Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 5

In queste settimane, nonostante i vari ponti, ho ascoltato poca musica in termini puramente legati al numero di ascolti. Perché in realtà aprile è stato un mese ricco di uscite interessanti ed attese da tempo ma che non ho ancora ascoltato un soddisfacente numero di volte. Sì, perché prima di abbandonare un album e riporlo nel dimenticatoio o quasi, concedo sempre una seconda possibilità a tutti. A volte, così facendo, mi accorgo che il mio giudizio era stato affrettato, altre invece confermo le mie prime impressioni. Questo vale soprattutto per i nuovi artisti, perché per i miei preferiti difficilmente un loro album cade presto nel suddetto dimenticatoio. Siccome maggio si presenta anche lui ricco di nuove uscite, è bene ricapitolare qui sotto gli album più meritevoli che ho ascoltato ultimamente. Tra conferme e nuove scoperte, alla fine non è andata male nemmeno stavolta.

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Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 3

Questa settimana ho letto un interessante articolo che riguardava la fruizione della musica nel mondo e in Italia. Per correttezza pubblico il link dal quale l’ho letto: La musica in download vicina all’estinzione. Lo streaming a pagamento è quasi metà del fatturato globale.
Tra l’altro ultimamente, ho l’abitudine di appuntarmi, a chissà quale scopo, gli articoli più interessanti che trovo online. A volte devo ammettere che mi tornano utili, altre volte sinceramente non so perché li metto da parte. Ma torniamo al tema di questo articolo. Il titolo è eloquente, lo streaming musicale si sta divorando il download ma ha ancora pietà per CD e vinili. In Italia chi scarica ancora musica (legalmente s’intende) rappresenta solo l’1% del totale. Sapevo che la mia abitudine di comprare musica in digitale era da tempo passata di moda ma non credevo di essere parte di una così ristretta minoranza.

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Mi ritorni in mente, ep. 91

Ascolto raramente la radio e quando succede di solito sono in auto e senza la mia scorta di mp3. Per i viaggi più lunghi la porto sempre con me, proprio per evitare di ascoltarla. Ho riciclato un vecchio lettore mp3, che è diventato quasi del tutto insensibile alla pressione dei tasti, collegandolo alla presa usb dell’auto.
Non mi piace ascoltare la radio principalmente perché non si sente altro che pubblicità e quando non è così ci pensano i dj a chiacchierare del più e del meno. Inoltre la musica che passano la maggior parte delle radio non va incontro ai miei gusti. Va da sé che preferisco lasciarla spenta.
Qualche tempo fa però, in una delle rare occasioni nelle quali era accesa, mi è capitato di riascoltare una canzone di diversi anni fa di cui non ricordavo né il titolo né l’artista. L’ho ascoltata fino in fondo confidente sul fatto che il dj facesse il suo lavoro e ricordasse a tutti titolo e artista. E invece niente. Così mi sono precipitato subito nei miei archivi della memoria e ho aperto tutti cassetti.

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Non mi giudicate – 2023

Un altro anno è arrivato in fondo e come di consueto mi fermo un momento per tirare le somme e cercare di riassumere qui quanto di meglio ho ascoltato quest’anno. Dei 73 album pubblicati quest’anno e che ho ascoltato ho dovuto fare una scelta e a malincuore lasciarne fuori parecchi altrettanto meritevoli. Ecco dunque la mia personalissima lista di fine anno.

  • Most Valuable Player: Margo Price
    L’album Strays e la sua successiva versione estesa, ci fanno ascoltare una Margo Price ispirata e finalmente sobria. Ormai questa cantautrice sembra aver trovato la sua strada.
    Una mentina in tasca e una pallottola tra i denti
  • Most Valuable Album: Thank God We Left The Garden
    Questo album di Jeffrey Martin aveva già un posto prenotato in questa lista, tanto era la fiducia in lui. Fiducia pienamente ripagata da un album profondo e personale.
    Alla fine, niente ha importanza, figliolo
  • Best Pop Album: Lauren Daigle
    Lauren Daigle ci regala un album pieno di vita e colori, per tutti i gusti. Una voce meravigliosa che sa toccare le corde giuste e andare al di là del suo particolare genere musicale.
    Vedo angeli che camminano per la città
  • Best Folk Album: A Seed Of Gold
    Scelta non facile ma ho voluto premiare il folk tradizionale di Rosie Hood e la sua band. Un ritorno fatto di ottime canzoni caratterizzate dalla voce unica di quest’artista.
    Un regalo riservato agli amici lontani
  • Best Country Album: Ain’t Through Honky Tonkin’ Yet
    Nonostante la spietata concorrenza, la spunta Brennen Leigh, con un album ben scritto e orecchiabile. Il suo stile unico e riconoscibile rendono questo album semplicemente perfetto.
    A volte sento di non avere un posto dove andare
  • Best Singer/Songwriter Album: Dreamer Awake
    Tanti ottimi album potevano rientrare in questa categoria ma questo di Rachel Sermanni è un ritorno molto gradito e rende giustizia al suo talento di cantautrice.
    Lascia che i segreti entrino dalla porta
  • Best Instrumental Album: Haar
    Lauren MacColl è una delle violiniste più prolifiche della scena folk scozzese, anche grazie alle sue numerose collaborazioni. Quando si mette in proprio ci regala sempre ottimi brani strumentali.
  • Rookie of the Year: Snows of Yesteryear
    Non sono pochi i debutti di quest’anno a questo trio ma Snows of Yesteryear mi ha sorpreso più degli altri con il suo album omonimo. Un ottimo mix di canzoni folk con contaminazioni rock e alternative che conquista subito.
    La neve dei tempi andati
  • Sixth Player of the Year: Ida Wenøe
    Pochi dubbi, la sorpresa di quest’anno si rivela essere la riscoperta di questa cantautrice danese con il suo Undersea. Un  album di canzoni folk di ottima fattura.
    Non ho mai saputo niente dell’amore
  • Defensive Player of the Year: Bille Marten
    Drop Cherries è l’album che ci si aspettava da questa cantautrice che continua a portare le sue sonorità distese e riflessive. Sempre un piacere ascoltarla.
    Non è rimasto niente per cui piangere
  • Most Improved Player: Kassi Valazza
    Con il suo Kassi Valazza Knows Nothing, dimostra un cambio di approccio alla sua musica, ora fatto di ballate in bilico tra classico e moderno. Un nuovo interessante inizio per lei.
    Non sai come funziona il fuoco
  • Throwback Album of the Year: Peculiar, Missouri
    Non sono molti gli album che sono andato a pescare dagli anni passati ma la scelta non è stata semplice. Willi Carlisle però si è distinto particolarmente con il suo country vario e carismatico.
    Mi ritorni in mente, ep. 88
  • Earworm of the Year: The Coyote & The Cowboy
    Non volevo lasciare fuori il buon Colter Wall da questa lista e dopotutto questa canzone, una cover di Ian Tyson, è così riuscita ed orecchiabile che mi è entrata subito in testa.
    Si deve riempire il grande vuoto con piccole canzoni
  • Best Extended Play: Forever Means
    Angel Olsen non delude mai anche quando si limita a proporre una manciata di canzoni. Ormai questa cantautrice è una garanzia e anche in questa occasione si dimostra una delle migliori del suo genere.
  • Honourable Mention: Jamie Wyatt
    Questo suo nuovo album intitolato Feel Good è un deciso passo in avanti e un cambio di rotta davvero sorprendente e non poteva mancare in questa lista di fine anno.
    Non abbiamo bisogno di morire senza ricordi

Non mi lascerai entrare con questo tempo

Esattamente dieci anni fa debuttavano con l’EP The Weight Of The Globe, seguito dall’album omonimo del duo, le sorelle Jurkiewicz, note con il nome Lily & Madeleine. Questo mese hanno pubblicato il loro quinto album, Nite Swim, a distanza di quattro anni dal precedente. Le sonorità folk degli esordi sono ormai un ricordo e il loro posto è stato preso da un indie pop etereo e disteso. I singoli che hanno anticipato questo disco confermano la scelta di proseguire per la strada intrapresa ma gli anni passano e, ascolto dopo ascolto, Nite Swim, rivela un cambiamento, a tratti impercettibile, ma presente.

Lily & Madeleine
Lily & Madeleine

Canzoni come Windowless Bedroom e Rolling Rock lasciano intendere che c’è continuità con il precedente album Canterbury Girls, a partire dal tratto più caratteristico, ovvero l’armonia della due voci. La title track Nite Swim si affida ad un’essenziale indie pop nel tipico stile del duo, con l’aggiunta di distorsioni a contrasto. Un po’ di rock lo si ritrova anche successivamente e in maniera più marcata in Good Things e nella poetica Embers. La conclusiva Lost Boys mescola pop e rock, addolcito dalla voce morbida della sorelle. Nonostante tutto però, il folk prova a riemergere nella bella Ocean Ave e sottotraccia anche nell’affascinante Decaying Rules. L’elettronica non manca e si fa sentire in Part Of Me o nella sfuggente Cologne.

Nite Swim ci offre la possibilità di ascoltare Lily & Madeleine in una varietà di forme più ampia di quanto sia stato possibile finora ma non è questo a rendere l’album diverso dai precedenti. C’è un cambiamento più profondo ed inevitabile. Queste due ragazze appaiono artisticamente più mature, consapevoli e coraggiose, intenzionate a lasciarsi alla spalle l’immagine di giovani promesse. Sì, Nite Swim è l’ennesimo passo in avanti per le sorelle Jurkiewicz, un passo verso un’identità sempre più definita, che in questa occasione, come mai prima, riparte anche dagli esordi, abbracciando un processo di crescita inesorabile che le vede sempre più padrone del loro destino.

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I giorni più selvaggi sono alle spalle

L’album di debutto, Reckless, uscito due anni fa ci aveva fatto scoprire una delle voci più interessanti e carismatiche degli ultimi anni, ovvero quella di Morgan Wade. Fu un esordio solido il suo, fatto di canzoni pop rock ma dalle influenze country, che hanno spinto in alto le aspettative di questo nuovo disco, intitolato Psychopath. Una prova difficile la sua, anche perché quella ragazza insicura e contro il mondo ha incontrato il successo e quindi la fiducia in sé stessa.

Morgan Wade
Morgan Wade

Se si comincia ad ascoltare questo album dalla title track Psychopath, sembra che la Wade non si sia allontanata di molto dalle sonorità del suo esordio. Sonorità che ritroviamo anche in Domino, trascinante rock dal retrogusto squisitamente made in USA. Anche una ballata come Want non ci sarebbe stata male allora, cosi come la bella Roman Candle, dalle chiare influenze del pop rock anni ’90. Lo stesso si potrebbe dire della malinconica Outrun Me, che poggia quasi esclusivamente sulla forze della voce della Wade. Andando avanti nell’ascolto troviamo altre ballate degne di nota, come Guns and Roses, guidata dalle note del pianoforte e la conclusiva 27 Club. Per trovare qualcosa che si discosta più o meno nettamente dal recente passato dobbiamo ascoltare la scanzonata, ’80 Movies, che sa tanto di country pop d’altri tempi. Un rock un po’ più sporco muove Losers Looks Like Me, una canzone colma di rimpianto, ma è con la mia preferita Alains (dedicata alla Morissette) che si può sentire davvero la scossa che spezza l’album in due. Non è da meno Meet Somebody che si affida a delle sonorità spudoratamente grunge, celebrando ancora i bistrattati anni ’90. In fondo troviamo la spensierata e insolita Fall In Love With Me, che in qualche modo sancisce il cambiamento.

Psychopath ci restituisce una Morgan Wade che prova ad affondare di più la penna nel suo animo, facendo emergere il suo volto più rock. Le sonorità country sono quasi del tutto scomparse, in favore di qualcosa di più orecchiabile e immediato. Rispetto a Reckless, questa cantautrice, ha fatto dei passi in avanti, affinando la scrittura e provando a variare in maniera più decisa. In definitiva Psychopath è un seguito degno del suo predecessore che apre nuove strade per Morgan Wade, strade che possono avere svolte improvvise ma sempre più dirette verso uno stile personale e riconoscibile, ancora in parte nascosto sotto la superficie.

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Vedo angeli che camminano per la città

Nel 2019, esplorando il vasto mondo della musica pop, sono inciampato nel nome di Lauren Daigle, cantautrice americana che l’anno precedente ebbe un discreto successo con il suo secondo album Look Up Child. Non ci sarebbe nulla di eccezionale se non fosse che la musica della Daigle ha una matrice fortemente cristiana. Anche se da noi, qui in Italia, ci pare impensabile che della musica pop di ispirazione religiosa riempia i palazzetti, in USA è piuttosto comune. Resta pur sempre un genere con un target preciso e perciò difficilmente un artista ha un successo su larga scala. Eppure Lauren Daigle è riuscita in qualche modo a rompere questa consuetudine grazie a canzoni orecchiabili e di più ampio respiro, una voce eccezionale e, perché no, una bella presenza (che nella musica pop non guasta mai). Anche io ne sono rimasto incuriosito e devo ammettere che Look Up Child l’ho ascoltato parecchie volte in questi anni. Sarà lo stesso per il nuovo album omonimo, Lauren Daigle?

Lauren Daigle
Lauren Daigle

La traccia di apertura nonché singolo di punta Thank God I Do riprende laddove terminava Look Up Child. Voce calda e spesso graffiata, che canta la bellezza di aver trovato Dio, con un accompagnamento essenziale ma efficace. Tra le mie preferite c’è sicuramente la bella Saint Ferdinand, che vede la partecipazione di Jon Batiste e Natalie Hemby. Una canzone di rinascita, orecchiabile e leggera. Canzoni come New e Ego si rifanno ad un pop soul caro alla Daigle, a suo agio anche grazie alle sue doti vocali che ben si prestano allo scopo. Il pop di Waiting è carico di energie con i suo ritmo trascinante che ritroviamo anche in These Are The Days, in maniera ancora più marcata. Non mancano i momenti più riflessivi come la bella To Know Me, illuminata dalle note del pianoforte e dalla splendida voce della Daigle. Allo stesso modo Don’t Believe Them si poggia su in testo forte, che fa riflettere, circondato da un’atmosfera scura e affascinante. Valuable è la classica canzone di conforto che funziona sempre ma che la Daigle riesce comunque a rendere piacevole. Kaleidoscope Jesus esce un po’ dai binari dell’album, nella forma ma non nella sostanza. Anzi è molto più esplicito nei rifermenti religiosi rispetto al resto dell’album.

Al di là del messaggio religioso che questo album porta inevitabilmente con sé, spesso solo accennato e a volte più marcato, Lauren Daigle riesce ancora una volta a lasciare aperta interpretazione ai suoi ascoltatori. I temi affrontati e i sentimenti positivi permeano ogni nota di questo disco che, pur riservando qualche sorpresa, si mantiene fedele alle atmosfere del suo predecessore. Tra pop e soul, questo Lauren Daigle, conferma il talento di una cantautrice che ha saputo ottenere successo insistendo su di un genere musicale lontano dal consueto immaginario della musica pop. Insomma, se volete ascoltare della buona musica pop che non sia fatta di banali canzoni d’amore, autocompiacimenti e figaggine, tenete in considerazione Lauren Daigle e non rimarrete delusi, anche se l’idea di un pop cristiano vi pare un po’ bizzarra.

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Meglio tardi che mai, ep. 4

In questo mese di maggio ho lasciato da parte il blog qualche settimana di troppo nonostante qualche nuova uscita musicale interessante. Cercherò di rimediare nelle prossime settimane e intanto concedetemi di raccogliere in un unico post gli album che ho ascoltato e che meritano comunque una citazione tra queste pagine. Non vorrei affidarmi a questa forma di post spesso ma dopotutto dall’ultimo “episodio” è passato un mese. Ah, come passa il tempo!


Avrei voluto scrivere una recensione per il nuovo album di Lael Neale ma poi le cose sono andate diversamente. Il nuovo Stars Eater Delight segue lo sperimentale Acquainted With Night del 2015. Allora il cambio di sonorità fu piuttosto drastico, molto distante dalle atmosfere indie folk dell’esordio. In quest’ultima occasione invece la Neale torna sui suoi passi facendo però tesoro delle sperimentazioni precedenti. Il risultato è un album meno frammentario e più accattivante anche se non facilmente accessibile. Insomma, Stars Eater Delight mi piace più del suo precedessore che ammetto essere finito nel dimenticatoio.


The Sun era destinato ad una suo post dedicato, anche solo per il fatto che le sorelle Closner, Allison, Meegan, e Natalie le seguo dal 2014, anno del loro debutto sotto il nome di Joseph. Il loro pop è una fuga dai soliti generi musicali che ascolto e il precedente Good Luck, Kid ha segnato un passo in avanti molto deciso, soprattutto in termini di produzione. Questo The Sun di fatto prosegue per la stessa strada senza aggiungere nulla di più. La musica dello Joseph resta piacevole da ascoltare ed è carica di energia (forse troppa) e sentimento. A chi piace il pop fatto di inni esplosivi e vitali, qui troverà pane per i suoi denti.


Chiudo con due consigli folk, partendo da Wise As A Fool della cantautrice e arpista Georgie Buchanan. Il suo è un folk che prende spunto dalla tradizione inglese ma che, nelle sue mani, si trasforma in qualcosa di più alternativo ed etereo. Tra contaminazioni celtiche e magiche, questo album cattura fin dai primi ascolti. Ogni volta è come entrare in un mondo sconosciuto e misterioso. Otto brani che mi hanno sorpreso positivamente perché pensavo di ascoltare qualcosa di più tradizionale.


Ultimo ma non ultimo, l’esordio della cantautrice scozzese Beth Malcom, intiolato Kissed And Cried. Anche in questo caso ero pronto per ascoltare un altro ottimo album di canzoni tradizionali scozzesi e invece non è stato esattamente così. La Malcom abbraccia tutte le sfumature del folk, sconfinando a volte anche in sonorità vagamente jazz. Il tutto si poggia sulla voce calda e delicata di quest’artista, una voce con la quale può permettersi di fare qualsiasi cosa. Un album molto piacevole da ascoltare che spiazza per i suoi repentini cambi di rotta e la sua vitalità. Consigliato.

Solo due secondi

Cosa poteva offrire un’artista come Lana Del Rey dopo i due album, entrambi pubblicati nel 2021? Viene spontaneo chiederselo, perché in fin dei conti sono passati solo due anni da allora. Davvero Elizabeth Woolridge Grant è in un tale stato di grazia da riuscire a realizzare tre album in tre anni? La risposta è possibile trovarla nel nuovo e lungo (a partire dal titolo) Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd. Quello che si potrebbe considerare il nono album della sua carriera è anche il più lungo in termini di durata (poco dietro a Lust For Life) ma non per numero di tracce. Per questo motivo non capisco chi si sorprende della sua lunghezza, Lana Del Rey del resto ci ha abituati a i suoi album infiniti. Come ad ogni uscita, quest’artista americana mi mette nella condizione di sospettare che la sua deriva pop (ma davvero compiutasi) sia dietro l’angolo. Ma all’età di trentasette anni e l’influenza che ha avuto nella musica internazionale possono ancora farmi dubitare di lei?

Lana Del Rey
Lana Del Rey

The Grants è una canzone ricca di ricordi, dalle tipiche caratteristiche della Del Rey, che ci delizia con sua voce che galleggia sulle note del pianoforte. La title track Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd si ispira al Jergins Tunnel per dare vita alla classica canzone riflessiva e malinconica ma sempre ben riuscita. Sullo stesso solco procede la bella Sweet dalle atmosfere dolci e romantiche. A&W, contrazione di American Whore, è di tutt’altro tenore e ad affronta in oltre sette minuti i ricordi di una vita e la dipendenza dal sesso. Una canzone essenziale divisa in due parti, di cui l’ultima elettronica e dal gusto hip-hop. La controversa Judah Smith Interlude è la registrazione di un sermone del pastore vip Judah Smith. Una di quelle cose tipicamente americane, un po’ eccessive. Segue Candy Nacklace nella quale la Del Rey torna in territori più congeniali, collaborando con il musicista jazz Jon Batiste, che ritroveremo subito dopo nel dialogo a due intitolato Jon Batiste Interlude. Kintsugi ci restituisce una Del Rey particolarmente malinconica e nostalgica, seguita a ruota da Fingertips che rimane nella sua comfort zone almeno musicalmente. Il testo invece è un flusso di coscienza, senza filtri che impressiona per le sue immagini semplici ed immediate, reali e incredibilmente vicine. Lana non si fa mancare qualche sperimentazione con Paris, Texas, campionando I Wanted To Leave di SYML così com’è. Ancora la famiglia e ricordi sono al centro delle canzoni di questo album e Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing non fa eccezione. Il pensieri corrono al padre e al nonno in un ritratto familiare e malinconico, quasi una preghiera. In Let The Light In ritroviamo Father John Misty in un duetto su una relazione clandestina. Margaret vede la partecipazione del produttore Jack Antonoff ed è dedicata alla sua fidanzata Margaret Qualley. Una canzone intima e sincera, tra due amici. Fishtail riprende il tema della famiglia e dei ricordi nel tono sussurrato, non certo nuovo per la Del Rey, con l’aggiunta di un beat che ricorda i suoi esordi. Peppers si avvale della partecipazione della rapper Tommy Genesis che presta a Lana la sua Angelina per una canzone tutto sommato orecchiabile. L’album si conclude con Taco Truck x VB anch’essa divisa in due parti, nella seconda Lana cita sé stessa riproponendo una nuova versione della sua Venice Bitch.

Probabilmente per la prima volta nel corso della sua produttiva carriera, Lana Del Rey, si concede il lusso di guardarsi indietro e rimettere insieme i pezzi della sua vita musicale e non. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd ci propone un’artista che ormai da tempo a smesso i panni di pop star, non mancando di essere provocatoria quanto basta per rimanere nel personaggio (la foto in topless e le pose ammiccanti sono parte di esso). Ma poi emergono come sempre le debolezze, le insicurezze e i momenti difficili che Lana non ha mai nascosto. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd rappresenta una Del Rey che gioca a fare la Del Rey perché semplicemente è l’unica che se lo può permettere, anche sfruttando campionamenti e collaborazioni alla moda. Vi viene in mente un’altra artista, negli ultimi quindici anni, così riconoscibile e in grado di influenzare le generazioni a venire? Personalmente faccio fatica a trovare un altro nome. Di Lana Del Rey ce n’è una sola e ancora una volta fa la cosa giusta, rifilandoci l’ennesimo album lungo, lento e delreynesco ma del quale non ne possiamo fare a meno. Ah, e la risposta è sì, è in un tale stato di grazia da riuscire a realizzare tre album in tre anni.

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C’è vita laggiù nei posti più bui

Ho un ricordo legato all’album Dear Happy della cantautrice inglese Gabrielle Aplin: è stato uno degli ultimi album che ho ascoltato prima che l’epidemia cambiasse improvvisamente le nostre abitudini. L’album infatti risale a fine gennaio di quell’anno che tutti noi ricordiamo ma sono passati più di dieci anni da quando ascoltai per la prima volta quest’artista. Più passano gli anni e più si avvera il mio desiderio di partecipare al processo di crescita di un artista nel corso della sua carriera. Per la Aplin è arrivato il momento del suo quarto album, intitolato Phosphorescent. Dopo le vaghe contaminazioni folk degli esordi è passata più o meno rapidamente ad un pop cantautorale dal gusto squisitamente british. Con Dear Happy la svolta pop è stata decisamente più marcata e appariva più come la fine di un capitolo piuttosto che l’inizio di uno nuovo. Questo nuovo album, fin dai primi singoli, si è mostrato più maturo ed introspettivo rispetto al suo predecessore.

Gabrielle Aplin
Gabrielle Aplin

Phosphorescent non si discosta molto dal pop proposto dalla Aplin in questi ultimi anni e canzoni come Skylight, Take It Easy e Don’t Say, che poggiano su beat elettronici e ritornelli orecchiabili, si lasciano ascoltare più volentieri. In brani come Good Enough o l’ottimo singolo Call Me si possono riascoltare le sonorità più intense e leggere per le quali quest’artista ha sempre avuto particolare abilità nel dar loro equilibrio, anche grazie alla voce morbida e innocente. Non mancano canzoni nel quali emerge un sound pop soul come in Anyway o Wish Didnt Press Send che per lo meno ci offrono qualcosa di diverso da parte della Aplin. Spazio anche a ritmi danzerecci con Never Be The Same che scorre via senza pensieri, ripercorrendo il solco tracciato dal precedente Dear Happy. Per trovare l’anima di questo album bisogna cercarla in canzoni come Don’t Know What I Want o l’ottima Mariana Trench nelle quali la nostra si spoglia di qualsiasi orpello pop e scava dentro sé stessa. In quest’ultima in particolare, la voce della Aplin è sola con il pianoforte, come in passato è già successo e con ottimi risultati. Le atmosfere distese e effimere si ritrovano anche in Half In Half Out che incanta dando il giusto spazio all’influenza di un pop moderno e giovane.

Nonostante le apparenze, Gabrielle Aplin non è più una ragazzina e questo Phosphorescent in qualche modo sembra voler sottolineare questo passaggio importante. La spensieratezza lascia spazio alla riflessione ma non necessariamente alla tristezza o alla malinconia. La sua voce educata è tratto che più caratterizza le canzoni nelle quali ritrovano, in parte, le sonorità e le influenze degli esordi. Gabrielle ripercorre con Phosphorescent la strada intrapresa nel 2015 con Light Up The Dark (il mio preferito in assoluto tra i suoi) e successivamente smarrita, in alcune occasioni, nella ricerca di un pop moderno ma spesso poco personale e prevedibile. Phosphorescent è dunque un album ben riuscito che, tra alti e bassi, ci restituisce una Gabrielle Aplin ispirata e sulla via di una maturità artistica da tempo ricercata. Resta inteso che lei avrà sempre un posticino speciale tra la mia musica, che si è conquistato negli anni nonostante il suo non sia tra i miei generi preferiti. Per questo ha doppiamente il merito di esserci riuscita.

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