Non mi giudicate – 2018

Simo giunti al termine di questo 2018. Un anno nel quale la mia collezione si è arricchita di numerosi album di debutto (i miei preferiti) ma anche di graditi ritorni. Ho anche ascoltato diversi album che non hanno trovato spazio nel blog ma tra quelli che lo hanno avuto ne ho scelti alcuni tra i migliori. Di questo spazio ne ho dovuto sacrificare un po’ per quanto riguarda le mie letture. Pur continuando a leggere come sempre, le recensioni, o qualunque cosa siano, dei libri sono sempre meno frequenti. Un po’ mi dispiace non riuscire a consigliarvi qualche lettura ma ci riproverò il prossimo anno. Qui sotto le mie personalissime scelte per questo 2018 e anche quest’anno è stato difficile scegliere ma alla fine ho scelto. Questo è il risultato.

  • Most Valuable Player: Anna Calvi
    La cantautrice inglese è tornata in grande stile con il suo album Hunter, affrontando, con la consueta energia, la propria sessualità. Le sue performance drammatiche e teatrali, la confermano una delle migliori artiste rock degli ultimi dieci anni.
    Anna Calvi –  As A Man
  • Most Valuable Album: By The Way, I Forgive You
    Alla cantautrice americana Brandi Carlile le riesce difficile sbagliare un album. Quest’anno è riuscita perfino a migliorarsi. Profondamente ispirato e intenso, il suo sesto disco è il migliore della sua carriera.
    Brandi Carlile – Party Of One
  • Best Pop Album: en cas de tempête, ce jardin sera fermé
    Alla fine per l’album pop la spunta Coeur de pirate. La cantautrice canadese sceglie di tornare a cantare in francese e fa bene. Un album che mescola bene passato e presente, tra ballate al pianoforte e inni electro-pop.
    Coeur de pirate – Combustible
  • Best Folk Album: Away From My Window
    La giovane cantautrice scozzese Iona Fyfe debutta con un album che mette in mostra sia le sue doti vocali che l’interesse e la ricerca per le ballate tradizionali della sua terra. Si tratta solo dell’inizio della carriera di una delle folk singer più promettenti.
    Iona Fyfe – Banks of Inverurie
  • Best Country Album: Songs Of The Plains
    Non me la sono sentita di premiare Golden Hour di Kacey Musgraves perché il dubbio che sia country o meno rimane. Chi invece country lo è per davvero è Colter Wall. Questo ragazzo canadese sembra sbucato dal passato e piazza un altro album di tutto rispetto.
    Colter Wall – Saskatchewan 1881
  • Best Singer/Songwriter Album: Louis Brennan
    A questo cantautore irlandese va riconosciuta una rara propensione a prendere a cuore temi importanti che riguardano tutti ma che sembrano toccarlo sul personale. Nel suo Dead Capital c’è la sua vita e la sua parabola di artista.
    Louis Brennan – Airport Hotel
  • Rookie of the Year: Kitty Macfarlane
    La cantautrice inglese con Namer Of Clouds mette in mostra tutto il suo talento con un folk giovane e moderno che trae ispirazione dalla tradizione e dalla natura, uscendo anche dai confini nazionali. Un album tra terra e mare di rara sensibilità.
    Kitty Macfarlane – Namer Of Clouds
  • Sixth Player of the Year: Lydia Luce
    Premio destinato alla sorpresa dell’anno e Lydia Luce lo è senz’altro. Dopo un buon EP senza lode, forisce con Azalea. Un album dalle tinte malinconiche del folk americano, piacevole da ascoltare e ricco di emozioni.
    Lydia Luce – My Heart In Mind
  • Defensive Player of the Year:  Kelly Oliver
    Con Botany Bay, la cantautrice inglese Kelly Oliver, va sul sicuro proponendo una breve antologia di canzoni tradizionali della sua terra. Quasi un passaggio obbligato per qualsiasi artista folk, che la vede promossa a pieni voti.
    Kelly Oliver – Botany Bay
  • Most Improved Player: Salt House
    Il trio folk guidato da Ewan MacPherson e Lauren MacColl si arrichisce della voce e delle canzoni di Jenny Sturgeon. Il loro Undersong evoca paesaggi e sensazioni come pochi altri sanno fare. Un folk affascinante, moderno ma rispettoso della tradizione.
    Salt House – Charmer
  • Throwback Album of the Year: My Love, She’s In America
    Questo titolo era prenotato ormai da tempo dall’album degli Stillwater Hobos. Un disco che mescola il folk irlandese con quello americano e il risultato è irresistibile. Tra cover, brani originali e tradizionali, questi ragazzi americani hanno fatto centro.
    The Stillwater Hobos – French Broad River
  • Earworm of the Year: Into A Bottle
    Poche canzoni, come questa di Wes Youssi, tratta dal suo Down Low, mi sono rimaste in testa così a lungo. Il suo country old school non può non piacere. Già lo scorso anno il singolo High Time aveva sortito lo stesso effetto.
    Wes Youssi – Into A Bottle
  • Best Extended Play: Live Forever
    Non sono molti gli EP che ascoltato quest’anno ma sicuramente quello della cantautrice gallese Danielle Lewis spicca sugli altri. Sonorità moderne ed elettroniche guidano la sua voce melodiosa. Un EP di ottimo pop folk che anticipa l’album di debutto.
    Danielle Lewis – Live Forever
  • Most Valuable Book: Imprimatur
    Questo libro, primo di una serie, è un romanzo storico-giallo ben scritto e dettagliato. La coppia Monaldi & Storti riesce a tenere una tensione costante, documentandone ogni singola riga. Praticamente ignorato (o censurato) in Italia per diversi anni, ma di grande successo in tutto il mondo, è un gran bel romanzo da scoprire.

Tanti album sono rimasti fuori da questa lista ma se trovate una recensione su questo blog vuol dire che mi sono piaciuti. Ad esempio Golden Hour di Kacey Musgraves, a cavallo tra pop e country era difficile collocarlo in questa lista e alla fine è rimasto fuori. Ho dovuto sacrificare anche May Your Kindness Remains di Courtney Marie Andrews a favore del country di Colter Wall. Stessa sorte per Florence & The Machine e il loro High As Hope. Il folk resta in primo piano ma purtroppo non c’era spazio per tutti e Hannah Rarity e il suo Neath The Gloaming Star è rimasto alla porta.
Così finisce dunque questo 2018, un anno pieno di soddisfazioni e nuove scoperte. Sono sicuro che il prossimo non sarà da meno.

collage

Mi ritorni in mente, ep. 58

Anche in occasione del Natale, questo blog si prende una pausa. Tornerò, prima della fine dell’anno, per tirare le somme di questo 2018 e prepararsi ad affrontare l’ottavo anno del blog. Quest’anno sarà un Natale diverso per me, che sono un abitudinario (non mi giudicate, siete come me cit.) ma se il vostro sarà un po’ triste non preoccupatevi. C’è chi ha pensato di allietare anche un triste Natale.

Coeur de pirate, cantautrice canadese, ha pubblicato un paio di anni fa un breve EP di canzoni tristi per Natale, intitolato appunto Chansons tristes pour Noël. C’è un classico come Last Christmas e una bella versione dei Noël sous les tropiques. Ma quella che preferisco è Pour la première fois, Noël sera gris, ovvero “per la prima volta, Natale sarà grigio”.

Buon Natale, dunque. Anche se sarà un po’ triste.

 

Can che abbaia

Joshua Pless “JP” Harris si considera prima di tutto un falegname a cui piace scrivere canzoni country. Ma solo dopo aver esplorato diversi generi musicali, questo cantautore americano originario dell’Alabama, ha trovato nel country e nelle sue variazioni, la sua dimensione ideale. Solo quest’anno, grazie al suo nuovo album Sometimes Dogs Bark At Nothing, ho fatto la sua conoscenza. JP Harris grazie ad una voce ruvida e profonda, mi ha subito incuriosito. Artista genuino, senza fronzoli ma solo un’imponente barba che gli da un’aria sfrontata. Questo è il suo terzo album dove campeggia in copertina il suo ritratto con un occhio nero e due cani in braccio, quasi fosse il ritratto di un principe fuori legge.

JP Harris
JP Harris

L’inizio è esplosivo con la travolgente JP’s Florida Blues #1. Harris va subito al sodo, mettendo le cose in chiaro. Un country blues “on the road” veloce e spensierato, tanto immediato qunanto divertente, “I lost my mind out on the highway / Seeking my inspiration with my nose / These offline situations led to some minor complications / Now I’m sweatin’ ‘em out in this motel room alone“. Subito però trovano spazio anche le ballate come Lady In The Spotlight. La storia di una ragazza in cerca di riscatto e fortuna è affidata alla voce consumata di Harris, “One day you may be the lady in the spotlight / But tonight you’re just some cold heart’s passing flame / Oh I pray that someday you’ll face the bright lights / But tonight you’re just a girl with no last name“. La successiva When I Quit Drinking è un malinconico pezzo country che racconta di come tutto è più chiaro e doloroso quando si smette di bere, “Lord, when I quit drinkin’ / All my mem’ries come back clear / And you’ll find me weepin’ / And sippin’ off a bottle filled with tears / Bar mirror shows me / The old me that had your love back then / When I quit drinkin’ / I start thinkin’ about startin’ up again“. Long Ways Back è una triste ballata piuttosto nostalgica nella scelta musicale. La sua melodia dolce è sporcata dalla voce di JP Harris che vuole essere meno graffiante,”Came for the good times / But never meant to stay / Tried to go home / But got lost along the way / Now it’s a long ways back / From here to yesterday“. La title track Sometime Dogs Bark At Nothing è una riflessione interiore fatta di domande di cui forse non c’è una risposta. E probabilmente è giusto così, “Sometimes dogs bark at nothin’ / Like when little kids start cussin’ / They don’t know why, they just do it ‘cause they can / Sometimes a girl’s heart gets busted / By a boy that she once trusted / Ain’t no reason ‘cept that he was born a man“. Con Hard Road si torna al country, questa volte con chiare influenze outlaw. JP Harris non sbaglia nulla ed ne infila un’altra, “Old Moses stood up on the barroom floor / Just screamin’ and a-shoutin’ with a two-by-four / Such a high holy terror Carolina hadn’t ever seen / Yeah pound-for-pound that boy’s [trouble?] size / You know his money talked but it usually lied / Buddy, it ain’t fair but even bad dogs get their day“. Immancabile la ballata solitaria e nostalgica come I Only Drink Alone. Meglio affondare i propri dispiaceri nell’alcol da soli. Una canzone che vuole semplicemente mettere la cosa in chiaro, “Oh I don’t need no one but me / To reminisce on how things used to be / To revel in this misery and curse this bottle quietly / Oh I only drink alone“. In Runaway, JP Harris affronta sé stesso e ammette di essere sempre in fuga, alla ricerca di qualcosa. Una canzone tra le più belle e personali di questo album, “I was born a runaway / After fourteen years, I did one day / I guess I never had the heart to stay / And do right by my wrongs“. Come vuole la tradizione c’è sempre di mezzo una donna in una buona ballata. Miss Jeanne-Marie è tutto questo. La voce  di JP Harris segue le note di un pianoforte, dimostrando una spiccata sensibilità, “Oh, but Miss Jeanne-Marie / I met you at the wrong time / With my days turned dark by wild nights / And this heart could not be tamed / Oh but don’t get me wrong / You were my fondest lover / If I could live this life all over / Girl, I’d surely change your name“. Chiude l’album il veloce honky-tonk di Jammy’s Dead And Gone. Harris sfodera tutta la sua personalità, incalzando l’ascoltatore con le parole, “You’ve heard this tale a hundred times / But this story’s true to life / Still got the slack action bangin’ in my brain / Well ol’ Jimmy’s dead and gone / But this hobo rambles on / I said you’re goddamn right, wrote another song about a train“.

Da Sometimes Dogs Bark At Nothing non ci si deve aspettare nulla di più di tanto buon country vecchia scuola e ritmi honky-tonk. JP Harris fa tutto in modo impeccabile e si lascia trascinare dal sound rodato della sua musica. Ma le canzoni che compongo questo album sono così vere e dirette che non si può non apprezzarle. Che siano ballate o scatenati pezzi blues, questo cantautore ci mette un pezzo della sua anima. Si respira la polvere di un country che tanti artisti stanno cercando di salvare nella sua semplicità e unicità. JP Harris con Sometimes Dogs Bark At Nothing mi ha convinto, rivelandosi una piccola sorpresa di quest’anno che sta per finire.

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La giostra della vita

Prima che finisca l’anno e diventi il momento di fare classifiche, è giusto dare spazio a nuovi album usciti sul finire di questo 2018. Come, ad esempio, Carousel della cantautrice texana Carson McHone. Il suo secondo album, uscito lo scorso ottobre, segue l’esordio del 2015 intitolato Goodluck Man ma che già conteneva in parte alcuni brani del nuovo album. Il suo è un country dalle sonorità classiche che va alla ricerca delle parole giuste piuttosto che di un ritornello orecchiabile. Non c’è bisogno di aggiungere che Carousel ha avuto subito la mia attenzione, considerando inoltre che si tratta a tutti gli effetti di un nuovo esordio, più curato e ricco nella produzione.

Carson McHone
Carson McHone

Sad apre l’album ed è subito chiaro il mood dell’album. Una ballata country che vuole scacciare una tristezza interiore che ormai è parte di sé stessi. La stessa tristezza che ha ispirato tante canzoni, “One night I had myself a dream / Me and Sad played hide-and-seek / And she could not find me ‘cause I would not cry / But it make me mean and I woke up tired“. La successiva Drugs affronta un malessere più profondo, il bisogno di medicinali per dormire o semplicemente della presenza di qualcuno. La voce della McHone è giovane ma sporcata da una nota ruvida e matura. Un’altra ballata country di grande effetto, “Your lullabies / They’re not enough / I can’t sleep hungry / I need drugs / I need drugs, I need drugs / I need drugs, I need drugs / I need your drugs“. Lucky racconta del dolore di una donna tradita dal suo amante. Carson McHone dimostra un talento eccezionale nella scrittura, riuscendo a trovare sempre le parole adatte, “Ain’t you lucky? Oh, ain’t you lucky / Lucky that I love being lonely? / Ain’t it swell? Oh, ain’t it swell / Swell that I don’t ever cry? / Ain’t it sweet that I buy / All your cruel, cruel lies? / Ain’t you lucky? Oh, ain’t you lucky, babe / Lucky that I love being lonely?“. Un blues vecchio stile con Good Time Daddy Blues. La cantautrice texana mostra il suo lato più da “cattiva ragazza” e accende uno dei brani più immediati dell’album, trascinato dalle chitarre e da un ritmo veloce, “So I’mma give that man a little piece of my mind / Tell him he best be stickin’ ‘round or else he’s wasting my time / Well I’m gon’ give that man, now, a little piece of my mind / Tell him he best be stickin’ ‘round or else he’s just been wasting time“. Dram Shop Gal è una triste ballata che vuole rimarcare il suo status di bad girl. Un rifiuto di essere considerata una brava ragazza, reso malinconico e agrodolce dalla musica e dalla voce della McHone, “I don’t trust no man that slick back his hair / Though he may be a millionaire / He got sticky hands and too much time / Leave me to wonder how he made that dime“. Una breve traccia musicale o quasi, Intro – Gentle, apre la strada alla successiva Gentle. La classica delle ballate country di un cuore spezzato ma con un’intensità particolare. Una delle canzone più belle di questo album. Da ascoltare, “My broken heart won’t play gentle with my mind / So every night I find myself thinking of you / But I’m only playing games / I bet my heart against my brain / And every time I lose“. La successiva Maybe They’re Just Really Good Friends è una bella canzone dalle sfumature honky-tonk che scacciano via un po’ di tristezza. Carson McHone si dimostra a suo agio con qualsiasi ritmo e velocità, “Well maybe they’re just really good friends / But if not I guess I’ll just pretend / That she means no more than me to him / After all, they’re only friends“. Così come nella lenta How ‘Bout It che ritorna sul tema della tristezza. Un’inevitabile parte si sé. Un pianoforte e la voce della McHone la rendono una delle canzoni più intime e sincere di questo album, “So how ‘bout this, I’ve got the blues / Got this feeling in my bones I can’t refuse / There’s lots of wanting in this world that someone’s gotta do / Tonight I guess I like the looks of you“. Goodluck Man è una ballata che esprime tutta le delicatezza e la sensibilità del songwriting di questa cantautrice. Davvero una bella canzone, nient’altro da aggiungere, “Simple is as simple does and beauty is deceiving / Sweeter is the melody you’re humming as you’re leaving / One more time I will choose to believe him“. L’album si chiude con la poetica Spider Song. Un testo ricco di immagini, nel quale emerge il lato più folk della sua musica. La voce si fa anche più morbida per l’occasione, “Well, pride does march / All chromed and starched / Against a brandished heart / But Jack, he will / ‘Til death defend his / Quiver full of darts“.

Carousel è un album che si compone di due livelli differenti. Uno più marcatamente country e sbarazzino che emerge al primo ascolto, l’altro più drammatico e sincero, più lento a venire fuori. Le due parti sono tenute insieme da quella malinconia, quella tristezza, che è alla base del disco. Carson McHone non può evitare di essere triste ma non per questo si arrende alla vita. La sua musica si accende e accelera per poi spegnersi e rallentare quando è il momento. Carousel vuole dimostrare che, appunto, la vita è una giostra e tutti siamo in sella a quei cavallini, tutti agghindati quanto tristi, che vanno su e giù, sempre in tondo.

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Qualcosa in più

Proprio sul finire dello scorso anno mi sono imbattuto nell’album Strata della cantautrice scozzese Siobhan Miller (Una buona occasione), rimanendo affascinato dalla sua voce. Quell’album raccoglieva un mix di canzoni tradizionali, cover e brani originali scritti dalla stessa Miller. Esattamente un mese fa è uscito il suo seguito intitolato Mercury, composto esclusivamente da canzoni originali. Siobhan Miller prova a introdurre sonorità contemporanee negli schemi del folk tradizionale affidandosi alla sua voce morbida ed educata. Non è sempre facile lasciare il terreno sicuro della tradizione e, farlo significa voler, prima di tutto, mettersi in gioco. Mercury è dunque qualcosa in più del suo terzo album, è un nuovo inizio e una conferma di una delle voci più apprezzate del panorama folk.

Siobhan Miller
Siobhan Miller

L’album si apre con la  title track Mercury. Subito si ritrovano tutte le caratteristiche della musica della Miller. Un accompagnamento ricco che si distacca dalla tradizione, così come era già successo in passato, e sostiene le sue indiscutibili capacità vocali. Sorrow When The Day Is Done esplora sonorità jazz per uno dei brani più accattivanti dell’album. Siobhan Miller illumina il brano con un’interpretazione brillante e pulita. Un esempio perfetto di come questo album sia influenzato da più stili musicali diversi. Strandline è una ballata al pianoforte, gentile e triste. Un pizzico di pop cantautorale si aggiunge con il suono delle chitarre, lasciando alla voce il compito di unire le sue varie sonorità. The Western Edge si rifà alla stile più vicino a quello abituale della Miller. Una vibrante sensazione di positività percorre la canzone, spiccando sulle altre. Tra le mie preferite c’è la bella ballata Slowest Days. La voce della Miller è così delicata e melodiosa da sembrare ancora più eterea. Una canzone ben scritta e realizzata in ogni suo aspetto, caratteristiche non sempre facili da trovare oggigiorno. Da ascoltare. La successiva Carrying Stream torna verso qualcosa di più vicino al folk. Siobhan Miller dimostra quanto di buono ha imparato nel corso degli anni. The Growing Dawn si ispira, in alcuni passaggi alla poesia The Bird That Was Trapped Has Flown del poeta scozzese James Robertson. Una canzone che non tradisce le atmosfere positive di questo album. Siobhan Miller riesce sempre a dare qualcosa in più ad ogni canzone. Keep Me Moving On è probabilmente la canzone più pop di Mercury. Ancora una volta sono i sentimenti più positivi a trovare spazio nelle canzoni della Miller, facilitata dalla sua voce. Losing rallenta il ritmo e si affida alla melodia. Una bella canzone molto vicina ad altri canzoni della Miller, profondamente ispirata dal folk tradizionale. Chiude l’album Let Me Mean Something accompagnata dal suono delle chitarre. Una canzone che ha tutte le caratteristiche per sciogliere anche il cuore più duro.

Mercury fa entrare, in modo più netto, Siobhan Miller nella categoria delle cantautrici. Non più quindi solo interprete di cover o ballate tradizionali ma autrice dei suoi stessi brani. Questa ragazza riesce a sfruttare la sua esperienza musicale e le sue innate doti vocali, per confezionare un album di ottima fattura. Ogni aspetto è curato nei dettagli ma è l’insieme di queste dieci canzoni a sorprendere maggiormente. La sua velocità è costante, l’atmosfera sempre positiva, a volta malinconica ma mai troppo, e la voce della Miller sempre perfetta e educata. Se siete amanti dei virtuosismi o delle voci graffiate, questo album non fa per voi. Se amate il rassicurante timbro vellutato e le interpretazioni sempre pulite e corrette, Mercury, ma in generale qualsiasi album di Siobhan Miller, è quello che state cercando.

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