Il ragazzo della prateria

Quando ho saputo della pubblicazione del terzo album del cantautore canadese Colter Wall, sapevo esattamente cosa aspettarmi. Proprio così, niente sorprese, ne ero sicuro. Che genere di sorprese musicali può riservarci questo ragazzo dalla voce unica, il cappello da cowboy, una folta barba e i modi tranquilli? Cos’altro se non un genuino country fatto di storie che vale la pena di raccontare? Colter Wall non potrebbe fare altro nella vita che imbracciare una chitarra e cantarci una canzone delle sue o quella di qualcun altro se preferisce. Il suo Western Swing & Waltzes and Other Punchy Songs la dice lunga a partire dal titolo. Non resta che sedersi comodi e aspettare che la magia abbia inizio.

Colter Wall
Colter Wall

Western Swing & Waltzes apre l’album e subito veniamo rapiti dalle vivide immagini delle terre dell’ovest e dalla voce magnetica di Wall. Ogni volta che l’ascolto stento a credere che appartenga ad un ragazzo di soli venticinque anni, “It’s Western swing and waltzes / Like to wear out your boots / It’s horsehair floors, and Louis L’Amour / After they close the chutes / When they’ve rode up all the rank ones / And the chucks are out of sight / It’s Western swing and waltzes / In Saskatchewan tonight“. Il brano successivo I Ride An Old Paint / Leavin’ Cheyenne è un brano country tradizionale, conosciuto con due titoli diversi. Niente da aggiungere. Tutto perfetto, “When I die, take my saddle from the wall / Place it on my old pony, lead him out of his stall / Tie my bones to the saddle, turn our faces toward the West / We’ll both ride the prairie that we love the best“. Non posso nascondere che tra le mie preferite c’è questa cover di Big Iron dell’originale di Marty Robbins. Colter Wall ci racconta dell’incontro tra un ranger e un fuorilegge, con esito fatale per quest’ultimo. Orecchiabile ma senza alcun ritornello, se non quel big iron on his hip che ti ritrovi a canticchiare in men che non si dica. Da ascoltare, “To the town of Agua Fria rode a stranger one fine day / Hardly spoke to folks around him, didn’t have too much to say / No one dared to ask his business, no one dared to make a slip / The stranger there among them had a big iron on his hip / Big iron on his hip“. Altra bella canzone Henry And Sam. Wall ci racconta di questi due suoi amici che gli hanno salvato la vita. Saranno forse Benjamin Tyler Henry e Samuel Colt? Fucile e pistola, sono sempre stati dei buoni, ma pericolosi amici da queste parti, “Have you met my friend Henry? / Have you met my friend Sam? / One’s long and lean, one’s short and mean / Known quite well throughout this land“. La successiva Diamond Joe non una canzone originale di Wall ma, ovviamente, sembra cucita addossa a lui. Un’altra storia di frontiera, pochi strumenti ad accompagnarlo e tutto fila via liscio, “Well, his bread it was corn dodger / And his meat I could not chaw / And he drove me near distracted / With the waggin’ of his jaw / And the tellin’ of his stories / I mean to let you know / That there never was a rounder / That could lie like Diamond Joe“. High & Mighty è un’altra cover. L’originale di Lewis Pederson III non si discosta molto da quella di Wall, ma la sua voce fa la differenza. Una storia di un cavallo da rodeo affatto facile da cavalcare, “And we said let’s change his name to High and Mighty / He bucks higher than he should / And he’s mighty hard to ride / And on a saddle bronc that’s High and Mighty / If he can’t buck you off, you’ve learned to ride“. In Talkin’ Praire Boy, Colter Wall ci racconta ancora una storia, ma questa volta lo fa semplicemente parlando, accompagnato dal suono della chitarra, “Yeah, this city life’s sure got me tired / And it’s hard for a prairie boy to admire all the / Concrete and the towering skyscrapers“. Cowpoke è stata scritta da Stan Jones ed è un ballata solitaria che Colter Wall reinterpreta senza sbavature e con voce ruvida, “From Cheyenne to Douglas / The ranges I know / Cause I drift with the wind / No one cares where I go / I ain’t got a dime / In these ol’ wore out jeans / So I’ll stop eating steak / And go back to beans“. Rocky Mountain Rangers è una canzone originale, ispirata da un irregolare gruppo di volontari a cavallo, armati di fucili, fondato da un certo John Stewart nel 1885 e smantellato nello stesso anno. Colter Wall qui non nasconde il suo talento di cantautore, “Rocky Mountain Rangers, riding o’er the plains / Serve all the western Calvalry, there’s none any stranger / Rocky Mountain Rangers well equipped for danger / Mounted high in the year of ’85“. Ancora una canzone originale per chiudere questo album, Houlihans At The Holiday Inn. Malinconica ballata che racconta di un cantante country che viaggia per poter racimolare qualche soldo, rimpiangendo la vita spensierata di prima, “Throwing houlihans at the Holiday Inn / Haven’t put boot heel to belly since can’t remember when / And I’ll sing you all the songs of my working cowboy kin / Then it’s back to throwing houlihans at the Holiday Inn“.

Western Swing & Waltzes and Other Punchy Songs è un album nel quale è impossibile distinguere le canzoni originali da quelle tradizionali o dalle cover, senza informarsi a riguardo. La bravura di Colter Wall sta nel reinterpretarle nel modo più naturale possibile, senza volerle modernizzare o sperimentando nuove soluzioni. Questo album l’ho trovato più accessibile dei precedenti, anche per chi mastica poco musica western e country. La sua voce resta inconfondibile e si conferma il punto di forza. Concedete a questo ragazzo qualche minuto del vostro tempo e scoprirete uno dei volti nuovi più interessanti degli ultimi anni.

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Un lenitivo temporaneo

Quest’anno le uscite discografiche sono state influenzate dall’arrivo della pandemia e il secondo album della cantautrice norvegese Siv Jakobsen, ha visto la data di pubblicazione slittare di qualche mese. A Temporary Soothing, questo è il titolo, è uscito lo scorso agosto, a tre anni di distanza da The Nordic Mellow, ed è uno di quei casi in cui non ho esitato a fare un preordine con largo anticipo. Dalle terre del nord Europa arrivano sempre degli artisti interessanti, spesso di respiro internazionale, e Siv Jakobsen è indubbiamente una di queste e la sua seconda fatica era un banco di prova della tenuta delle sue atmosfere rarefatte e malinconiche.

Siv Jakobsen
Siv Jakobsen

Si incomincia con Fear The Fear, nella quale la Jakobsen confessa le sue paure ed incertezze, delle quali però sembra non poterne fare a meno perché sono il sale della sua musica, “But shake it off I can’t, I won’t / Cause what would I write about if I don’t / Shake it off I can’t, I won’t / Cause what would I write about / What would I write about / And what would I be about if I don’t fear the fear inside my bones“. La successiva Fight Or Flight affronta visioni di un futuro che porta ad un’inevitabile lento consumarsi. C’è tristezza ma anche una matura consapevolezza nelle parole di questa canzone, “I see you clear in flight / You are an all consuming light / I feel it all with fright / It is a never ending fight or flight / To lose, to love, to leave, to stay“. Shine, sotto un’apparenza minimale dal punto di vista musicale, risveglia sentimenti più positivi. La voce della Jakobsen è come sempre così eterea da essere sfuggente e fragile, “Oh, that the light, the light that shines / It burns, it burns for you / Oh and the dark, the dark that comes will die / And bring you back to shine / Bring you back to shine“. A Feeling Felt Or A Feeling Made affronta l’essere una cantautrice e quel bisogno di esprimere i propri sentimenti. La solitudine è uno di questi ma un interrogativo l’assilla, “And I wonder if loneliness is a feeling felt or a feeling made / Yes I wonder if loneliness is a feeling felt or a feeling made / Do we make it up as we go along / To feed our poetic lines“. Segue Fraud, Failure che introduce suggestioni elettroniche non troppo invadenti mescolare altre più folk. Ancora una volta il significato di essere artista riemerge nel testo, una riflessione ispirata e potente, “And as I write the words escape like shooting bits of blue to crumbled bits of paper / The only place to truly me / As I write the words escape like shooting bits of blue to crumbled bits of paper / The only place to truly know my mind“. La title track A Temporary Soothing è un intermezzo strumentale folk che ci accompagna alla successiva Anywhere Else. Qui, partendo dalla paura di guidare, ci confessa che camminare è un antidoto a qualsiasi preoccupazione. Dove la condurrà questo camminare è un mistero, “I’ve got my licence / But I’m scared of driving / So I keep walking everywhere / I’m scared of dying / Scared of breaking / Scared of killing someone else along my way“. Island è una canzone che introduce con più convinzione sonorità elettroniche, addolcite dal canto della Jakobsen. Scrivere canzoni e rivelare il proprio dolore è ancora tema di riflessione per lei, “Sifting art to gain / Make pennies from the pain / The glitter and the game / Forms a frightening refrain / To shape, to break, to recreate / I am an island“. Only Life sembra uscita direttamente dal suo album d’esordio, del quale condivide le impalpabili tinte folk e la poetica malinconia, prestando il titolo a questo disco, “Drinks and drugs and caffeine / Runs wild through his frame / To fill a void beneath his skin / It’s a hollow float / A temporary soothing“. From Morning Made To Evening Laid si colora di scuro, ansie e paure hanno preso il sopravvento. Siv Jakobsen ci conduce nelle profondità del suo animo, senza mezze parole, “We’re all sown from splitting bones / With the frailest of fabrics to keep us whole / So it’s no wonder / Our brains are failing / When there’s a constant hum, a dance, a drum inside“. Mothecombe è un breve ma suggestivo brano musicale che ci apre al finale di questo album e la sua I Call It Love. Una canzone poetica e toccante che apre uno spiraglio nella densa nebbia delle paure di questa artista, “The restless call it restless / The hungry call it lust / The frightened call it foolish / But I, I call it / I call it love“.

Non avrebbe potuto intitolarsi diversamente, A Temporary Soothing. Siv Jakobsen si apre a noi, con le sue paure, le sue ansie più profonde e lo fa attraverso ciò che sa fare meglio: le canzoni. Ecco dunque un album fatto di canzoni che raccontano cosa significhi fare canzoni e della difficoltà di farlo su sé stessi. Un lenitivo temporaneo, un’illusione che che tutto si possa risolvere attraverso una canzone. E credimi, Siv, anche noi che ascoltiamo speriamo possa succedere un giorno che una canzone riesca a spazzare via ogni pensiero e preoccupazione. Sappiamo che non sarà così ma ci godiamo questa temporanea sensazione che la paura sia passata attraverso canzoni come le tue.

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Un’altra estate è stata seppellita

Quest’anno Bandcamp, store online di musica digitale e non solo, ha intrapreso la lodevole iniziativa di cedere la propria percentuale sugli acquisti agli artisti, ogni primo venerdì del mese. Tutto questo è un gesto più che simbolico per far fronte alla crisi che ha colpito chi con la musica ci vive. In una di queste giornate ho scelto qualche nuovo album e tra questi c’era Cold House Burning della cantautrice canadese Camille Delean. Mi è bastata un veloce ascolto di qualche sua canzone per incuriosirmi e acquistarlo. Ho scoperto poi essere il suo secondo album e prima o poi ascolterò anche il suo debutto, perché questo mi ha davvero sorpreso.

Camille Delean
Camille Delean

Si comincia con le chitarre che aprono Idle Fever, Out Of Tune. La voce della Delean sembra distaccata, tormentata da una vena malinconica che finirà per percorre tutto l’album ma la musica è salvifica, “Every place I up and fled / Warmly settled in my head / Idle fever despite a move / Go further astray / The pain you made alone is your fuel for the day“. Sleep On è appunto sonnolenta con un ritmo lento. La musica è ridotta all’essenziale, con le chitarre ad accennare una melodia, amplificata dal canto della Delean, “I’m leaving the city / Feels better already / My worry’s got plenty of room / Stop letting go of me, pulling / I pull eternally, you’re blurry / Who am I speaking to“. Segue la bella Afraid Of People, che sotto un’apparenza leggera e sognante, nasconde un malessere, una paura che non accenna a passare, “Nowhere is safe / Afraid of everything I’ve ever seen before / I go by the rules / An easy fool, I’ve never played before / It’s only cheating / The winner’s the one afraid of feeling / No-mercy fear / It’s stifling here, swallowing fear“. Medicine Morning è tra le canzoni che preferisco di questo album, melodia e ritmo di intrecciano lenti dando vita a qualcosa di affascinante. Vibrazioni rock si insinuano del folk, rapendo l’ascoltatore fin dall’inizio, “A chronic burning / A dizzy yearning / Stay hungry / It’s a sweeter taste when you earn it / Half-hearted warring / A lazy warning / The poor old things / Looking for a lighter way“. Decisamente più folk, Fault Line (Late July). Camille Delean mostra il suo talento mescolando ancora ritmo e melodia, dedicando attenzione ai dettagli. Una canzone che sorprende ad ogni ascolto, “My fate is all around me / Lies waiting in the valleys all around me / Pulling down / We’re in for a long ride home / Place my bets and wait a while / She’s pulling down / The valleys around / Hang my dreams under the sun in late July“. Birthday vira verso qualcosa di più semplice e lineare. Basta una chitarra per dare inizio ad una delle canzoni più riflessive di questo album. Il tempo passa e quasi non ce ne rendiamo conto, “How many years have gone? / Have we been here long? / Look around, eyes open for days / Summer gazing / The time must be wrong / You said life would be long / And no one would hurt me“. Decisamente più scura Flash Flood (Milieu Intérieur). Il testo criptico, quel ritmo lento e martellante non fanno che accrescere il fascino di questo brano. La voce delle Delean appare ancora una volta distaccata ma così vicina, “I can see it in strangers / Floating and anchored / In footsteps behind / They move out of time / I have friends there“. Saturn Gravity sprofonda lentamente in un’atmosfera più cupa. Un ritmo che sostiene la voce della Delean che si trascina, come apatica, lungo i cinque minuti di questa canzone, “Don’t go crazy on your friends / Relax, be good, patience / You’ve got a strange way of feeling that’s all / Your own way of breathing“. La successiva Go Easy si riaccende con una melodia più positiva che fa da sfondo ad un altro testo piuttosto indecifrabile ma evocativo, “Stop looking for a reason you found it / No road to and no way around it / Go easy on a world only turning“. What I Lost In the Snow ha il compito di chiudere questo album. Ancora una volta la Delean sceglie di rallentare per dare voce alla sua malinconia, “Took all I can from the hazy high / Back to a place where down is the light / The world as I learned it a blinding blue / Buried a summer of you / Buried a summer of you“.

Cold House Burning è un album che ci fa apprezzare la ricerca, da parte di Camille Delean, di quella melodia che da vita ad una suggestione, un sentimento difficile da spiegare a parole. I testi sono piuttosto criptici e vaghi ma il ritmo, sempre piuttosto lento, e le note giuste danno vita a delle canzoni potenti e mai sopra le righe. La Delean non si lascia prendere la mano e si muove con attenzione e discrezione. Il suo approccio, sempre un po’ distaccato, ci fa percepire queste canzoni come una lunga riflessione, rendendoci partecipi di essa. Cold House Burning non è un album per tutti ma il suo spirito folk lo rende familiare, quasi confortevole, rivelandosi come una delle sorprese più gradite di quest’anno.

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Sognante malinconia

Più di un anno fa ho contribuito alla campagna di crowdfunding per la realizzazione dell’album di debutto della cantautrice inglese Ella Janes. Alla fine di questo luglio, in anticipo rispetto alla data ufficiale, ho ricevuto la mia copia di The Hypnotist. Devo essere sincero, ho contribuito “a scatola chiusa” perché conoscevo poco o nulla di quest’artista ma ho voluto darle fiducia. La sua musica sembrava essere nelle mie corde così non ci ho pensato molto. Ecco dunque The Hypnotist che mi ha accompagnato durante questa estate un po’ particolare.

Ella Janes
Ella Janes

L’album si apre con First Love, che ci introduce nella sue atmosfere delicate e romantiche. La voce della Janes è quasi un sussurro che ci culla tra melodie senza tempo. Mettetevi comodi e chiudete gli occhi. Travelling richiama le sonorità del pop francese e non è un caso visti i suoi trascorsi a Nantes. Un’aura di libertà e fuga si irradia dalle note di questa canzone, con la voce della Janes ancora una volta impalpabile ed evocativa. Il singolo Earth And Moon è un gioiellino poetico. Una canzone d’amore, un amore lontano come la Terra e la Luna che girano uno intorno all’altro, “Just as the earth and the moon never touch / Passing each other and sending their love / I’ll be keeping an eye from my place in the sky / And I’ll love you“. La title track The Hypnotist è, come da titolo, una canzone ipnotica. La musica minimale e la voce della Janes incantano l’ascoltatore con un delizioso pop romantico e sognante. Nantes richiama alla memoria i ricordi legati alla città francese. C’è tutta l’eleganza e il romanticismo della canzone francese, tanto cara a questa artista. La successiva California vira verso un folk pop deciso, sull’onda delle nostalgia. Il ritornello orecchiabile è uno dei più accattivanti dell’album, con quella voce lontana e inafferrabile. Tutto questo amore per la musica e la cultura francese si riversa in Deux Ans. Cantata in lingua francese, spicca tra le altre proprio per questa particolarità e l’aderenza agli stilemi della chanson. Segue Family Therapy che è una riflessione sulla famiglia, fatta con delicatezza e sentimento. La Janes dimostra anche qui una scrittura scorrevole, mai scontata. Davvero una bella canzone, “Friends of mine will ask me / ‘How are things with your Dad / Does he still make you sad?’ / I say ‘I keep a photograph on my bookcase / To remind me he’s the only one I have’“. Si chiude con It’s Alright Now con la sua melodia essenziale e la voce dolce della Janes. Qui è racchiuso lo spirito di questo album, i suoi colori e i suoi suoni.

The Hypnotist è un album che si potrebbe definire, semplicemente, romantico. Non nella sua accezione più in uso, ovvero quella riferita esclusivamente all’amore, ma quella originale. Il dizionario definisce romantico chi “è incline al sentimentalismo, alla fantasticheria, alla sognante malinconia“. Ebbene in Ella Janes possiamo trovare tutto questo, arricchito da un palpabile amore per la chanson francese, che in quanto a sentimentalismi, i francesi, non sono secondi a nessuno. The Hypnotist però non è un album stucchevole, tutt’altro. La voce morbida e sussurrata di questa cantautrice ci svela sentimenti veri e sinceri che fanno presa su chi ascolta, con facilità. Questo album è perfetto per l’imminente arrivo dell’autunno, che si porterà via i ricordi questa (strana) estate, lasciandoci quella gradevole sensazione che, alla fine, il romanticismo non è morto.

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