’infinito, solo rovesciato. Infinito come un cerchio, appunto. Qui Justin Vernon sembra dimenticarsi di sperimentare e torna ad essere quel cantautore solitario e carismatico. Anche se c’è sempre qualcosa che salta all’orecchio, un suono fuori posto e qualche alterazione ma va tutto bene, “I’m standing in your street now, no / And I carry his guitar / And I can’t recall it lightly at all / But I know I’m going in“. Il suono dei sassofoni apre la bella ____45_____  che è sorretta dal canto, questa volta non in falsetto, del nostro. Un’altra bella canzone, come sono i Bon Iver sanno fare, “Well I’ve been carved in fire / Well I’ve been caught in fire / I’ve been caught in fire, whaaaa / Well I’ve been caught in fire / I’ve been carved in fire / I’ve been caught in fire / What comes prior to?“. L’ultima traccia s’intitola 00000 Million che aggiungendoci davanti il numero di traccia, il 10, si ottiene un milione. Ecco che l’album che è iniziato con un 22 finisce con un milione, 22, A Million. Bon Iver nella sua massima espressione si contrappone alla sperimentazione e non convenzionalità delle tracce precedenti, “So I can depose this, partial to the bleeding vines / Suppose you can’t hold shit. how high I’ve been / What a river don’t know is: to climb out and heed a line / To slow among roses, or stay behind“.

22, A Million è un album ambizioso che solo Bon Iver poteva proporre e passarla liscia. Tutto è concesso al buon Justin Vernon e lui ripaga la fiducia con la spontaneità di un album che spontaneo non è. Gran parte delle tracce, se non tutte, sono state rimaneggiate, scomposte e ricomposte. Tutto è astratto in 22, A Million, dove anche i titoli, dai caratteri simbolici, sembrano avere poco a che fare con i testi delle canzoni. Testi che come sempre sono oscuri e criptici ma carichi di musicalità e tensione. Bon Iver o Justin Vernon che sia ha sfornato un album che provoca reazioni contrastanti ma che ha un fascino tutto suo. Ci troviamo di fronte, forse, ad un’opera irripetibile che si propone come uno dei migliori album di questo 2016. Dopo aver ascoltato queste dieci canzoni, non resta che divertirsi a decifrare simboli, numeri e suoni. Come in una caccia al tesoro.

Dolce come il miele

Ho avuto la fortuna di seguire Billie Marten fin dal suo EP d’esordio del 2014 e sono contento di poter ascoltare il suo album d’esordio intitolato Writing Of Blues And Yellows. Questa cantautrice a soli diciassette anni dimostra un talento innato che le ha permesso di scrivere canzoni molto belle e delicate. Billie Marten raccoglie in questo album tutto quello che ha fatto di buono in questi ultimi anni, aggiungendo diversi inediti oltre a demo e cover nella ricca versione deluxe. Writing Of Blues And Yellows è stato, per quanto mi riguarda, un album molto atteso nel quale cercavo conferme. E lo ho trovate.

Billie Marten
Billie Marten

Si comincia con il bel singolo La Lune, nel quale si trovano tutte le caratteristiche di questa cantautrice. Voce appena accennata e melodie dolci e confortevoli. La Marten riesce però sempre a trovare un ritornello, o un passaggio della canzone, che rimane in testa con facilità, “Breaking my back in the heart of this land / Feet above water and softened in sand / I could have wanted any part of this“. La successiva Bird faceva già parte del suo ultimo EP e si inserisce perfettamente in questo album. Una bella melodia e un pianoforte che fa da sfondo ad una delle canzoni più belle di questo album, “Nobody’s watching / Drowning in words so sweet / Mild is the water / Caught as a bird once free / I don’t mind“. Il singolo Lionhearted è ancora più delicata e eterea delle precedente, quasi sfuggente. Billie Marten riesce sempre a mettere in musica sensazioni spesso fragili e come ci riesca è per me un mistero. Soprattutto con testi così essenziali e semplici, “Oh this is lonely territory / I’ve got miles and miles ahead / How I wish that I was lionhearted / And if you talk to me I don’t reply / I am way over here on the otherside“. Segue Emily che non si allontana dalla strada tracciata in precedenza. Questa volta però i toni sono più cupi e tristi. C’è un senso di disagio interiore che pervade questa canzone, che appare come la più matura di questo album, “Take my coat and have it for your own / Out there’s a world that I’ve never been shown / It’s on the outside but, its a river too wide / For I’m weighted by this stone / It hangs at the back of my throat / And it hurts me so / And it hurts me so“. Milk & Honey vuole celebrare una vita lontano dalla frenesia dei nostri tempi. La voce della Marten e la sua musica sono perfette per portare questo messaggio alle giovani generazioni. Io sto con lei, “But all you want is milk / More than you can drink / All you want is honey / You can’t take the sting / You live for overkill / But you’re ungrateful still / All you want is honey / Well honey I tried / You just want more and now it’s all gone“. La successiva Green è una bella canzone, sempre delicata ma positiva e poetica. Billie Marten non ha paura di ripetersi e così facendo trova una sua espressione artistica riconoscibile e unica, “And I want you to hurt, my heart, like you always could / And I bet it would feel better, than this darkness / For I can do no good, for I can do no good“. Heavy Weather è una storia di una relazione tormentata come un temporale. Questa volta la Marten porta qualche sfumatura più rock nella sua musica ma lo fa con attenzione, dosando la voce e lasciando che tutto scorra da sé, “Together we walk the English winter / So caught up in one another / Who cares if we’re under thunders showers / The rain us ours and we are lovers of / Heavy weather / Heavy weather, heavy weather“. Unaware faceva parte del primo EP della Marten ed è una canzone nella quale si trova tutta l’energia e passione della sua giovane età. Una canzone che collega il recente passato dell’artista al presente e le dà slancio per il futuro, “Mind is so clouded and covered in smoke / What isn’t mine is starting to choke / You’re just a fly, you’ll be flying too close / Keep holding on but you’re wanting to be wild“. Hello Sunshine è un altra bella canzone, acustica e leggera. Billie Marten fa sembrare tutto semplice e naturale. La sua capacità di incantare e scaldare il cuore è impareggiabile. Tra le più belle dell’album c’è da inserire senza dubbio la straoridinara Live. Ancora un inno alla vita traquilla e serena con un sorriso appena accennato sulle labbra. Una canzone irresistibile per mille motivi. Inutile spiegare, meglio ascoltarla, “They say don’t go out / Don’t get lost in the dark / Don’t go in too deep / Don’t swim out too far / They say don’t go out / Don’t go out too fast / Cos I feel it all and I need to live a little at last“. Si continua con Theet, splendida ballata al pianoforte con tanto di uccellini in sottofondo. Billie Marten appare ancora più fragile, tutto in questa canzone è così delicato che si teme che ascoltandola troppo si possa letteralmente consumare. Per fortuna non succede, “We float upon the hills and on the grass / Speak words that they will hear but, never understand / And I’m writing this in a bad way / No one can hear what my head says“. Il suo titolo è Untitled e ci guida alla fine dell’album. Altro gioiellino plasmato dalla voce e dalla chitarra della Marten, che affonda ancora di più nel sogno, risultando sfumata e ammaliante. Chiude l’album una cover a cappella di It’s A Fine Day, “It’s a fine day / People open windows / They leave their house / Just for a short while“.

Writing Of Blues And Yellows è conferma di una delle cantautrice più talentuose degli ultimi anni. Billie Marten è solo agli inizi e non può che migliorare sotto ogni aspetto della sua musica. Ogni canzone di questo album è curata in ogni dettaglio, ognuna di esse sembra volerci portare verso un mondo più tranquillo e positivo, pervaso da una speranza che trova forza nelle piccole cose della vita. Non voglio perdermi in paragoni, non mi piace farlo, ma senza dubbio Laura Marling è la prima artista che viene in mente dopo aver ascoltato Billie Marten. A differenza della Marling che è sempre stata più spavalda nel suo modo di porsi, la Marten è all’apparenza più introversa ma non per questo meno sensibile. Questa cantautrice inglese è una di quelle cantautrice che non vorrei cambiassero mai, perchè sanno dare un senso di sicurezza e conforto non sempre facile da trovare.