Non mi giudicate – 2019

Un altro anno è passato e sono qui per fare il punto su quanto di meglio è passato per le pagine di questo blog. Ogni anno è sempre più difficile fare delle scelte ma è bello poter passare in rassegna i dischi ascoltati e i libri letti. Ecco qui sotto, le mie scelte. Chi è rimasto fuori lo potete trovare comunque qui 2019. Ho aggiunto una nuova categoria per gli album esclusivamente strumentali, che quest’anno si sono aggiunti alla mia collezione.

  • Most Valuable Player: Rachel Sermanni
    Con il nuovo So It Turns questa cantautrice scozzese ritrova ispirazione e cresce sotto ogni aspetto, come artista, come donna e soprattutto come madre. Un ritorno che mi è piaciuto molto, nel quale ho ritrovato un’amica.
    Rachel Sermanni – What Can I Do
  • Most Valuable Album: Designer
    Fin dal primo ascolto non ho esitato a definire Designer come l’album dell’anno. Aldous Harding raggiunge la perfezione nell’equilibrio tra il suo folk acustico dell’esordio e l’astrattismo moderno. Consigliatissimo.
    Aldous Harding – Zoo Eyes
  • Best Pop Album: Norman Fucking Rockwell
    Lana Del Rey non sbaglia un colpo e non vuole fare la pop star. Sempre più lontana dall’apparire come una femme fatale, questo album racchiude uno spirito poetico trapiantato in un presente decadente e alla deriva.
    Lana Del Rey – Fuck it I love you / The greatest
  • Best Folk Album: Enclosure
    Le sorelle Hazel e Emily Askew realizzano un album che attraverso brani tradizionali lancia un messaggio attuale. Attraverso un accompagnamento musicale essenziale e la voce di Hazel, le Askew Sisters ci fanno riflettere.
    The Askew Sisters – Goose & Common
  • Best Country Album: The Highwomen
    Il supergruppo con Amanda Shires, Natalie Hemby, Maren Morris e Brandi Carlile sia aggiudica il premio con un mix di canzoni dall’anima country ispirata dai maestri del passato. Il tutto segnato da un’ispirazione femminista.
    The Highwomen – Redesigning Women
  • Best Singer/Songwriter Album: Lucy Rose
    Il suo No Words Left è un album difficile da affrontare. Così personale ed intimo che lascia l’ascoltatore un senso di impotenza. Lucy Rose riesce più di tutte a trasmettere sé stessa attraverso le sue canzoni.
    Lucy Rose – Treat Me Like A Woman
  • Best Instrumental Album: The Reeling
    La giovane musicista Brìghde Chaimbeul con la sua cornamusa ha incantato tutti riuscendo a mescolare tradizione e modernità. Questa ragazza nel suo piccolo sembra avere tra le mani il futuro della musica folk.
    Brìghde Chaimbeul – An Léimras / Harris Dance
  • Rookie of the Year: Jade Bird
    Come poteva essere altrimenti. Jade Bird con il suo esordio si è rivelata una delle promesse più lucenti del panorama musicale inglese e non solo. Una ragazza che punta alla sostanza e rifiuta le mode passeggere. Da non perdere.
    Jade Bird – I Get No Joy
  • Sixth Player of the Year: Emily Mae Winters
    Premio dedicato alla sorpresa dell’anno. In realtà il talento di questa cantautrice inglese era già emerso fin dal suo esordio folk, a sorprendere invece, è la sua scelta di virare verso un sound più americano. Coraggiosa e vincente con High Romance.
    Emily Mae Winters – Wildfire
  • Defensive Player of the Year:  Janne Hea
    Questa cantautrice norvegese ritorna dopo tanti anni con Lost In Time e lo fa riproponendo la sua formula vincente: semplicità, sincerità e poesia. Ho ritrovato un’artista che ho ascoltato per anni, in attesa di questo ritorno.
    Janne Hea – Lost In Time
  • Most Improved Player: Joseph
    Le sorelle Closner con il loro Good Luck, Kid brillano per energia e affiatamento. Un album pop curato nei dettagli che oscilla tra passato e presente, portando le Joseph ad un livello superiore rispetto a questo fatto sentire finora.
    Joseph – Green Eyes
  • Throwback Album of the Year: Savage On The Downhill
    Ho inseguito questo album della cantautrice americana Amber Cross per anni. Non mi ha deluso. Per niente. Tanta buona musica country folk, diretta e sincera. La voce della Cross è unica e non vedo l’ora di ascoltare qualcosa di nuovo da lei.
    Amber Cross – Trinity Gold Mine
  • Earworm of the Year: Benefeciary
    Il ritorno della band canadese dei Wintersleep con In The Land Of è un davvero un bel album. Ogni singola nota è ispirata dall’amore per il nostro pianeta. Questa canzone in particolare ci ricorda che siamo beneficiari di un genocidio.
    Wintersleep – Beneficiary
  • Best Extended Play: Big Blue
    Bess Atwell ritorna con un EP che rinfresca il suo sound in attesa di un nuovo album che spero arrivi presto. Questa cantautrice inglese conferma con questo disco tutto il suo talento e la sua voce unica.
    Bess Atwell – Swimming Pool
  • Most Valuable Book: Infinite Jest
    Non ci poteva essere che Infinite Jest come libro dell’anno. Il capolavoro di David Foster Wallace ancora oggi, a distanza di mesi, mi ritorna in mente con le sue storie assurde, tristi e tragicomiche.

collage

Cinque colpi delle dita, ep. 4

Come ho fatto per i libri, prima che si concluda l’anno, pubblico delle brevi recensioni/opinioni riguardo ai film che ho visto quest’anno.

Ho portato avanti la filmografia di Quentin Tarantino cominciando con Jakie Brown del 1997. Film piuttosto normale per gli standard del regista americano e l’unico finora non originale essendo tratto dal romanzo Punch al rum di Elmore Leonard. Trama fatta di inganni e contro inganni con personaggi ben caratterizzati capaci di tenere alta la tensione per tutto il film. Ma quello che volevo vedere più di tutti era The Hateful Eight del 2015. Cast stellare, ambientazione western e l’espediente della stanza chiusa. Cosa chiedere di più? Niente perché Tarantino ancora una volta non delude con i suoi dialoghi fiume, conditi di volgarità a non finire, e dei personaggi irresistibili. C’è una domanda che riecheggia durante il film: cos’è la giustizia? Gli odiosi otto pensano tutti di avere ragione, si accusano l’uno con l’altro, ma solo una è la verità. Sarà abbastanza per placare la sete di giustizia o c’è altro? Da vedere assolutamente. Meno imperdibile ma tutto sommato nient’affatto male, Colossal film del 2016, diretto da Nacho Vigalondo con Anne Hathaway e Jason Suideikis. Un gigantesco mostro che sta distruggendo Seul è per qualche motivo collegato mentalmente ad una ragazza americana. Solo lei può fermarlo. Un’idea di fondo interessante e piena di possibili complicazioni. Qualche perplessità sullo sviluppo del personaggio antagonista e il finale affrettato ma per il resto è un godibilissimo mix di azione, comicità e thriller fantascientifico. Di tutt’altro tenore The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese del 2013 con Leonardo DiCaprio. Filmone ispirato dalla vera ascesa (e caduta) dell’agente di borsa Jordan Belfort. Montagne di soldi, lusso, sesso e droga permeano ogni secondo di questo film. Quasi tre ore che filano via sperando di vedere cadere l’insopportabile broker. Nonostante io abbia ascoltato, anni e anni fa, un infinità di volte la colonna sonora del film The Blues Brothers non avevo mai visto il film del 1980 con John Belushi e Dan Aykroyd. Finalmente ora posso dire di averlo fatto. Mi ha sorpreso perché pensavo fosse una sorta di musical e invece non lo è. Pensavo fosse una commedia e invece è una commedia sì ma demenziale. Divertente e pieno di musica, un film che è invecchiato bene.

Incuriosito dal trailer e dalla presenza di Blake Lively ho visto Chiudi gli occhi (All I see is you), film del 2018 diretto da Marc Foster. Speravo in un thriller ricco di mistero e dai risvolti paranormali ed invece si è rivelato, sì un thriller ma sentimentale. Una ragazza, Blake Lively, che a causa di un incidente da bambina rimane ceca, si innamora di un uomo che si prenderà cura di lei, Jason Clarke. Con un’operazione riacquisterà la vista dall’occhio destro, riuscendo così a vedere il volto di suo marito e cominciare una nuova vita. Non vado oltre per spoilerare ma vi dico subito che, contrariamente a quanto dovrebbe succedere ho provato empatia più per Clarke, che in questo caso è l’antagonista, che per la protagonista e vittima interpretata dalla Lively. Il colpo di scena arriva troppo tardi e ciò poteva essere il fulcro della storia invece ne diventa la sua conclusione. Bravi gli attori e belle le ambientazioni ma l’interessante idea di fondo è stato sfruttata male. Ho visto in tv il primo adattamento del romanzo di Stephen King Pet Sematary del 1989. Sceneggiato dallo stesso King è molto fedele al libro, con effetti speciali vecchia scuola davvero ben fatti. C’è qualcosa in CGI che fa orrore per quanto è brutta e inutile piuttosto che per il suo intento horror. La recitazione è ha tratti ridicola e smorza in più occasioni la tensione del film. Adattamento trascurabile. Poi ho visto Under the Skin, film del 2014 con Scarlett Johansson diretta dal regista inglese Jonathan Glazer, che vuole indagare sulla razza umana con gli occhi di un alieno nei panni di una donna attraente. Ambientazioni claustrofobiche e tensione piuttosto blanda non aiutano a far decollare il film che è più un esercizio di stile che altro. Non è un cattivo film ma poteva essere approfondito meglio.

Ancora un altro libro

Mi ero ripromesso, all’inizio dell’anno, di scrivere di più riguardo ai libri letti. In parte ho mantenuto la promessa ma prima che finisca questo 2019 vi consiglierò ancora qualche libro. Prima di addentrarmi nei dettagli di alcuni libri in particolare vi consiglio le divertenti avventure di Tre Uomini In Barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome. Un libretto carico di scene comiche e a volte paradossali, in bilico tra fantasia e realtà, che vede protagonisti tre amici in gita sul Tamigi con il cane Montmorency. Scritto nel 1889, strappa ancora qualche sorriso e anche qualcosa di più. Il suo seguito Tre Uomini a Zonzo ambientato in Germania è meno comico ma è incredibilmente profetico sulla diffusione della lingua inglese e l’avvento di Hitler, oltre ad essere infarcito di contraddizioni e assurdità del popolo tedesco. Se vi piacciono i libri più seri, vi consiglio Altai del collettivo Wu Ming, romanzo storico che fa da seguito (o quasi) di Q, che ho letto tempo fa. Meno complesso e più lineare del predecessore è comunque un buon romanzo, ben scritto e pensato.

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Scegliere cosa leggere nella sconfinata bibliografia di Stephen King, era un problema che non volevo più affrontare. Perciò non mi restava altro che procedere in ordine cronologico. Avendo già letto Carrie (1974) e i successivi Shining (1977) e L’ombra dello scorpione (1978) mi restava solo Le notti di Salem (1975), per completare i suoi primi quattro libri. Sapevo già di dover affrontare una storia di vampiri e che avrei incontrato padre Donald Callahan, protagonista di alcuni episodi della Torre Nera. Le intenzioni del giovane King erano quelle di scrivere un libro che fosse una pietra miliare dei libri dei vampiri e dell’horror in genere. Lo stesso King ammetterà di essere stato un po’ presuntuoso ma Le notti di Salem resta comunque un eccezionale esempio del suo talento. Questo romanzo ha contribuito in modo significativo a etichettarlo come il “re del’horror”, definizione che gli è sempre andata stretta ma che non ha mai rifiutato.
L’idea alla base del romanzo è semplice, come nella maggior parte dei romanzi di King: un vampiro decide di stabilirsi nella sonnolenta cittadina di Jerusalem’s Lot nel Maine, scegliendo una casa nota per la sua cattiva reputazione. Il resto lo potete immaginare, tutti sappiamo cosa fanno i vampiri ma ciò che sorprende di questo libro è il contesto nel quale si svolgono i fatti. Il male, rappresentato dal vampiro Kurt Barlow, si muove senza sosta nella quotidianità delle notti di Salem’s Lot. Durante il giorno solo pochi cittadini notano che qualcosa sta succedendo ma fingono di non vedere (anticipando il sentimento della città di Derry in It). Lo scrittore Ben Mears, torna a Sales’s Lot, dopo averla lasciata da bambino e più di tutti nota le terribili azioni dello straniero Barlow e del suo aiutante R.T. Straker. Troverà la collaborazione del professore Matt Burke e l’appoggio di Susan Norton, una giovane ragazza che Ben ha conosciuto proprio a Salem’s Lot. Si aggiungerà ben presto alla compagnia anche Mark Petrie, un ragazzino senza paura, appassionato di mostri e vampiri. La lotta contro Barlow risulterà subito impari e King si rivela spietato e senza nessun rispetto per il lettore, soprattutto per quello che si affeziona facilmente ai personaggi.
Nonostante si noti un King un po’ acerbo sotto alcuni aspetti, si può già apprezzare la sua capacità nel dettagliare e dare profondità ai personaggi secondari (o perfino semplici comparse). Praticamente ognuno di essi ha nome e cognome, un lavoro, un passato anche se il suo passaggio nel romanzo è molto breve. Che King si sia ispirato a Dracula di Bram Stoker è cosa nota, anzi lui stesso lo sottolinea più volte. L’impostazione stessa della trama è molto simile. L’unica differenza è che quello di Stoker era una sorta di romanzo epistolare, quello di King è in questa forma solo nel capitolo finale. Un romanzo che non si può non definire horror e quindi si discosta un po’ dalle successive produzioni del Re, meno focalizzate su mostri e sangue. Un romanzo d’azione con pochi momenti riflessivi. In definitiva Le notti di Salem è un romanzo assolutamente da non perdere per conoscere Stephen King e le sue influenze letterarie, oltre a quelle che avrà sulla successiva produzione del Re.
In seguito ho anche letto La Zona Morta (1979). Avevo visto, diversi anni fa, il film del 1983 di David Cronenberg con Christopher Walken ma del quale ricordavo davvero poco. In questo romanzo King mette da parte mostri e il suo immaginario horror per confezionare un thriller dal ritmo incalzante e dall’immancabile componente sovrannaturale. Il giovane Johnny Smith, capace di avere delle premonizioni, rimane in coma per cinque anni in seguito ad un grave incidente automobilistico. Al suo risveglio trova un mondo diverso e le sue capacità più sviluppate ed invadenti. Una serie di eventi lo porterà a decidere le sorti degli Stati Uniti d’America. Stephen King ci racconta un’istantanea di quegli anni, tra mito e realtà, di un sogno americano corrotto e, purtroppo, profetico. Un ottimo libro per chi vuole iniziare ad affrontare il mondo di King.

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Non sono un appassionato del genere fantasy. Ho letto solo Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion e Lo Hobbit e dunque la mia cultura fantasy è limitata a questo noto scrittore inglese. Ma questa estate, non ricordo come, sono incappato nella saga fantasy de La Spada della Verità. Avevo visto, diversi anni fa, la serie tv della quale, a parte una splendida Bridget Regan nella parte di Kahlan Amnell, ricordavo poco o niente. Ho saputo che la serie era tratta dai libri di Terry Gooking, un autore americano che ha praticamente scritto solo romanzi che riguardano le avventure del Cercatore e della Depositaria. Sono partito ovviamente dal primo volume della quale è composta la saga. L’edizione italiana ha attraversato una serie di pubblicazioni un po’ confuse rispetto all’originale e l’attuale è composta di undici volumi che vanno a coprire il primo arco letterario della saga. Il primo volume racchiude i primi due episodi della saga e supera le 700 pagine. Prima di intraprendere questa avventura ho cercato di informarmi un po’ a riguardo. Ho capito essere una saga più per adulti che per ragazzi, contrariamente a come accade spesso nella letteratura fantasy, e che l’autore non deve essere un gran simpaticone ed è un po’ fissato con la dottrina filosofica dell’oggettivismo. Questa ultima caratteristica è particolarmente evidente in alcuni passaggi del libro e se devo essere sincero è una visione delle cose piuttosto condivisibile. In sostanza, anche i cattivi fanno i cattivi per una buona ragione e credono di essere nel giusto tanto quanto i buoni. Ho semplificato troppo, Wikipedia saprà essere più esaustiva se vi interessa. Comunque, la Spada della Verità mi aveva convinto e pur non aspettandomi chissà quale capolavoro, ho iniziato la lettura. Soprattutto nei primi capitoli si intuisce, forse anche per colpa di una traduzione non eccezionale, che Goodking non è uno scrittore nato. Anche se la lettura è estremamente scorrevole e senza particolari momenti morti, si può trovare qualche dialogo è un po’ infantile e il protagonista Richard Chyper a volte appare un po’ troppo ingenuo. Le idee però non mancano al buon Terry, anche se qualcuno lo accusa di aver scopiazzato qua e là nella letteratura fantasy (ma chi non l’ha mai fatto dopotutto). Fin da subito il mondo di Goodkind si delinea chiaramente, le Terre dell’Ovest prive di magia da una parte e dall’altra le Terre Centrali e il D’Hara, dove imperversa la magia. I tre confini che tengono separate le terre sono in pericolo, e uno di questi è già crollato ad opera del malvagio Darken Rahl. Il giovane Richard Cypher si trova coinvolto, dal mago e amico Zedd e dalla Depositaria Kahlan Amnell, in un viaggio alla ricerca della terza scatola dell’Orden. Un oggetto che, se finisse nelle mani di Rahl, gli permetterebbe di sottomettere il mondo. Non rivelo altro sulla trama che è interessante e ben congegnata. Mi è piaciuto il fatto che Goodking non si risparmia sui particolari violenti e anche un po’ splatter, che indirizza il fantasy verso un pubblico adulto. Notevoli i capitoli nel quale Richard è prigioniero di una Mord Sith. Sono tesi e claustrofobici, oltre ad essere una chiara fantasia sadomaso dell’autore. Al di là di questo, le scene delle torture sono le più toste del romanzo. Manca però, in mezzo a tutto questo, un po’ di sano turpiloquio. I cattivi non si abbandonano mai ad espressioni volgari e anche ai protagonisti non scappa mai una mezza parolaccia (forse c’entra ancora la traduzione). Evidentemente il fantasy piace così ma, a me, ha fatto uno strano effetto. In definitiva le oltre 700 pagine del primo volume le ho divorate in poco tempo e ho passato delle ore di piacevole lettura. Leggerò sicuramente anche il secondo volume e chissà se in futuro qualche altra saga fantasy farà capolino da queste parti.

Dove vanno le anatre?

Prima che si concluda questo anno, c’è ancora tempo per consigliare un po’ di buona musica. Your Company è uscito lo scorso 29 novembre, a tre anni di distanza da Staring At The Starry Ceiling debutto delle due sorelle Mabel e Ivy Windred-Wornes, che insieme formano il duo Charm Of Finches. Queste due giovani cantautrici australiane con il loro folk delicato e sognante mi avevano fatto una buona impressione fin da subito e non avevo mancato di riportarlo, a suo tempo, su questo blog. La notizia di un loro nuovo album mi ha incuriosito e, desideroso di scoprire l’evoluzione della loro musica, mi sono precipitato subito ad ascoltarlo. Ecco dunque uno degli ultimi di dischi dell’anno, che va ad aggiungersi alla mia collezione.

Charm Of Finches
Charm Of Finches

The Bridge va a rispolverare le sonorità del suo predecessore. Un Natale triste e chiari rifermenti ad una vita spezzata, ci fanno apprezzare i temi più maturi affrontati dalle sorelle. Un inizio davvero eccezionale, “You once told me you wondered what it would be like to fly / You once told me you wondered what it would be like to die / Taken to the air / You began your endless flight“. Il singolo Lies si poggia sulla due voci che si rincorrono l’una con l’altra. Una canzone essenziale ma capace di suscitare immagini complesse e sensazioni contrastanti, in un delicato folk dalle tinte scure, “I do hope the clouds will blow over soon / So you will abide by my every rule / You’ll find someone to crawl into their empty heart / Whisper in their little ear / Tell to them your little lies and all their fears“. La successiva Fish In The Sea percorre le stesse strade affrontando un doloroso abbandono. Un indie folk dalle influenze moderne ma non lontano dallo stile classico delle Charm Of Finches, “Well I was just some other fish in the sea / And you’d find some other better than me / And when the sunlight faded I was just as grey / As anybody else you’d see any day“. Her Quiet Footsteps è la mia preferita di questo album. Una canzone malinconica con una melodia perfetta, supportata dalle voci delle due ragazze cresciute non solo artisticamente. Anche qui un approccio moderno le aiuta con esiti ancora migliori, “Was I ever the fighting one? / I couldn’t say that I feel that way / I am only the healing one / Holding my own hand / With shaking arms“. Segue Paint Me A Picture, guidata dal suono di una chitarra. Le due voci si uniscono e cantano un altro triste ritornello, esempio perfetto della loro musica, “So paint me a picture and I’ll tell you what I see / I see the pain in your eyes when you’re staring back at me / And oh how could I break it, trust built from the bone / And now I know your side of the story I struggle to see my own / I struggle to see my own“. In The Gloaming ci fa sprofondare ancora di più del notturno mondo della coppia. Qui le due ragazze evocano la sfuggente bellezza della notte e del suo regno di sogni e inquietudini, “Fingers on the cold glass / Frosted over now that summer’s passed / Lengthened shadows in the gloaming / Oh your body chills me to the bone“. Con I’ll Wonder le Charm Of Finches riscoprono i loro modelli, in primis le First Aid Kit, che qui sembra quasi di sentirle. Uno dei brani che si fa apprezzare anche per la particolare cura della parte strumentale, “I know that we’re both aching to run away from all that’s held us back / Was just a matter of time till we were forced to wear the courage that we lack / Fear of the unknown and being left alone“. Slip Like Water ci da la prova definitiva delle maturità di queste due sorelle. Ancora un abbandono fa da sfondo ad una delle canzoni più ispirate e ben scritte di questo album, “Despite your ability to please her / You won’t find her smiling / Pleading to stay quiet / But you tell her it’s worth it / We’ll all watch in silence / Feeding you with confidence / You hold her future in your bare hands“. Where Do The Ducks Go? è una domanda che sorge spontanea quando ci si trova di fronte allo scenario di un lago ghiacciato. Un’occasione per porgersi delle domande che forse non troveranno mai risposta, “When it gets so cold that the lake turns to glass’ / Oh where do the ducks go? is all I ask / And what do the fish do? / Are they frozen in?“. Good Luck On Your Own, che vede la partecipazione di Cian Bennet, trova nuove soluzioni musicali che ricordano un Bon Iver degli inizi. Ancora una prova di maturità ed attenzione ai dettagli, “Guess I have to go good luck on your own / Oh the tears that flow from your face of stone / Oh the storm in you hidden from all view / Try to find the calm that lies before you“. L’album si chiude con la title track Your Company. Il suono di un banjo accompagna le voci delle ragazze che fanno della semplicità il loro punto di forza, sapendo tracciare delicate melodie, “Now, now that all’s been said and done / And the battle’s lost and won / And you who’ve lent us your ears / Do forgive our frailties / And if you like you’ve slumbered here / Songs but drifting on the air“.

Your Company ci presenta delle Charm Of Finches decisamente cresciute sotto ogni aspetto. Dalla musica ai testi, passando da una produzione più ricca e dettagliata. Le sorelle Windred-Wornes fanno un grande passo in avanti, lasciandosi pian piano alle spalle le sonorità di quegli artisti che le anno ispirate. Qui trovano una identità meglio delineata, scegliendo un naturale profilo malinconico ed oscuro, profondamente sincero. Non c’è spazio per canzoni leggere o troppo positive. Your Company affronta temi toccanti, carichi di sentimento, senza essere stucchevole o ripetitivo. Le Charm Of Finches possono considerarsi soddisfatte di questo album e ripagate dello sforzo. Questo è solo l’inizio di una carriera sempre più da tenere sott’occhio.

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Mi ritorni in mente, ep. 65

Mentre cerco di tirare le somme di questo anno musicale appena trascorso, ne approfitto per ripercorrerlo e condividere con voi che leggete, qualche artista che non ha trovato spazio finora su questo blog. Il nome di Jamie Lin Winson era da parecchio tempo che me l’ero appuntato, probabilmente dallo scorso anno quando uscì il suo Jumping Over Rocks. Solo quest’anno però ho recuperato l’album e finalmente posso dire di avere avuto il piacere di ascoltare questa cantautrice americana.

La sua musica è un esempio perfetto esempio di americana, un genere musicale vicino al country ma più folk e malinconico. Jamie Lin Winson ha una voce carica di emozioni, pulita ma che fatica a nascondere i segni che la vita ha lasciato. Jumping Over Rocks è il suo secondo album come solista ed è stata una bella sorpresa, almeno per me. Ascoltatevi la sua Run mentre io cerco di decidere quale siano stati i migliori album del 2019…

Cosa resterà di questi anni… dieci

Per chi non se ne accorto, è mio dovere farvi notare che sta per finire un decennio. Tutti parlano degli anni ’60, dei ’70 oppure degli anni ’80 ma intanto qui, oggi, siamo alla conclusione dei primi vent’anni del nuovo millennio. Ebbene, dato che questo blog attraversa per la prima volta la fine di un decennio, in questo caso quello che va dal 2010 al 2019 (no, non sono nove anni, come sostiene qualcuno, contateli bene), ho deciso di fare una personalissima playlist Spotify (ahimè).

Ero partito con l’interessante idea di stilare i miei 10 migliori album del decennio. Prendo il pc e faccio una bella playlist automatica che filtra le canzoni pubblicate in questo tra il 2010 e il 2019. Quando ho visto che contava circa 360 album e oltre 3500 canzoni ho avuto un ripensamento. Era semplicemente impossibile cavarne fuori 10 miseri album. Non avrebbe rappresentato appieno la mia musica di questi 10 anni. Allora mi sono messo a scegliere qualche brano tra i miei artisti preferiti, anche più di uno ciascuno. Ero arrivato cosi ad una playlist di circa 130 canzoni. Un po’ lunghina. Così ho deciso di tenere una sola canzone per artista. Il risultato finale sono 74 canzoni. Non ho scelto necessariamente le più belle ma semplicemente quelle che hanno un significato particolare per me oppure hanno rappresentato, in generale, un successo per questo artista. La maggior parte di queste le ho scelte perché sono le canzoni che mi hanno fatto scoprire questo o quell’altro artista.

Non è stato facile scegliere ma sappiate che quello tutto quello che ascolterete in questa playlist è un pezzettino di me. Sono solo 5 ore di questi dieci anni ma sono ore che hanno plasmato la mia vita e accompagnato in questo viaggio. Buon ascolto.