Meglio tardi che mai, ep. 3

È arrivato il momento di raccogliere in un unico post alcuni degli album che ho ascoltato durante questo primi mesi dell’anno ma che non ho avuto modo di riportare in precedenza qui su questo blog. Le nuove uscite incalzano con l’arrivo della primavera ed è giusto dare spazio anche a questi artisti, senza dilungarmi troppo ma lasciando che sia la musica a fare il resto.


Si comincia con il duo Phil Tyler e Sarah Hill che ripropone diverse canzoni della tradizione folk inglese con l’aggiunta di tre composizioni originali, raccolte sotto il titolo di What We Thought Was A Lake Was A Field Of Flax. Un album essenziale che rimane fedele ad un folk dalle caratteristiche riconoscibili, anche grazie alle storie che racconta, spesso ricorrenti nei temi e nella forma.


Dall’altra parte dell’oceano invece ho trovato un cantautore country che come tanti cerca fortuna in quel di Nashville. Il country di JD Clayton è personale ed intimo, spesso mescolato ad un sound blues. Il tutto accompagnato da una voce ruvida ma ancora giovane e dei testi ben scritti. Davvero una scoperta interessante che potrebbe riservare qualche sorpresa nel prossimo futuro. Non lo perderò di vista, nel frattempo mi ascolto il suo debutto intitolato Long Way From Home.


Ultimamente mi sto interessando agli album strumentali o che comunque contengono al loro interno molte tracce esclusivamente musicali. Tra questi ho riscoperto il gruppo scozzese Breabach che propone, nel suo Fàs, uscito lo scorso anno, un mix affascinante di brani strumentali e non solo. Tra testi in inglese e in gaelico, il gruppo guidato da Megan Henderson (che già conoscevo per il suo album solista Pilgrim Souls), affascina ad ogni nota. Una fortuna averlo recuperato per tempo.


Seguendo questo mio interesse sono arrivato sulle tracce di un trio di musicisti scozzesi che si presenta con il nome di ELÌR. Anche anche in questo caso Silver Sails si snoda tra brani strumentali e canzoni dalle sonorità uniche anche grazie alle influenze diverse portate dai componenti del trio, composto dalla scozzese Niamh MacKaveney (voce e violino), l’italiano David Lombardi (violino) e in francese Jean Damei from (chitarra)


Chiudo con qualcosa di piuttosto insolito ma che mi ha catturato al primo ascolto. L’album è composto da nove canzoni accomunate dalla particolarità di essere tutte sean-nós songs ovvero canzoni tradizionali irlandesi nelle quali la voce è usata come uno strumento musicale. Anche se spesso non prevedono l’uso di altri strumenti, qui la cantante e arpista Síle Denvir, è accompagnata dal suono di un violoncello. L’album Anamnesis ha un fascino tutto particolare e meditativo.

Non è rimasto niente per cui piangere

Quasi dieci anni fa ascoltavo per la prima volta la voce e la musica della cantautrice inglese Billie Marten. Da allora molto è cambiato intorno a noi ma le canzoni di questa artista sembrano rimaste sospese nel tempo. Album dopo album, Billie Marten, si è mossa sulla scena musicale con la sua consueta delicatezza e serenità proponendo sempre un folk genuino e sincero. Questa sua caratteristica è rimasta pressoché inalterata nel corso degli anni, arrivando fino ad oggi con l’album Drop Cherries, il quarto della sua carriera. A soli ventiquattro anni questa cantautrice ha saputo ritagliarsi il suo spazio all’interno del panorama indie folk, decisamente inflazionato negli ultimi anni, grazie al suo stile particolare e la coerenza che l’ha contraddistinta.

Billie-Marten
Billie-Marten

L’album si apre con la strumentale New Idea nella quale la voce della Marten è uno strumento aggiunto. Ritroviamo il canto e le parole nella bella God Above, una luminosa poesia folk arricchitta da archi e fiati. La successiva Just Us riporta a sonorità più consuete per quest’artista che ritroviamo poi anche in I Can’t Get My Head Around You, una canzone che parla d’amore con un piglio pop. Willow è un altro esempio della poetica della Marten, fatta di immagini famigliari e malinconiche. Acid Tooth rallenta ancora di più e ci fa apprezzare una Billie ancora più riflessiva, caratteristica che ritroviamo poi in Devil Swim in maniera più intima e sognante. I Bend To Him è un canzone scarna ed essenziale che si poggia quasi esclusivamente sulla fragile voce della cantautrice. Le sonorità luminose si possono tornare a sentire in Nothing But Mine per continuare in maniera più dolce e delicata in Arrows. Bille Marten non accelera e non rallenta mai, continua costante con il suo passo arrivando alla bella Tongue che si apre con le note di un pianoforte. Poesia e archi danno forma ad un piccolo gioiellino di semplicità e naturalezza. Il singolo This Is How We Move è tutto quello che ci si aspetta da questa cantautrice che chiude poi l’album con la title track, Drop Cherries. Una gentile riflessione sulla vita e sull’amore.

Drop Cherries è un album essenziale come i precedenti, che fa leva sui sentimenti e sulle nostre fragilità piuttosto che sulle melodie orecchiabili e ricchi accompagnamenti. Billie Marten ci offre così ben tredici brani, ognuno di essi non vive di vita propria, non c’è uno singolo che spicca sugli altri, tutti sono immersi in un’atmosfera distesa e malinconica. Non c’è tristezza ma la perenne ricerca di un equilibrio, di una pace interiore che nasce dalle piccole cose. Drop Cherries dimostra la costanza di Billie Marten nel proseguire per la sua strada, ricalcando all’infinito le sue sonorità ma trovando sempre ispirazione nella fasi della sua vita. Ascoltando quest’artista ci si ritrova sempre in uno stato di placida ammirazione per il suo genuino talento.

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Se quell’oceano è ancora blu

Durante tutta la settimana mi appunto sempre qualche artista interessante al quale concedere un ascolto più approfondito appena possibile. Sono molti gli artisti ai quali concedo un “assaggio” ma sono pochi in effetti quelli che poi mi convivono davvero. A volte bastano pochi secondi come nel caso di Ellie Turner, cantautrice americana al suo esordio con l’album When The Trouble’s All Done. Gli album di debutto mi attirano sempre e non potevo sottrarmi al desiderio di immergermi in queste dieci canzoni. Sapevo benissimo che non avrei avuto grosse sorprese ma a volte è proprio questo che cerco. Lo stile americana e la voce pulita mi bastano e avanzano per sentirmi al sicuro.

Ellie Turner
Ellie Turner

Il singolo One More Day traccia in modo chiaro e inconfutabile quali saranno le atmosfere e le caratteristiche di questo album e della Turner. La malinconia esce da ogni nota ma c’è spazio anche al romanticismo come in The ‘I Love You’ Song. Il titolo la dice lunga sul contenuto di questa canzone zuccherosa che sembra pensata quasi per gioco. Canzoni come Daughter e Wandering evidenziano tutta la sensibilità di questa cantautrice, capace di dare vita a canzoni fragili e poetiche. La semplicità e la difficoltà di dire addio prendono forma nella bella A Little Farther Down The Line. Il suo stile classico e senza tempo sono un valore aggiunto da non sottovalutare, soprattutto in un album d’esordio come questo. Katabatic si ispira al vento per tessere un brano luminoso e la successiva If That Ocean’s Still Blue è un delicato valzer sempre segnato dalla malinconia e dalla fragilità delle parole. Ancora spazio all’amore in Holyoke nel quale emerge con forza la delicata voce della Turner che incanta ad ogni strofa. L’unica cover dell’album è Oh, Sister di Bob Dylan, artista che ha influenzato questo album dalla prima all’ultima nota. La title track When The Trouble’s All Done è una sorta di ninna nanna che ci accompagna alla conclusione di questo album.

When The Trouble’s All Done è un buon album di debutto che ci fa scoprire Ellie Turner attraverso canzoni personali e fragili. Ogni brano, registrato dal vivo e in acustico, restituisce un’esperienza genuina ed intima. Le influenze dei cantautori folk americani si fanno sentire ma è normale all’inizio di una carriera in questo genere musicale. La voce è forse il tratto più caratteristico di quest’artista e non è affatto nascosta dall’accompagnamento musicale, anzi è valorizzata dall’essenzialità di quest’ultimo. When The Trouble’s All Done può essere l’inizio di qualcosa di più importante, le premesse sono ottime, non resta che goderselo ed aspettare.

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Solo due secondi

Cosa poteva offrire un’artista come Lana Del Rey dopo i due album, entrambi pubblicati nel 2021? Viene spontaneo chiederselo, perché in fin dei conti sono passati solo due anni da allora. Davvero Elizabeth Woolridge Grant è in un tale stato di grazia da riuscire a realizzare tre album in tre anni? La risposta è possibile trovarla nel nuovo e lungo (a partire dal titolo) Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd. Quello che si potrebbe considerare il nono album della sua carriera è anche il più lungo in termini di durata (poco dietro a Lust For Life) ma non per numero di tracce. Per questo motivo non capisco chi si sorprende della sua lunghezza, Lana Del Rey del resto ci ha abituati a i suoi album infiniti. Come ad ogni uscita, quest’artista americana mi mette nella condizione di sospettare che la sua deriva pop (ma davvero compiutasi) sia dietro l’angolo. Ma all’età di trentasette anni e l’influenza che ha avuto nella musica internazionale possono ancora farmi dubitare di lei?

Lana Del Rey
Lana Del Rey

The Grants è una canzone ricca di ricordi, dalle tipiche caratteristiche della Del Rey, che ci delizia con sua voce che galleggia sulle note del pianoforte. La title track Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd si ispira al Jergins Tunnel per dare vita alla classica canzone riflessiva e malinconica ma sempre ben riuscita. Sullo stesso solco procede la bella Sweet dalle atmosfere dolci e romantiche. A&W, contrazione di American Whore, è di tutt’altro tenore e ad affronta in oltre sette minuti i ricordi di una vita e la dipendenza dal sesso. Una canzone essenziale divisa in due parti, di cui l’ultima elettronica e dal gusto hip-hop. La controversa Judah Smith Interlude è la registrazione di un sermone del pastore vip Judah Smith. Una di quelle cose tipicamente americane, un po’ eccessive. Segue Candy Nacklace nella quale la Del Rey torna in territori più congeniali, collaborando con il musicista jazz Jon Batiste, che ritroveremo subito dopo nel dialogo a due intitolato Jon Batiste Interlude. Kintsugi ci restituisce una Del Rey particolarmente malinconica e nostalgica, seguita a ruota da Fingertips che rimane nella sua comfort zone almeno musicalmente. Il testo invece è un flusso di coscienza, senza filtri che impressiona per le sue immagini semplici ed immediate, reali e incredibilmente vicine. Lana non si fa mancare qualche sperimentazione con Paris, Texas, campionando I Wanted To Leave di SYML così com’è. Ancora la famiglia e ricordi sono al centro delle canzoni di questo album e Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep-sea fishing non fa eccezione. Il pensieri corrono al padre e al nonno in un ritratto familiare e malinconico, quasi una preghiera. In Let The Light In ritroviamo Father John Misty in un duetto su una relazione clandestina. Margaret vede la partecipazione del produttore Jack Antonoff ed è dedicata alla sua fidanzata Margaret Qualley. Una canzone intima e sincera, tra due amici. Fishtail riprende il tema della famiglia e dei ricordi nel tono sussurrato, non certo nuovo per la Del Rey, con l’aggiunta di un beat che ricorda i suoi esordi. Peppers si avvale della partecipazione della rapper Tommy Genesis che presta a Lana la sua Angelina per una canzone tutto sommato orecchiabile. L’album si conclude con Taco Truck x VB anch’essa divisa in due parti, nella seconda Lana cita sé stessa riproponendo una nuova versione della sua Venice Bitch.

Probabilmente per la prima volta nel corso della sua produttiva carriera, Lana Del Rey, si concede il lusso di guardarsi indietro e rimettere insieme i pezzi della sua vita musicale e non. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd ci propone un’artista che ormai da tempo a smesso i panni di pop star, non mancando di essere provocatoria quanto basta per rimanere nel personaggio (la foto in topless e le pose ammiccanti sono parte di esso). Ma poi emergono come sempre le debolezze, le insicurezze e i momenti difficili che Lana non ha mai nascosto. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd rappresenta una Del Rey che gioca a fare la Del Rey perché semplicemente è l’unica che se lo può permettere, anche sfruttando campionamenti e collaborazioni alla moda. Vi viene in mente un’altra artista, negli ultimi quindici anni, così riconoscibile e in grado di influenzare le generazioni a venire? Personalmente faccio fatica a trovare un altro nome. Di Lana Del Rey ce n’è una sola e ancora una volta fa la cosa giusta, rifilandoci l’ennesimo album lungo, lento e delreynesco ma del quale non ne possiamo fare a meno. Ah, e la risposta è sì, è in un tale stato di grazia da riuscire a realizzare tre album in tre anni.

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