Portando le speranze di una vita precedente

A sei anni di distanza dall’ultimo Jet Plane And Oxbow, ha visto finalmente la luce il nuovo album degli Shearwater, intitolato The Great Awakening. La sua realizzazione è stata messa alla prova dalle difficoltà economiche della band capitanata da Jonathan Meiburg, che ha dovuto ricorrere ad una fortunata campagna di crowdfunding. Lo stesso Meiburg nel frattempo ha anche pubblicato il suo primo libro, A Most Remarkable Creature: The Hidden Life and Epic Journey of the World’s Smartest Birds of Prey, ne quale racconta la sua passione per il caracara, uno dei rapaci più intelligenti del pianeta. L’arrivo della pandemia ha poi ulteriormente rinviato l’uscita del disco. The Great Awakening dunque si è fatto attendere ma è giunto finalmente il momento di ascoltarlo.

Jonathan Meiburg
Jonathan Meiburg

Highgate si apre subito con la voce carismatica di Meiburg. Una canzone che riporta alle sonorità precedenti ad Animal Joy e non è un illusione. Gli Shearwater tornano al loro sound più caratteristico, “Here comes your heart attack / Starless and bible black / And here is the endgame / Lightning flicks down again / Back in the wilderness / And inside of the sanctum“. No Reason procede lenta ed inafferrabile. La voce tratteggia parole che riecheggiano su un tappeto sonoro essenziale ma stratificato, “If one could only understand / All this speaking / And all the little boats rising / Encephalon ranging through time / (You’re wrong, you’re right) / That’s no reason to cry / It’s no reason to cry / You won’t look in its eyes“. Il singolo Xenarthran è una canzone dalle atmosfere notturne dove è la suggestione musicale e il suono della voce di Meiburg a fare la differenza. Un viaggio nel buio, ispirato dal mondo animale, chiuso dalla registrazione del richiamo delle scimmie urlatrici realizzata dallo stesso Meiburg, “While the night / Circles round the day / While the night / Circles round the day / The question is / How can you fool the mind / You fool the body / What’s in the box in the backseat / And dial down the senses / Flares as far as the eye can believe“. Laguna Seca è forse il brano che più si avvicina alla produzione recente della band. Una canzone inquieta soffocata dalle distorsioni che possiede un fascino particolare, “Walk into traffic / Or settle down / A sudden shiver / From underground / The hollow feeling / The yellow sky / And fortune favors / The bigger lie / Of ugliness / Offer me something / I’ll never return / The end of all respect / The lives on the brink / Of ugliness“. Everyone You Touch torna ad un suono pulito e meno stratificato che gira intorno alla voce unica del frontman di questa band. Una canzone che solo gli Shearwater possono fare, “Endlessly rustling / Talk and don’t pause for breath / Everyone coming here / Looking for someone else / Watching them tearing up / The tracks along the line / Mirror ball standing in / For galaxies of light“. Empty Orchestra è tra le mie preferite oltre che essere decisamente più orientata verso il lato più rock del gruppo. Torna quel sentimento di rabbia e di speranza che emergeva nei due album precedenti, “And what have you done? / What have you learned / From all these stubborn people? / It doesn’t bear thinking / When you look at it now / When it’s all against the needle / I couldn’t believe / You were never ashamed“. La successiva Milkweed è un brano profondamente essenziale e introspettivo. Il testo è scarno e soggetto ad interpretazioni e si rivela come emergendo dall’oscurità, “Sift through / What’s shining / Watering down the weeds / I think you enjoyed it / Look at him / He’s wrong / And he knows / He enjoys it / Warm bodies / Cold energy / Tungsten / Radium / Hexane / He enjoys it“. Detritivor procede lenta ed eterea. La voce di Meiburg è uno strumento musicale che si confonde con la musica. Inafferrabile ma densa di suoni, “Do you remember / Everyone look at your hands / The sun came over the mountains / And when I looked back / I didn’t see anyone / Where do you come from / And where do you go / I think I / Was sleeping / Until the first / Of the day’s / Fresh demands“. Segue Aqaba che incarna perfettamente lo stile degli Shearwater ma rappresenta anche un’eccezione. Infatti è una rara canzone d’amore, anche se non particolarmente esplicita in tal senso, “And floods the iris / Unfurls the waves / Ride them up, ride them up, ride them up / Ride them up, ride them up, ride them up / In the threshing of love’s / Distortions and shimmerings / The stubbornest husk / Flakes away“. There Goes The Sun è la canzone più lunga dell’album, sfiora infatti gli otto minuti, ma capace allo stesso tempo di scorrere via leggera, carica di speranza, “Under pallid skies / Endless traveling / All this rising and receding / Uncertain soldier / Doubled in, doubled in distress / Doubled in distress / Could you save yourself? / Staring long enough / Will the clouds relent / And show the moon / In strong relief? / Strung out or taken in“. Si chiude con The Wind Is Love che non solo racchiude lo spirito dell’album ma sul finale riproduce, sovrapposte, alcune delle tracce precedenti, “Far across the day / Carrying the hopes of a former life / That never fully died / Holding its shape in your mind again / It overruns your eyes / Fills the storm drains / Start now“.

The Great Awakening segna un ritorno potente di un band unica, da tempo ormai nelle mani salde di Jonathan Meiburg. Abbandonato il rock e la rabbia dei due album precedenti, gli Shearwater tornano a quelle sonorità dilatate e eteree che dagli esordi ne hanno caratterizzato la produzione. Non è un album semplice, né orecchiabile ma ogni ascolto rivela un pezzo di sé. Molte canzoni superano i cinque minuti di durata ma nonostante ciò The Great Awakening non risulta pesante, grazie alla sapiente scelta di non caricare troppo la musica e di lasciare, come sempre, spazio alla voce di Meiburg che rende gli Shearwater riconoscibili ed unici nel panorama alternativo. Bentornati.

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Speravo di parlare un po’, la musica era già iniziata

In questi ultimi due anni ho avuto la sensazione di aver precorso i tempi con largo anticipo, annusando nell’aria che la musica folk, americana, country o simili stava tornando di moda, soprattutto nella musica indie. Forse in questi anni difficili si è voluto tornare ad un genere riconoscibile, quasi di conforto, che ci riportasse in acque sicure. Ultimo è il caso di Angel Olsen, cantautrice americana con una carriera ormai più che decennale alle spalle, che con il nuovo Big Time ha messo da parte il pop alternativo per provare qualcosa di diverso, lasciandosi influenzare dal country appunto. Ero curioso riguardo a questo nuovo corso, certo che nella mani della Olsen non può che uscire qualcosa di buono.

Angel Olsen
Angel Olsen

All The Good Time non lascia dubbi su quali sonorità la Olsen abbia deciso di puntare. Una canzone celebra i bei momenti passati con la persona amata ma quell’amore è arrivato al capolinea, “Well I won’t be the one to keep holding you back / If there’s somethin’ you’re missin’ then go right ahead / I’ll be long gone, thanks for the songs / Guess it’s time to wake up from the trip we’ve been on / So long farewell, this is the end / And I’ll always remember you just like a friend“. La title track Big Time è ancora più marcatamente country ma la voce e l’interpretazione della Olsen sono al di sopra di qualsiasi genere. Una delle più belle canzoni dell’album, “And I’m losin’, I’m losin’, I’ve left it behind / Guess I had to be losin’ to get here on time / And I’m living, I’m loving, I’ve loved long before / And I’m loving you big time, I’m loving you more“. La successiva Dream Thing rallenta e si riprende le sonorità più eteree che da sempre la produzione di questa artista. L’atmosfera malinconica e l’accompagnamento sono il punto di forza di questa canzone, “I was lookin’ at old you, lookin’ at who you’ve become / I was hopin’ to talk some, music had already begun / I never thought that you / Wouldn’t be able to / Put it all behind / I guess I was blind“. Sulle note di un pianoforte prende forma Ghost On. Con voce calda e morbida, Angel Olsen si prende la scena. Una ballata dolce che emoziona con semplicità, “I know I have my own remorse / I often overthink, of course / The past is with us, it plays a part / How can we change it? How do we start?“. Non nascondo che All The Flowers è una delle mie preferite di questo album. Angel sfodera la sua voce più melodiosa, con quel suo modo unico di cantare, dando corpo ad una poesia (la melodia mi ricorda un’altra canzone, forse italiana, ma non sono riuscito a capire quale), “I’ll be gone so fast, I’ll fly / Across the midnight sky / Arrived or leaving / You can bet I’m dreaming / You can bet I’m dreaming / I’ve been spending too much time / Searching in vain, to find / The only reason / The only reason“. Right Now è ancora un’altra canzone che mescola la vocazione indie della cantautrice con lo stile country, questa volta strizzando l’occhio al rock, “We all know that it’s hard / Hard to stay forever / But I’m telling you right now / If we’re apart or here together / I need to be myself / I won’t live another lie / About the feelings that I have / I won’t be with you and hide“. Segue This Is How It Works, che pesca a piene mani dal country ma la Olsen non rinuncia a dare il suo tocco personale. Probabilmente questa è la canzone più country dell’album, “I know you can’t talk long / But I’m barely hanging on / I’m so tired of telling you / It’s a hard time again / It’s a hard time again / Tell me something good / Pull me out from what I’m in“. Go Home va in controtendenza, una dolorosa confessione che si esprime attraverso alti e bassi in un folk rock liberatorio, “I wanna go home / Go back to small things / I don’t belong here / Nobody knows me / How can I go on? / With all those old dreams / I am the ghost now / Living those old scenes“. Through The Fires è un lento che danza sulle note del pianoforte e si affida alla voce della Olsen. Una canzone meravigliosa e dalle sonorità classiche e senza tempo, “I felt the change and it came back around / Then I moved in to the feeling I found / And the feeling I found showed me how I could lose / To love without boundary and put it to use“. Si chiude con Chasing The Sun, nel quale ritroviamo il pianoforte ma la voce è sommessa, un sussurro delicato. Anche questa canzone ogni secondo sembra uscito da un passato lontano, “Write a postcard to you / When you’re in the other room / Just writing to say that I can’t find my clothes / If you’re lookin for something to do / Drop everything I’m doing / Nobody needs me here / I’ll go wherever you are going, I’ll be somewhere near“.

Big Time è qualcosa di più che l’album country di Angel Olsen. Non si può negare il deciso cambio di sonorità capace però di conservare l’approccio emotivo e poetico con il quale quest’artista ha sempre affrontato le sue canzoni. Non possiamo sapere se questa svolta si tratta di una parentesi temporanea, una necessità magari di voler tornare alle origini, oppure un nuovo corso che durerà più a lungo. Di sicuro c’è che Big Time è un ottimo album, il più immediato probabilmente della Olsen e quello che va incontro maggiormente ai gusti di una platea più ampia. Se questo revival country ha a volte una valenza puramente commerciale, nel caso di Angel Olsen, non riesco a pensare sia così. Big Time si candida ad essere uno dei migliori album di questo anno che è quasi arrivato a metà e che ci riserverà ancora numerose sorprese come questa.

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Un vento pieno di ricordi

Il tempo scorre veloce e sono già passati quattro anni dall’album di debutto della cantautrice scozzese Hannah Rarity. Lo scorsa settimana è stato pubblicato il nuovo To Have You Near, che ho potuto ascoltare con tre settimane di anticipo per il semplice motivo che ho partecipato alla sua campagna di crowdfunding. Come scritto sopra, il tempo passa, non solo per me ma anche per Hannah Rarity e dunque, alla luce degli singoli più recenti, era prevedibile un’evoluzione della sua musica verso un folk moderno e meno tradizionale. Ma la principale caratteristica di quest’artista resta la voce, e quella va oltre ogni genere ed etichetta (ascoltare Land O’ The Leal per avene un’idea). Dunque non resta che scoprire qual è il frutto di questi quattro anni nei quali è successo di tutto.

Hannah Rarity
Hannah Rarity

L’album si apre con la malinconica Home. Una canzone che esprime il desiderio di avere una casa, non una semplice abitazione ma un posto del cuore, “I want a home / Not just a place to lay my head / I want a home / Where someone’s sleeping in my bed / A tap that drips in perfect time with all my peaceful dreams“. Friend è uno dei momenti più alti dell’album. La Rarity canta con voce calda e commossa una canzone piena di sentimenti. Un testo profondo ma semplice. Da ascoltare, “Got your note, the one you wrote / To say things got out of hand / I’d been meaning to ask how your Father is / And did you move to the city like you planned?“. Shades Of Gloria è una cover dell’originale Gerry O’Beirne. Hannah ne fa una versione splendida, che corre sulle note di un pianoforte. La sua voce è semplicemente meravigliosa, non c’è altro da aggiungere, “The wind is full of memories / That murmur and sigh / Hills lie in the foaming grass of Clare / Below the cold moon’s eye / But you should come and see them now / When they are on fire / And running with the shades of Gloria“. I’m Not Going Anywhere è una canzone che vive grazie alla melodiosa voce della sua interprete. Una poesia rassicurante e intima, molto ispirata, “And when you go to sleep tonight / Don’t you let the bed bugs bite / I’ll be with you till morning light / You’ll light a candle / And wish I was there / But I’ll never leave you / I’m not going anywhere“. Hard Times è un versione di una canzone tradizionale intitolata anche ‘Hard Times Come Again No More’, scritta nel 1894 da Stephen Collins Foster e molto conosciuta ai tempi della guerra civile americana. Una canzone che invoca la fine dei tempi difficili, che ben si s’addice anche ai nostri, “‘Tis a song, a sigh of the weary / Hard times, hard times, come again no more / Many days you have lingered around my cabin door / Oh, hard times, come again no more“. Non esistono due voci così agli antipodi come quella di Hannah e Tom Waits ma questa versione di Take It With Me è perfetta. Da una parte, la ruvida ed imperfetta interpretazione di Waits, dall’altra quella pulita e avvolgente di quest’artista, “Phone’s off the hook / No one knows where we are / It’s a long time since I drank champagne / The ocean is blue / As blue as your eyes / I’m gonna take it with me when I go“. She Must Be Mad è una canzone originale che ricorda le sonorità dell’esordio. La voce angelica e il testo poetico sono tutto quello che serve a rendere questa canzone magica, “She must be mad to give her heart away / She must be mad to give her heart away / While she gives herself so freely, I’m still waiting for the day / She must be mad not to see all we can see / She must be mad not to see all we can see / Well that’s maybe what she’s thinking when she looks at me“. La successiva Kaleidoscope è una una canzone folk ancora una volta malinconica ma piena di amore e ricordi. Un accompagnamento essenziale guida il canto come sempre eccezionale, “Hours go by without one word / I thought I heard you laugh / We sailed around the South of France / In a better life long past / I heard a song, an old refrain / It led me from this place / I felt the breeze of summer air / Across my younger face“. Non poteva mancare un omaggio alla Scozia e la Rarity sceglie una canzone di Davy Steel intitolata Scotland Yet. Una bella canzone, una dichiarazione d’amore per la propria terra, “Oor mither tongue spoke different ways that past tae present ties / Each separate and yet entwined is where oor real strength lies / For should one strand unwind itself, the others tae forsake / Then a’ would be forever lost fur a’ the strands would break“. Chiude l’album la bella Comes The Hour. Una canzone folk ma dal piglio moderno, l’interpretazione della Rarity è da brividi, “Who will take this trembling hand? / Lead me in this dance now / Hold me close or watch me fall / Who will take the chance now? / Who will trade a sacred kiss / When love has been my crime? / Who will trust love knowing this / When it comes the time?“.

Tra canzoni originali, covers ed interpretazioni, To Have You Near ci fa ascoltare un’artista dalla voce straordinaria, capace di dare corpo alle emozioni più profonde. Il folk più tradizionale lascia spazio a sonorità più moderne ma dall’anima classica. La giovane vitalità di Hannah Rarity si percepisce in un amore per quest’arte, nella cura nei dettagli. Un talento, quello di questa cantautrice, non fine a se stesso ma sempre alla ricerca di qualcosa di speciale, difficile (ma non impossibile) da mettere in musica. To Have You Near è indubbiamente un album di ottime canzoni che ci fa scoprire una Hannah Rarity più matura e consapevole dei propri mezzi ma non per questo meno sensibile al potere del canto e delle emozioni.

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Welch la Rossa, il diavolo e la voce d’oro

Dieci anni. Tanto è passato da quando sono stato catturato e portato nel mondo magico di Florence +The Machine, la band progetto capitanata da Florence Welch che nel 2009 ha debuttato con l’acclamato Lungs. Il quinto album, intitolato Dance Fever, è uscito lo scorso maggio a quattro anni di distanza dal precedente High As Hope che aveva ulteriormente consolidato il sound della band. Cosa aspettarsi, dunque, da questa nuova fatica, nata nei lunghi anni di pandemia? In generale da Florence +The Machine non ci si aspettano sorprese ma un pop di qualità, riconoscibile e affascinante. Non resta che ascoltare e tornare di nuovo alla corte della regina rossa.

Florence Welch
Florence Welch

King apre le danze, con la voce inconfondibile della Welch che corre sinuosa sulle pulsazioni della musica. Una canzone profondamente personale che affronta le insicurezze e le consapevolezze della propria età, “I need my golden crown of sorrow / My bloody sword to swing / My empty halls to echo with grand self-mythology / I am no mother / I am no bride / I am king“. I mostri che albergano nell’animo emergono in Free che corre con ritmo sincopato. Le sonorità ci riportano agli esordi e ci ricordano perché questa band è così amata da allora, “I’m always running from something / I push it back, but it keeps on coming / And being clever never got me very far / Because it’s all in my head / “You’re too sensitive” they said / I said “Okay, but let’s discuss this at the hospital”“. Choreomania sottolinea in modo marcato il tema di fondo dell’album, la mania di ballare, un’ossessione irresistibile. Una canzone che va in crescendo, avanzando lenta ma costante, guidata dall’energia della Welch, “And I am freaking out in the middle of the street / With the complete conviction of someone who’s never had anything actually really bad happen to them / But I am committed now to the feeling“. La successiva Back In Town segna un momento più riflessivo e malinconico. Una canzone insolitamente scarna ed essenziale per la band, sorretta dalla voce della sua leader, “I’m back in town, why don’t we go out / And never go to sleep? / Throw our dreams out, let them pile up on the streets / I thought that I was here with you / But it was always just an empty room / ‘Cause it’s always the same“. Girls Against God continua sulle stesse sonorità ma il testo è molto personale e frammentario. Florence si lascia andare a ricordi ed immagini del passato, e lo fa con passione e sensibilità, “And it’s good to be alive / Crying into cereal at midnight / If they ever let me out, I’m gonna really let it out / I listen to music from 2006 and feel kind of sick / But, oh God, you’re gonna get it / You’ll be sorry that you messed with this“. La successiva Girl Dream Evil vira verso un pop rock in pieno stile della band. Le atmosfere oscure ribaltano il mito della ragazza dei sogni, “Am I your dream girl? / You think of me in bed / But you could never hold me / And like me better in your head / Make me evil / Then I’m an angel instead / At least you’ll sanctify me when I’m dead“. Preyer Factory è un breve intermezzo di poco più di un minuto che concede pieni poteri alla voce della Welch, “All the things that I ran from / I now bring as close to me as I can / Ripping hotel sheets with gritted teeth / My montage of lost things / My shiny trinkets of grief“. Cassandra sembra una riflessione, tra realtà e immaginazione, del periodo difficile del lockdown. Un mondo fermo dove ognuno era solo e perso,”Well, can you see me? / I cannot see you / Everything I thought I knew has fallen out of view / In this blindness I’m condemned to / Well, can you hear me? / I cannot hear you / Every song I thought I knew, I’ve been deafened to / And there’s no one left to sing to“. Heaven Is Here è un’altra canzone personale con chiari rifermenti alla carriera di artista. Breve nella durata e scarna ma originale nell’accompagnamento, “And I ride in my red dress / And time stretches endless / With my gun in my hand / You know I always get my man / And every song I wrote became an escape rope / Tied around my neck to pull me up to Heaven“. Tra le mie preferite c’è la bella Daffodil. Qui sente la versione più epica, quasi mistica dei Florence + The Machine. Tutto è ben bilanciato e ispirato. Da ascoltare, “There is no bad, there is no good / I drank all the blood that I could / Made myself mythical, tried to be real / Saw the future in the face of a / Daffodil / Daffodil“. Il singolo di punta dell’album, nonché la canzone più in linea con la consueta produzione, è sicuramente My Love. C’è poco da aggiungere, la classe e lo stile della Welch sono qui, “I was always able to write my way out / Song always made sense to me / Now I find that when I look down / Every page is empty“. Nemmeno un minuto per Restraint, nella quale Florence canta con voce sommessa pochi versi, “And have I learned restraint? / Am I quiet enough for you yet?“. Cambio di passo con The Bomb. Nonostante il titolo faccia presagire altro, ci troviamo invece di fronte ad un lento dalle tinte classiche. Una canzone d’amore come di deve, “I’ve blown apart my life for you / And bodies hit the floor for you / And break me, shake me, devastate me / Come here, baby, tell me that I’m wrong / I don’t love you, I just love the bomb“. Si chiude con Morning Elvis. Una canzone dolorosa e triste, che sembra raccontare le difficoltà di essere un’artista e soffrire sul palco come l’ultimo Elvis, “Well, pick me up in New Orleans / Pinned in a bathroom stall / Pick me up above my body / Press my corpse against the wall / I told the band to leave without me / I’ll get the next flight / And I’ll see you all with Elvis / If I don’t survive the night“.

Dance Fever è un album figlio del suo tempo che ci riporta ad una Florence Welch più umana, per così dire. Le incertezze, le insicurezze e la voglia di riscatto di questi tempi emergono da ogni strofa. Non c’è volontà di sperimentare per i Florence + The Machine, se non in brevi e rare occasioni, ma l’ennesimo tentativo riuscito di mantenere sempre alta la qualità delle loro canzoni. Questo è stato finora il loro segreto: fare sempre delle ottime canzoni, senza forse prendersi dei rischi ma del resto non hanno nemmeno il bisogno di farlo. Non ne ha bisogno Florence Welch, che si dimostra ancora un’artista irraggiungibile ma meno dea e sempre più mortale.

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