Non mi giudicate – 2023

Un altro anno è arrivato in fondo e come di consueto mi fermo un momento per tirare le somme e cercare di riassumere qui quanto di meglio ho ascoltato quest’anno. Dei 73 album pubblicati quest’anno e che ho ascoltato ho dovuto fare una scelta e a malincuore lasciarne fuori parecchi altrettanto meritevoli. Ecco dunque la mia personalissima lista di fine anno.

  • Most Valuable Player: Margo Price
    L’album Strays e la sua successiva versione estesa, ci fanno ascoltare una Margo Price ispirata e finalmente sobria. Ormai questa cantautrice sembra aver trovato la sua strada.
    Una mentina in tasca e una pallottola tra i denti
  • Most Valuable Album: Thank God We Left The Garden
    Questo album di Jeffrey Martin aveva già un posto prenotato in questa lista, tanto era la fiducia in lui. Fiducia pienamente ripagata da un album profondo e personale.
    Alla fine, niente ha importanza, figliolo
  • Best Pop Album: Lauren Daigle
    Lauren Daigle ci regala un album pieno di vita e colori, per tutti i gusti. Una voce meravigliosa che sa toccare le corde giuste e andare al di là del suo particolare genere musicale.
    Vedo angeli che camminano per la città
  • Best Folk Album: A Seed Of Gold
    Scelta non facile ma ho voluto premiare il folk tradizionale di Rosie Hood e la sua band. Un ritorno fatto di ottime canzoni caratterizzate dalla voce unica di quest’artista.
    Un regalo riservato agli amici lontani
  • Best Country Album: Ain’t Through Honky Tonkin’ Yet
    Nonostante la spietata concorrenza, la spunta Brennen Leigh, con un album ben scritto e orecchiabile. Il suo stile unico e riconoscibile rendono questo album semplicemente perfetto.
    A volte sento di non avere un posto dove andare
  • Best Singer/Songwriter Album: Dreamer Awake
    Tanti ottimi album potevano rientrare in questa categoria ma questo di Rachel Sermanni è un ritorno molto gradito e rende giustizia al suo talento di cantautrice.
    Lascia che i segreti entrino dalla porta
  • Best Instrumental Album: Haar
    Lauren MacColl è una delle violiniste più prolifiche della scena folk scozzese, anche grazie alle sue numerose collaborazioni. Quando si mette in proprio ci regala sempre ottimi brani strumentali.
  • Rookie of the Year: Snows of Yesteryear
    Non sono pochi i debutti di quest’anno a questo trio ma Snows of Yesteryear mi ha sorpreso più degli altri con il suo album omonimo. Un ottimo mix di canzoni folk con contaminazioni rock e alternative che conquista subito.
    La neve dei tempi andati
  • Sixth Player of the Year: Ida Wenøe
    Pochi dubbi, la sorpresa di quest’anno si rivela essere la riscoperta di questa cantautrice danese con il suo Undersea. Un  album di canzoni folk di ottima fattura.
    Non ho mai saputo niente dell’amore
  • Defensive Player of the Year: Bille Marten
    Drop Cherries è l’album che ci si aspettava da questa cantautrice che continua a portare le sue sonorità distese e riflessive. Sempre un piacere ascoltarla.
    Non è rimasto niente per cui piangere
  • Most Improved Player: Kassi Valazza
    Con il suo Kassi Valazza Knows Nothing, dimostra un cambio di approccio alla sua musica, ora fatto di ballate in bilico tra classico e moderno. Un nuovo interessante inizio per lei.
    Non sai come funziona il fuoco
  • Throwback Album of the Year: Peculiar, Missouri
    Non sono molti gli album che sono andato a pescare dagli anni passati ma la scelta non è stata semplice. Willi Carlisle però si è distinto particolarmente con il suo country vario e carismatico.
    Mi ritorni in mente, ep. 88
  • Earworm of the Year: The Coyote & The Cowboy
    Non volevo lasciare fuori il buon Colter Wall da questa lista e dopotutto questa canzone, una cover di Ian Tyson, è così riuscita ed orecchiabile che mi è entrata subito in testa.
    Si deve riempire il grande vuoto con piccole canzoni
  • Best Extended Play: Forever Means
    Angel Olsen non delude mai anche quando si limita a proporre una manciata di canzoni. Ormai questa cantautrice è una garanzia e anche in questa occasione si dimostra una delle migliori del suo genere.
  • Honourable Mention: Jamie Wyatt
    Questo suo nuovo album intitolato Feel Good è un deciso passo in avanti e un cambio di rotta davvero sorprendente e non poteva mancare in questa lista di fine anno.
    Non abbiamo bisogno di morire senza ricordi

Ancora un altro libro, ep. 15

Prima che finisca questo 2023 è bene che io raccolga qui le mie impressioni su gli ultimi libri che ho letto dallo scorso mese di luglio.

Il sesto volume della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind, intitolato La fratellanza dell’ordine, vede Richard e Kahlan impegnati ancora contro la minaccia dell’Ordine Imperiale. Come al solito sono costretti a dividersi e, come al solito, pensano sia per sempre. Ed ecco che il dramma della separazione inizia a diventare troppo ricorrente in questa saga. Questa volta è colpa di Nicci, una Sorella dell’Oscurità che inizialmente sembra essere un personaggio spietato e pericoloso ma poi Goodkind finisce per stravolgere tutto troppo velocemente, rendendolo anonimo. Richard, al solito, è bravo a fare tutto e questo spesso lo fa diventare prevedibile e in questa occasione anche un po’ insopportabile. La trama è meno complessa dei precedenti, con un finale insipido, piena di riempitivi (il capitolo 19 è inutilmente lungo) e carica di un significato piuttosto banale. Sappiamo bene che Goodkind voleva diffondere il relativismo ma per ora non mi sembra niente di così eccezionale. Sarebbe stato meglio si fosse preoccupato di essere meno infantile e semplicistico in alcuni passaggi e avremmo avuto un più che discreto fantasy d’intrattenimento.

Il secondo libro della trilogia di Stoccolma, intitolato 1794 e scritta da Niklas Natt och Dag, riprende le atmosfere del precedente e in parte anche le tematiche. Un thriller storico arricchito dalle descrizioni della città e dei suoi vicoli. Sembra quasi di vederla e di sentire gli odori nauseanti che le pervadono e di toccare le difficili condizioni di vita di allora. La scrittura è pulita, con capitoli spesso brevi e significativi, mai inutili. La struttura del romanzo è particolare, si passa da un punto di vista all’altro e si fanno dei passi indietro che poi permettono di comprendere meglio le vicende successive. Non mancano violenza e volgarità, le quali possono impressionare qualche lettore. Alla fine restano alcune questioni in sospeso che si concluderanno nel terzo volume.

Underworld di Don Delillo è così denso di contenuti che è difficile descrivere in poche parole che cosa racconta. I temi più ricorrenti che ho potuto cogliere sono: la spazzatura, i complotti, la guerra fredda, il nucleare, il numero tredici, l’educazione, l’arte e la cultura italo-americana. I personaggi che prendono parte a questo romanzo in realtà non sono molti e tutti entrano in qualche modo in contatto tra loro. Nella parte centrale, forse la più brillante ed eterogenea del libro, troviamo brevi spezzoni di vita americana, tutti rigorosamente scritti nello stile postmoderno di Delillo. L’autore fa avanti e indietro nel tempo, terminando, prima dell’epico epilogo, con un lungo flashback che va a chiudere il cerchio. Qualcosa rimane in sospeso, va a perdersi nel flusso di parole, negli ottimi dialoghi e nelle lunghe disamine. Ma così deve essere, è nello stile pulito e discorsivo di Delillo e nella sua visione postmoderna. Un libro che si deve leggere per il piacere di farlo, cogliendone i numerosi spunti di riflessione, e non per trovare colpi di scena (che non mancano) o per seguire una trama lineare.

Robert Harris prende in prestito l’idea di Philip K. Dick per il suo Fatherland, immaginando un mondo nel quale la Germania nazista vince la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è perfino migliore del precedente tentativo, più realistico e plausibile nel suo complesso. L’unico difetto è che non rappresenta davvero un valore aggiunto, anzi in un certo qual modo ne smorza la tensione. Se questo thriller fosse stato ambientato negli ultimi anni del conflitto, o subito dopo, invece che in un ipotetico 1964, a mio parere, sarebbe stato più interessante e la trama, con qualche accorgimento, sarebbe stata in piedi lo stesso. Il detective protagonista, solitario e tormentato, e la bella e brillante americana che lo aiuta nelle indagini, rendono questo romanzo piuttosto prevedibile nelle dinamiche. Il movente degli omicidi è quasi scontato, compensato però da un buon colpo di scena finale. Quello che resta è un buon thriller godibile, dal ritmo serrato e dalla particolare ambientazione ucronica ma non privo dei cliché del genere.

Il sesto volume de Le storie dei re sassoni, dal titolo La morte dei re, conferma le ottime qualità di narratore di Bernard Cornwell e il suo amore per la storia del regno d’Inghilterra. Come di consueto le note storiche ci rivelano le fonti, le quali, proprio perché esigue, permettono all’autore di prendersi numerose libertà nel rispetto della storia. Uhtred è figlio del suo tempo, intelligente ma superstizioso, irrispettoso ma fedele al suo giuramento, con comportamenti che alla morale moderna ci appaiono violenti ma purtroppo non lontani da quelli testimoniati nelle guerre di oggi. Tanto tempo è passato ma poco sembra essere cambiato. Sempre ottimo il giusto peso che Cornwell dà agli eventi paranormali e al ruolo delle donne del tempo. Lascio Uhtred alle sue avventure ancora una volta pienamente soddisfatto e con il desiderio di ritornare al più presto nelle terre della futura Inghilterra.

Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle, è un classico della fantascienza ormai entrato nell’immaginario comune anche grazie alle numerose trasposizioni cinematografiche. Un breve romanzo dallo stile scorrevole e serrato, con un deciso cambio di ritmo nella terza parte. I colpi di scena sono probabilmente ciò che rendono questo libro così famoso ma che però rischiano di oscurare il resto della storia che offre numerosi spunti di riflessione sul rapporto tra umani e animali. Su questo punto forse soffre di una visione un po’ datata, non più in linea con quella moderna, ma del tutto comprensibile se si considera che è stato pubblicato nel 1963.

Non abbiamo bisogno di morire senza ricordi

Non potevo chiudere l’anno senza consigliarvi il nuovo album della cantautrice americana Jaime Wyatt, intitolato Feel Good. Il suo predecessore, Neon Cross, si poteva considerare quasi un debutto ed uscì nel 2020 consolidando le mie buone impressioni riguardo la sua musica. Non mi aspettavo però un cambio di passo così deciso e una scelta stilistica così marcata per questo nuovo disco. Siamo sempre nei territori del country ma con forti influenze soul e southern rock che ben si sposano con la voce carismatica di quest’artista.

Jaime Wyatt
Jaime Wyatt

Il singolo World Worth Keeping spiega bene quali siano le caratteristiche del nuovo album e lo fa con una riflessione carica di amore per questa Terra e di speranza nelle nuove generazioni. La title track Feel Good apre alle sonorità soul cavalcando la voce della Wyatt mentre la successiva Back To The Country vira verso un trascinante southern rock ed entrando fin dai primi ascolti tra le mie preferite. Love Is A Place è un ottimo pezzo country soul, un inno di speranza che scorre via piacevolmente. Hold Me One Last Time è una ballata vecchio stile che apre la parte centrale dell’album caratterizzata da un ritmo lento, come in Where The Damned Only Go. Una canzone oscura e dolorosa, graffiata dalla voce unica della Wyatt. Si torna alle sonorità soul con la bella Althea, orecchiabile e misteriosa allo stesso tempo. Fugitive torna sulle sonorità country alla quale quest’artista ci aveva abituato, il risultato è un brano sincero e diretto. Che dire poi di Jukebox Holiday, un pezzo davvero ben riuscito ed accattivante. Ain’t Enough Whiskey è un classico brano country che racconta di un amore finito. L’ultima canzone di questo album è Moonlighter, una bella ballata che dimostra il talento della Wyatt nello scrivere i testi delle sue canzoni.

Feel Good è un album che cattura sempre di più ad ogni ascolto, capace di mescolare una forte componente emotiva ad un’altra più spensierata e rock. Jamie Wyatt con questo album sembra aver preso in mano la sua carriera, facendo delle scelte chiare ed ottenendo un ottimo risultato sotto tutti i punti di vista. Feel Good può rappresentare davvero un nuovo inizio, la strada giusta da intraprendere per trovare finalmente ciò che la fa “sentire bene”.

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Un regalo riservato agli amici lontani

Nel 2017 l’album The Beautiful & The Actual segnò l’esordio della cantautrice folk inglese Rosie Hood. Quest’anno è tornata con una nuova raccolta di canzoni, tradizionali e non, intitolata A Seed Of Gold e presentata insieme alla sua band, la Rosie Hood Band appunto, composta da Nicola Beazley, Rosie Butler-Hall e Robyn Wallace. Quest’artista ha già messo in mostra il suo talento nel ridare vita alla tradizione folk con un piglio giovane e fortemente radicato alla sua terra. Il suo ritorno con questo album è sicuramente la giusta occasione per confermare le buone impressioni di sei anni fa, supportata da un band all’interno di un progetto più ampio e non solo da solista.

Rosie Hood Band
Rosie Hood Band

Apre l’album The Swallow, una canzone ripescata dal passato, dal 1853 e riproposta quanto più fedelmente possibile anche grazie alle annotazioni originali riguardo alla melodia. Segue a ruota, Turtle Dove, riarrangiata dalla Hood che ne sceglie i versi più belli per farne questa versione. Lyddie Shears è la prima delle canzoni originali scritte da questa cantautrice e racconta la storia della strega Lyddie Shears che ancora oggi sarebbe la padrona di Winterslow Wood. Anche le successive cinque canzoni sono tutte originali ma stilisticamente fedeli alla tradizione, a partire dalla bella Marrow Seeds seguita da The Stranger On The Bank, scritta in risposta alla tradizionale Claudy Banks. Ethel è un gioiellino di parole e musica, leggero e poetico, così come la bella Wild Man Of The Sea. Tra queste spicca l’affascinante e oscura Tyger Fierce. Everything Possible è una cover dell’originale di Fred Small, riproposta in una chiave ancora più folk dell’originale e decisamente più ricca musicalmente. Bread & Roses si ispira ad una poesia del 1910 di James Oppenheim e qui proposta nella versione in musica di Mimi Fariña del 1974. Si chiude con Les Tricoteuses scritta da Jenny Reid, uno dei momenti più alti di questo album, ispirato alla figura delle lavoratrici a maglia che assistevano in prima fila alle decapitazioni durante la rivoluzione francese.

A Seed Of Gold è un album ricco di ottime canzoni folk dalle quali ancora una volta Rosie Hood, con la complicità della sua band, trae nuova linfa ed ispirazione. Tra brani tradizionali, cover ed originali si assapora la poesia della natura e la bellezza della vita che resiste. Un passo in avanti deciso e nella direzione giusta per Rosie Hood che si conferma essere una delle più talentuose cantautrici ed interpreti della scena folk inglese di nuova generazione. L’apporto di una band è stato fondamentale per dare maggiore profondità e forza alla sua musica dimostrandosi una scelta giusta. A Seed Of Gold è probabilmente l’album folk migliore che ho potuto ascoltare quest’anno.

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