Cinque colpi delle dita, ep. 10

Dopo una breve pausa riprendo a scrivere su questo blog. E lo faccio riprendendo una rubrica che giace in attesa da un anno. Qui di seguito qualche breve consiglio cinematografico sui film che ho visto negli ultimi dodici mesi.

Richard Jewell – Una storia vera di un responsabile della sicurezza che sventa un attentato, scoprendo una bomba in uno zaino. Qualcosa non torna però e lui stesso viene accusato di aver piazzato l’esplosivo. Eastwood espone i fatti e lascia aperta la questione con maestria. Un ottimo film che ha dell’incredibile. Voto 8
Il ritorno dell’eroe – Commedia degli equivoci belga/francese in costume. Questo genere di film mi piace e il cast è ottimo, anche troppo. Perfetto per farsi due risate senza pensieri. Voto 7
Il silenzio degli innocenti – Classicone che non avevo mai visto. Che dire, non mi ha impressionato come avrebbe dovuto. Ammetto che all’epoca dovesse essere stato qualcosa di eccezionale ma oggi risulta un po’ prevedibile e, francamente, anche un po’ improbabile, soprattutto in alcune scene. Voto 7
Il domani tra noi – Una coppia di sconosciuti rimane vittima di un incidente aereo sulle montagne innevate. Il resto potete immaginarlo come pure il finale. Idris Elba e Kate Winslet sono male assortiti e il film non gira come dovrebbe. Voto 6
Una notte in giallo – Commedia leggera anzi leggerissima con Elizabeth Banks. Credevo peggio, una di quelle cose demenziali made in USA. Invece di lascia guardare e a tratti diverte ma niente di memorabile. Non lo rivedrei. Voto 6
Maria regina di Scozia – Saoirse Ronan e Margot Robbie tengono in piedi un film altrimenti poco accurato e affetto da qualche intrusione del politicamente corretto. In generale non è malvagio, soprattutto per i costumi e le scenografie. Voto 7
Ghostbusters: Legacy – Non è mai facile fare un seguito ai film di culto, entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Ma qui in qualche modo ci sono riusciti, dando anche il giusto collocamento agli attori originali, perfino allo scomparso Harold Ramis. Un film che fa leva sull’effetto nostalgia ma che funziona bene e diverte. Voto 8
L’uomo sul treno – C’è Liam Neeson e quindi è già chiaro cosa succederà. Questa volta è su un treno di pendolari che vedranno la loro routine sconvolta. Insomma c’è Neeson. Serve altro? Voto 6
Jungle Cruise – Prendete Dwayne Johnson ed Emily Blunt e una vagonata di CGI. Piazzateli nella foresta Amazzonica alla ricerca di un fiore miracoloso. Aggiungete un po’ di idee dai Pirati dei Caraibi, qualche colpo di scena e il film è servito. Ci si diverte, tutto funziona a dovere, basta non farsi troppe domande. Voto 7
Don’t Worry Darling – Ero curioso di vedere questo film per il mistero che la storia sembrava riservare. Ma qualcosa non funziona. Tutto inizia ad andare a rotoli troppo presto e lo spettatore, che vuole il colpo di scena, deve aspettare troppo a lungo per avere ciò che vuole. Sì, c’è un idea interessante ma resa con fin troppi buchi di sceneggiatura e una massiccia dose di moralismo. Florence Pugh prova a colmare il vuoto ma non può fare tutto da sola. Voto 5
Babylon – Quando un film fa discutere, lo devo vedere. Questo è cinema, punto. Un cast stellare, scenografie e musiche impressionanti. Un’opera mastodontica che ci racconta l’ascesa del sonoro nel cinema e il declino dei film muti. Qualche eccesso di troppo ma è quel tipo di eccesso che è pura meraviglia. Forse un capolavoro incompreso? Voto 9
Blonde – L’altro film discusso e discutibile è proprio questo che racconta la vita di Marylin Monroe, che io conoscevo poco. Togliamo per un momento le scene più scandalose, i nudi frequenti e la dubbia aderenza ai fatti reali. Resta un film di grande impatto, sia artistico che emotivo. In un certo senso mi ha sorpreso positivamente. Ana De Armas è forse la Monroe più somigliate all’originale mai vista su uno schermo. Voto 7
Everything Everywhere All at Once – Avevo grandi aspettative per questo film. La mia curiosità era alle stelle. In parte è stato quello che immaginavo, un tripudio di visioni fantastiche e folli. Il problema è che tutto è rigidamente inserito in un contesto famigliare che porta ad un finale già visto e che poco ha a che fare con il resto del film. Non mi spiego come possa aver dominato agli Oscar. Non è male ma non lo rivedrei. Anche perché se lo rivedessi noterei ancora di più le incongruenze e i buchi di sceneggiatura. Voto 7
La mosca – Ho visto o forse rivisto questo classico di Cronenberg, di un epoca nella quale i film duravano ancora 90 minuti. Ispirato ad un fumetto ed ad altri adattamenti, racconta la storia di uno scienziato che accidentalmente fonde il suo DNA con quello di una mosca. Trasformazioni corporali, deformazioni e disgusto sono il sale dei film di questo regista. Un applauso per gli effetti speciali “reali”. Voto 7
Amsterdam – Un perfetto esempio dove sono ancora gli attori protagonisti a tenere in piedi una sceneggiatura traballante e noiosetta. Si vuol far ridere o quanto meno sorridere ma qualcosa non va. Troppo lungo, denso e verboso. Ci si perde anche un po’. Un peccato davvero. Aveva il potenziale per essere un gran bel film. Voto 6
X – Quasi un horror, quasi una parodia di un film horror. Insomma non un granché. Tutto prevedibile, a tratti divertente ma un po’ spinto, ma è tutto qui. Credevo in qualcosa di più originale. Voto 6
Nope – Ogni film di Jordan Peele è un enigma. Qui un po’ meno. Il film regge bene lungo tutta la sua durata, inserendo anche una vicenda parallela collegata solo in parte alla storia originale. Mi è piaciuto ma non è per tutti gusti. Voto 8
Triangle Of Sadness – Una crociera per ricchi si rivela un totale disastro. Non c’è occasione migliore per fare un po’ satira e mettere alla berlina la borghesia moderna. Un film interessante dal finale inaspettato e che fa riflettere. La durata di due ore e mezza non si fa sentire troppo. Voto 8
Titane – Dunque, c’è una donna con una piastra di titanio in testa. Uccide per chissà quale motivo. Ad un certo punto rimane incinta di un’automobile. Sì, avete letto bene. Braccata dalla polizia decide di fingersi un ragazzo. Da qui in poi è un susseguirsi di vicende poco credibili (come nascondere completamente una gravidanza di nove mesi con una fascia). Ah ma ha fatto sesso con un auto! Allora vale tutto. Voto 5
Glass Onion – Quasi meglio del primo film. Credevo di trovarmi di fronte ad un giallo cervellotico e invece no. Ben congegnato e divertente. Un altro cast stellare che rende tutto molto godibile e colorato. Un film leggero che ti fa passare una serata insieme al geniale Beniot Blanc. Voto 7
Omicidio nel West End – Molto meglio il titolo originale See How They Run che richiama il tema del film. Ovvero visto un giallo, li hai visti tutti. Da qui l’idea di un giallo divertente che rompe gli schemi con la coppia Sam Rockell e Saoise Ronan in perfetta sintonia. Nel finale ho creduto che si sarebbe ribaltato tutto ma fortunatamente non è stato così ed è un bene. Sarebbe stato troppo geniale ma difficile da tenere in piedi. Lo rivedrei oggi stesso. Voto 8

Ancora un altro libro, ep. 14

Mi sono accorto che l’ultimo episodio di questa rubrica risale addirittura allo scorso febbraio. Credo sia arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Cominciamo con La ragazza dai capelli strani, breve raccolta di racconti in cui possiamo ammirare il talento, ancora acerbo, di David Foster Wallace e la sua capacità di analisi della società moderna. Ogni racconto ha un tono e uno stile diversi, spesso con una struttura frammentata, con continui cambiamenti nel punto di vista e persino della forma. Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, lo stile di questo autore continua ad essere innovativo e sorprendente. I periodi lunghissimi, le continue associazioni mentali e le situazioni assurde e geniali sono le caratteristiche che più emergono dalla sua lettura. Sotto la superficie c’è la volontà di Wallace di dare forma ai pensieri più complessi senza rinunciare alla sua visione lucida del mondo nel quale viviamo, una visione che è ha anticipato i tempi. Se cercate racconti con una trama ed un finale, in questa raccolta, non ne troverete nemmeno uno.

Decisamente una lettura più leggera quella de La spada del destino, ovvero il secondo volume della saga dello strigo Geralt di Rivia. Si tratta ancora una raccolta di racconti ma a differenza del primo, ho trovato questo un po’ meno avvincente. Nei tre primi racconti lo strigo non ha un ruolo attivo all’interno della storia, è uno spettatore al pari di alcuni personaggi secondari, pure poco caratterizzati. Nei successivi tre invece, Geralt mette finalmente mano alla spada e rende giustizia al suo ruolo. Una raccolta divisa in due metà, una trascurabile e un po’ lenta, e l’altra più convincente e in linea con lo spirito della saga mostrato finora. Indubbiamente Andrzej Sapkowskici sa fare, il suo stile è diretto e asciutto, con una particolare attenzione ai dialoghi. Forse solo le vicende amorose tra Yennefer e Geralt risultano, a volte, un po’ stucchevoli e fuori luogo. Non mi resta che scoprire cosa riserva il primo romanzo della saga.

Solo Stephen King poteva scrivere un romanzo su di un’automobile assassina senza essere banale e grottesco. Non sapevo cosa aspettarmi da Christine ma ha saputo sorprendermi anche questa volta. Nella prima parte King definisce i personaggi, i rapporti che li legano e il contesto nel quale vivono la loro vita serena. Finché il giovane Arnie non sceglie Christine. Nella seconda parte tutto cambia e si entra in un susseguirsi di eventi che sembra impossibile da fermare. Il male che continua oltre la vita e non conosce riposo. Il passato che apre vecchie ferite e il futuro incerto dei giovani protagonisti. Il finale riserva delle sorprese nel perfetto stile di questo autore, evitando spettacolari colpi di scena. Senza dubbio tra i migliori romanzi di questo autore che ho letto finora e consigliato anche a chi vuole iniziare a scoprire il Re.

La repubblica dei ladri è terzo capitolo della saga dei Bastardi Galantuomini e quello nel quale facciamo finalmente la conoscenza di Sabetha, personaggio fin qui solo nominato. Scott Lynch ci racconta anche di più sul passato di questa banda di ladri, svelandoci l’episodio del teatro già citato nei libri precedenti. Nel frattempo ritroviamo Locke e Jean impegnati nelle elezioni nella città dei maghi. Forse queste elezioni sono un pretesto un po’ debole per portare avanti la storia, soprattutto perché non è chiarissimo il ruolo dei due protagonisti, ma alla fine si spiega tutto o quasi. Questo romanzo appare più come un prologo per quello che seguirà. Il colpo di scena finale, infatti, apre a nuovi e inquietanti sviluppi. L’unico modo per scoprire quali saranno è leggere il prossimo The Thorn of Emberlain che però è in attesa di pubblicazione da dieci anni.

La battaglia di Ravenspur, il finale della quadrilogia della Guerra delle Due Rose, è quanto ci si poteva aspettare dopo il deludente terzo volume. Conn Iggulden non riesce a dare forma al romanzo che diventa così in una sorta di docufilm, dove alcune parti sono caratterizzate da dialoghi e azione, altre, più frequenti, non sono altro che una voce fuori campo che riassume velocemente i fatti più salienti. La sensazione è che l’autore non avesse le idee ben chiare e questo a portato all’assenza di una struttura, con personaggi poco caratterizzati e approfonditi. Le riflessioni dei protagonisti sono spesso ripetitive e alla lunga annoiano, dando l’impressione che servano solo ad riempire qualche pagina in più. La gran quantità di personaggi che hanno preso parte a questo conflitto, durato trent’anni, forse avrebbe meritato ben più di quattro libri o, in alternativa, un solo libro meno dettagliato ma più chiaro di quello che ha realizzato Iggulden. Questa serie di libri si è rivelata una delusione, soprattutto dopo i primi due buoni volumi. Non entro nel merito della fedeltà ai fatti storici che sono esposti nella nota storica in chiusura ma, a ben vedere, riassume, in una decina di pagine e in modo più chiaro, le altre centinaia appena concluse. Nota a margine: il titolo italiano è fuorviante. Non c’è stata nessuna battaglia a Ravenspur, anche se ha un ruolo centrale nelle vicende. Molto meglio il titolo originale: Wars of the Roses. Ravenspur: Rise of the Tudors.

Ancora un altro libro, ep. 13

Ecco il consueto appuntamento con una veloce recensione dei libri che ho letto negli ultimi mesi. Alcuni ottimi e altri un po’ meno.

Black Jesus. The anthology di Federico Buffa è una raccolta di aneddoti sul mondo della pallacanestro USA infarciti di termini gergali, nomi noti, altri meno, soprannomi e curiosità varie. Incomprensibile per chi non mastica un po’ di basketball. Fortunatamente non è il mio caso, altrimenti mi sarei trovato ancora più spaesato. Lo stile di Buffa è difficile da seguire su carta, spesso e volentieri si perde il filo. Mi sono ritrovato a rileggere più volte le stesse righe nel tentativo di capirne il significato. A tutto questo si aggiungono numerosi refusi (mai visti così tanti in un libro solo!) e ripetizioni inutili. Sarebbe bastato un minimo di editing, indicare almeno l’anno in cui è stato scritto ciascun capitolo e rivedere lo stile di scrittura per ottenere un libro tutto sommato godibile e interessante. Invece, così com’è, è francamente illeggibile.

Con la raccolta di racconti Scheletri, King si conferma essere un abile narratore anche quando lo spunto per una storia si dimostra un po’ debole. Quando questo autore sceglie di condensare la sua fantasia in poche pagine, viene a mancare la profonda caratterizzazione dei personaggi, caratteristica fondamentale dei suoi romanzi. Inoltre è in raccolte come questa che emergono, in maniera più evidente, le influenze di autori come Lovecraft (La nebbia, La scorciatoia della signora Todd, La nonna) e Poe (L’uomo che non voleva stringere la mano, L’immagine della falciatrice, Nona). Alcuni racconti sono stati inseriti più per “beneficio di inventario” che per altro ma altri sono dei piccoli capolavori (L’arte di sopravvivere, su tutti). Un’ottima raccolta che offre un’ampia panoramica sullo stile e l’immaginario di Stephen King.

Frank Herbert ha avuto il merito di aver creato un mondo complesso, un vero e proprio universo. Eppure anche in questo terzo volume della saga, intitolato I Figli di Dune, tutto si riduce ad una questione di famiglia. Leto II ripercorre i passi del padre Paul, affrontando pari pari le stesse visioni e facendo le medesime riflessioni anche se con esiti differenti. Gli altri personaggi sono gli stessi di sempre e mettono in piedi complotti e contro-complotti che sono difficili da seguire. Herbert, con il suo stile dico/non dico, non aiuta affatto il lettore nel districarsi tra di essi. Manca empatia con i protagonisti, in particolare con Leto che sa sempre cosa succederà (ma non lo dice a nessuno, anche perché se lo facesse sarebbe inutile continuare a leggere il resto del romanzo). La cerchia ristretta di personaggi rende vani alcuni colpi di scena ed è un peccato, soprattutto quando si ha a disposizione un intero universo. Il ritmo è lento e un buon centinaio di pagine sono di troppo. In definitiva un capitolo che porta avanti le incredibili vicende di Arrakis, appoggiandosi su di un intreccio complesso ma frastagliato, con dinamiche per larga parte prevedibili, salvandosi in un finale che lascia presagire importanti cambiamenti ma non soddisfa appieno.

Se nel primo volume di questa trilogia Mervyn Peake ha costruito il microcosmo di Gormenghast, in questo seguito, intitolato per l’appunto Gormenghast, lo distrugge pezzo dopo pezzo. Dopo una prima parte che ricalca le atmosfere grottesche e bizzarre del suo predecessore, il romanzo prosegue poi su un binario differente, più cupo e malvagio. Il personaggio chiave è Ferraguzzo sempre più disposto a tutto per ottenere il potere. Il giovane conte Tito è un ribelle che mina dall’interno le fondamenta del castello di Gormenghast mettendo a dura prova le solide mura di pietra e i suoi immemorabili rituali. Lo stile di Peake è unico, fatto di descrizioni dettagliate ma mai noiose, dialoghi scorrevoli (sempre divertenti gli scambi di battute tra il dottor Floristrazio e la sorella Irma) e colpi di scena spiazzanti. Non so sinceramente cosa aspettarmi dal terzo capitolo ma anche se non dovesse essere all’altezza di questi primi due, sono contento di essermi perso ancora una volta per gli immensi corridoi e le infinite stanze di Gormenghast.

Ancora un altro libro, ep. 10

Dopo gli ottimi Imprimatur e Secretum, il terzo capitolo delle avventure di Atto Melani e del “ragazzo” senza nome, intitolato Veritas, si rivela essere un passo indietro rispetto ai precedenti romanzi scritti dalla coppia Monaldi e Sorti. Sempre ottima la ricostruzione storica ma stavolta si eccede con la fantasia e la presunzione. La morte dell’imperatore Giuseppe I è un pretesto debole che costringe gli autori ad aggiungere carne al fuoco per tenere in piedi la storia. In particolare la nave volante, con tanto di autopilota, mette a dura prova la sospensione dell’incredulità che, in un romanzo storico, non dovrebbe essere necessaria (o almeno non quanto un fantasy). Senza contare che resta un mistero la sua utilità all’interno della storia. La serie di omicidi è eccessivamente prevedibile e inutilmente brutale. Il colpevole viene svelato con un colpo di scena copiato pari pari da “I soliti sospetti” (film che all’epoca fu rivoluzionario ma rivisto oggi non più di tanto). Mi è parso inoltre che la prosa sia più moderna che nei precedenti ma forse è solo una mia impressione, così come lo sono le numerose ripetizioni degli stessi concetti. Mi spiace scriverlo ma questa volta Monaldi e Sorti hanno toppato e non di poco. Veritas resta un thriller di pura fantasia, con un intreccio debole, supportato però, come sempre, da un’immensa documentazione.

Sono tornato da Scott Lynch che ci porta per mare nel secondo capitolo dei Bastardi Galantuomini, intitolato I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies). La struttura del romanzo resta la stessa del primo libro Gli inganni di Locke Lamora: Locke e Jean mentre stanno mettendo a segno uno dei loro colpi, rimangono invischiati in affari più grossi di loro. Chi conosce poco o nulla di termini marinareschi si troverà confuso quanto i protagonisti, lo stesso autore ammette poi di aver fatto un po’ confusione e di essersi inventato qualche termine. L’intreccio è il punto di forza di questa serie che, tra truffe, intrighi e tradimenti, tiene incollato il lettore fino al finale che lascia alcune questioni in sospeso per i volumi successivi. Linguaggio forte e violenza, ma anche molta ironia, restano i tratti distintivi di un fantasy fuori dagli schemi. Il mondo creato da Lynch si arricchisce di nuovi particolari e parole (ottima la traduzione), facendoci scoprire le sue regole e sui meccanismi che sovvertono quelli del nostro. Ora non mi resta che il successivo La repubblica dei ladri che finora è l’ultimo pubblicato da Lynch. Il prossimo The Thorn Of Emberlain pare sia di prossima pubblicazione ma è così da qualche anno ormai. Forza Scott ce la puoi fare!

Se con La svastica sul sole, Philip K. Dick non mi aveva pienamente convinto, con Ubik ho capito perché questo autore è così amato. La capacità di Dick nel creare una storia dalla struttura solida ma allo stesso tempo confusa, è il punto di forza di questo libro. Ambientato nel 1992, che all’epoca rappresentava un futuro relativamente lontano, l’umanità ha trovato il modo di mantenere in semivita le persone in punto di morte e avere contatti con loro. Tutto ruota attorno alla vita e alla morte e a questo stato di sospensione innaturale. Nella prima metà del romanzo Dick ci confonde con termini presi in prestito dalla fantascienza dell’epoca per poi, nella seconda, accelerare il ritmo e trovare numerosi colpi di scena. Un romanzo che corre senza sosta, senza passaggi a vuoto, che soffre solo di un immaginario fantascientifico ormai obsoleto ma continua ad offrire spunti di riflessione. Probabilmente leggerò altro di Dick ma l’impressione, leggendo opinioni qua e là, è che Ubik resta il punto più alto della sua produzione.

Ancora un altro libro, ep. 8

Prima che finisca anche questo anno mi sembra doveroso dare spazio anche alle mie letture. Questa rubrica infatti è ferma dallo scorso maggio e mi sembra il momento adatto per ricapitolare qui tutti i libri che ho letto da allora.

Cominciamo con Il diavolo e l’acqua scura di Stuart Turton che ci porta nel 1634 a bordo della misteriosa Saardam, una nave mercantile diretta ad Amsterdam. Dopo l’ottimo Le sette morti di Evelyn Hardcastle non vedevo l’ora di buttarmi su questo romanzo, il secondo dell’autore. Anche se potrebbe sembrare un giallo storico, la ricostruzione storica è appena accennata, per stessa ammissione dell’autore, in modo da concedere più spazio a trama e personaggi. Turton riesce sempre a creare una tensione costante nei suoi romanzi, disseminando indizi e intrecciando le vite dei vari protagonisti. Tutto molto bello se non fosse che l’impianto narrativo messo in piedi dall’autore si sofferma spesso su alcuni dettagli e lascia tempo al lettore di ragionare troppo sulla soluzione del mistero. Questo smorza la sorpresa finale, che di fatto arriva in anticipo se si escludono man mano i possibili sospettati. Va dato atto però a Turton di non lasciare nulla al caso e sono sicuro che saprà migliorarsi nei prossimi romanzi.

Il filo della spada è quarto capitolo delle avventure di Uhtred durante la nascita del regno d’Inghilterra. Bernard Cornwell è un grande narratore che questa volta lascia più spazio alla fantasia. Un’ambientazione meno vasta rispetto al solito e un obiettivo chiaro, rendono questo romanzo scorrevole e appassionante. Nuovi personaggi e vecchie conoscenze si alternano mantenendo alta la qualità di questa saga. Non vedo l’ora di continuare a seguire le avventure di questo signore della guerra, sempre diviso tra re Alfredo e il richiamo degli dei pagani.

Al mio radar dei classici gotici, per qualche motivo, è sempre sfuggito Il monaco di Matthew Gregory Lewis. Romanzo del 1796, ricco di tutte le caratteristiche del genere gotico. Fantasmi, demoni, tentazioni e cripte ammuffite fanno da sfondo alla torbida storia del monaco Ambrosio. Lewis riserva diversi capitoli agli altri personaggi che girano attorno a Lorenzo, i buoni della storia, e per un attimo ti fa credere che forse stai leggendo il libro sbagliato. Ma poi riprendono le vicende del monaco e tutto torna. Lettura scorrevole, anche grazie alla traduzione, cosa non scontata per un’opera di fine ‘700, con vivide descrizioni degli aspetti più macabri. Ma quando si parla di sesso, molto è lasciato all’immaginazione. Ritmo serrato e ben congegnato che ti tiene incollato fino al diabolico finale. Peccato per le parti in versi che non aggiungono nulla alla storia anzi spezzano inutilmente la narrazione e sembrano più un spot per l’autore che vuole vendersi come poeta.

Prosegue la mia avventura nella saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind che vede sempre protagonisti Richard e Kahlan con l’aiuto del mago Zedd. Il tempio dei venti è poco vario nelle ambientazioni e comunque alcune di questa già viste in precedenza e soprattutto piuttosto lento rispetto agli altri. Kahlan a volte va in paranoia e Richard sembra tanto risoluto ma basta poco per fargli cambiare idea. La storia è piuttosto debole ma resta comunque una lettura piacevole. La violenza gratuita rende questo fantasy adulto anche se il linguaggio usato da Goodkind non sconfina mai nel volgare. E non ne capisco sinceramente il perché. Incredibile ma vero nell’edizione italiana manca un intero capitolo ma non preoccupatevi, non si nota nemmeno. Questo è chiaramente un segno che il romanzo ha qualche pagina di troppo comunque.

I Wu Ming con L’armata dei sonnambuli danno il meglio in questo romanzo storico ambientato nei primi anni della rivoluzione francese. Tre protagonisti, le cui storie convergono nei capitoli finali, e un antagonista, si muovono in una Parigi instabile e confusa. Ci sono momenti horror vagamente paranormali, scene d’azione e le immancabili riflessioni sociopolitiche, il tutto intervallato da documenti, articoli di giornale e gazzettini vari. Divertenti i resoconti sgrammaticati ma genuini di chi “in piazza c’è stato davvero”. Forse un’introduzione alla situazione in Francia sarebbe stata d’aiuto per districarsi tra le varie fazioni ma si può porre rimedio comunque per proprio conto. Come al solito i Wu Ming mostrano l’altra faccia della Storia, supportati da una documentazione a volte esile ma ricca di fascino e mistero, senza disdegnare scene di puro intrattenimento.

Primo libro di DeLillo che leggo dopo averlo sentito associare a David Foster Wallace. In Rumore bianco ho notato delle somiglianze tra i due ma DeLillo fa uso dell’ironia più raramente, limitandola alle situazioni più grottesche. Un romanzo raccontato in prima persona, fatto di episodi e salti temporali brevi ma frequenti. L’autore sembra scegliere le parole una per una, senza lasciare nulla al caso. Un romanzo che parla di morte, ne è pervaso dalla prima all’ultima riga. Questo perché il protagonista ne è terrorizzato e non riesce a smettere di pensare ad essa. Più si va avanti nel racconto e meno trovano spazio le battute un po’ nonsense del postmodernismo, a beneficio di un ritmo più serrato. Non un libro semplice da leggere ma sicuramente ricco di spunti di riflessione. Mi sono rivisto spesso nei pensieri e nelle idee del protagonista e un po’ mi ha fatto impressione. Leggerò senza dubbio altro di DeLillo.

Da parecchio tempo non leggevo Deaver e La scimmia di pietra è una delle prime indagini di Lincoln Rhyme che mi ero lasciato indietro. Ne ho letti molti ma questo non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto. Ho intuito il principale colpo di scena con largo anticipo ma la spiegazione di Deaver lascia qualche buco e il resto è poco credibile. La prevedibile imprevedibilità di questo autore non è un meccanismo perfetto e ogni tanto si inceppa. Resta una lettura piacevole e tornerò di nuovo sulla scena del crimine con Linc e Amelia.

Una cosa divertente che non farò mai più è il reportage di David Foster Wallace a bordo un una crociera superlusso ed è irresistibile. Tutto il talento di questo scrittore condensato in poche ma divertenti pagine che raccontano la sua esperienza in modo lucido e dettagliato. Sono molti i passaggi che strappano una risata sincera. La capacità di DFW di scrivere di ogni cosa che gli passa davanti a gli occhi e per la testa con una facilità disarmante ed efficacia, è sorprendente. Difficile comprendere cosa sia stato “romanzato” e cosa no ma la mia idea è che la penna di questo autore sia più vera del vero e anche questa volta, nella sua superficiale leggerezza, sia riuscita a scavare nella profondità dell’animo umano e della cultura americana e occidentale. Consigliato a chi vuole scoprire lo stile di DFW senza impegno.

Con Le creature del buio – Tommyknockers, Stephen King si dà alla fantascienza ma senza rinunciare al suo immaginario horror. Perfetta come sempre la costruzione dei personaggi che popolano Haven, anche se in un paio di occasioni si dilunga troppo e inutilmente. King riesce a rendere verosimile perfino una storia che racconta di dischi volanti, arricchendola di dettagli. Gli alieni ci sono ma non si vedono mai per davvero e l’idea della mutazione è ben congegnata. Lettura scorrevole come di consueto per King anche se lui stesso lo considera il peggiore dei suoi. Il finale un po’ assurdo e sopra le righe toglie un po’ di magia ma poco male, c’è tanto di buono in questo libro.

Ancora un altro libro, ep. 7

Non è passato molto tempo dall’ultima volta che ho pubblicato un post riguardo alle mie letture. Infatti nel frattempo ho letto solo due libri ma entrambi meritano due parole. In particolare il primo di questi ovvero, Gli inganni di Locke Lamora (The lies of Locke Lamora) di Scott Lynch. Primo della serie dei Bastardi Galantuomini, è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 2006 e sono previsti altri sei volumi. La pubblicazione in Italia è stata travagliata ma lo scorso anno la Mondadori ha dato nuova vita ai primi tre capitoli, il quarto sarà pubblicato in lingua originale alla fine di quest’anno. Come potete notare, tra la pubblicazione del primo, Gli inganni di Locke Lamora appunto, e il successivo I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies), passa solo un anno ma ci vorranno ben sei anni prima di poter leggere La repubblica dei ladri (The Republic of Thieves). Scott Lynch ha dovuto affrontare diversi problemi personali che hanno rallentato la realizzazione delle opere, compreso l’ultimo romanzo The Thorn of Emberlain che uscirà a quattro anni di distanza dal precedente.
Vi starete chiedendo quindi come è questo Gli inganni di Locke Lamora. Innanzi tutto si potrebbe definire un fantasy. Ma è finalmente un fantasy dove il protagonista, Locke Lamora, non è un eroe che deve salvare il mondo, dove non c’è una netta distinzione tra male e bene e dove la magia non è onnipresente. Ci sono maghi ma un po’ diversi dal solito. Molto permalosi, vendicativi e anche parecchio costosi. La particolarità dello stile di Lynch è l’uso di toni adulti, con un linguaggio carico di parolacce, con un uso frequente di violenza fisica e verbale, ma sempre con una vena di ironia nera. Tutto ciò può piacere a molti e dare fastidio ad altri. Per certi versi può ricordare un po’ lo stile tarantiniano, per intenderci. Lo stesso Locke non è un personaggio per bene e, anche se appare simpatico e affabile, è disposto a tutto pur di salvarsi la pelle e guadagnarci sopra qualche moneta. Perché Locke è prima di tutto un abile ladro e truffatore e insieme ai suoi Bastardi Galantuomini mette a segno colpi mirabolanti. Jean Tannen è abile con le armi (ma anche senza), i gemelli Calo e Galdo Sanza sono ottimi in tutto e il giovane Cimice deve imparare ancora molto ma non gli manca certo il coraggio.
All’inizio va tutto per il verso giusto al nostro Locke Lamora e ai suoi compagni. La truffa al ricco Don Lorenzo Salvara inizia nel modo migliore ma la presenza nella città di Camorr del misterioso Re Grigio rovina i piani della banda. Camorr, appunto. Lynch pone i protagonisti in una simil Venezia settecentesca, dove si trovano tracce di una civiltà antica che costruiva tutto con un vetro indistruttibile. Gli uomini che la abitano hanno perso ogni conoscenza di quel periodo e vivono in un mondo più simile al nostro. L’autore crea tutta una mitologia, una religione originale e curiosa, fatta di numerose divinità. Spesso ci sono brevi digressioni che spiegano il contesto sociopolitico nel quale si muovono i personaggi senza mai approfondire troppo per non risultare noioso. I capitoli che raccontano la storia principale sono intervallati da flashback sulla gioventù di Locke Lamora e dei suoi colleghi e spesso influenzano la trama successivamente.
Quando iniziano i problemi e troppe cose mettono i bastoni tra le ruote alla Spina di Camorr (così è soprannominato Locke) si fa fatica a staccarsi dalle pagine grazie a colpi di scena del tutto inaspettati. Preparatevi perché succede di tutto. Non aggiungo altro per non rovinarvi il piacere della lettura, se non che la scrittura di Lynch, supportata da una traduzione più che ottima, è moderna e scorrevole, infarcita di parole desuete e altre del tutto inventate. Non vedo l’ora di leggere il secondo libro e scoprire qualcosa di più sui personaggi rimasti in secondo piano.

L’altro libro è La lunga marcia di Richard Bachman ovvero niente di meno che Stephen King. Lo pseudonimo fu creato da King nel tentativo di vedere se il suo successo era legato alle sue storie o semplicemente al suo nome. Non riuscì mai a scoprirlo dato che fu smascherato troppo presto (colpa dei diritti d’autore a suo nome) ma i numeri, piuttosto scarsi per Bachman sono a sostegno più della seconda ipotesi. Questo è il secondo romanzo a nome Bachman, il primo Ossessione, è stato ritirato dal mercato per volontà dello stesso King a seguito di alcuni episodi di violenza forse legato ad esso o forse no. La lunga marcia è stato pubblicato per la prima volta nel 1979 ma è stato scritto tra il 1966 e il 1967, otto anni prima dell’esordio di King con Carrie.
Cento ragazzi partecipano ad una logorante marcia che parte dal confine del Maine con il Canada per arrivare fino a Boston, a meno che non rimanga un solo concorrente. Sì perché chi rallenta, commette infrazioni previste dal regolamento viene prima ammonito tre volte, poi “congedato” ovvero fucilato sul posto da inflessibili soldati. Alla fine il vincitore avrà un sacco di soldi e un imprecisato Premio. Ovviamente ci troviamo negli Stati Uniti ma diversi da come li conosciamo. Sembra esserci un regime militare che non viene mai approfondito dall’autore. In realtà sono tanti i punti oscuri di questo romanzo. Quello che conta è la marcia. La scelta di King di raccontarla dal punto di vista di Ray Garraty, un giovane concorrente, lascia pochi dubbi su come vada a finire.
King riesce a dare forma ad un vero proprio incubo al quale prendono parte dei ragazzi incoscienti della loro scelta. La tensione è sempre alta e sembra di partecipare con loro a questa logorante “passeggiata” che porterà i concorrenti a reagire in modi diversi. Chi si arrende e accetta la morte, chi non vuole mollare e in un certo senso “muore”, annullando sé stesso, spegnendosi lentamente. Non c’è alternativa, o cammini e vinci o muori. Ottima quest’idea di base e la scelta di non approfondire il contesto nel quale si svolge la competizione, lasciando al lettore la libertà di immaginarsi questi Stati Uniti distopici e la natura del Premio. Ma si tratta pur sempre di un King acerbo, che perde la bussola nel capitolo finale, accelerando troppo e senza motivo. Tutti sanno che il Re ha qualche problema con i finali e questo è il più enigmatico dei suoi letti finora. Ho girato l’ultima pagina credendo di trovare il resto ma era completamente bianca. Forse una vera conclusione avrebbe deluso comunque ma vale lo stesso la pena di leggerlo, consapevoli che King ha scritto di meglio. Conta di più il viaggio che la meta.

Ancora un altro libro, ep. 6

L’ultimo episodio di questa rubrica risale a gennaio e quindi è arrivato il momento di raccogliere qui le impressioni sulle letture che ho affrontato in questi mesi. Dopo aver salutato, solo temporaneamente, il buon David Forster Wallace, mi sono dedicato al secondo capitolo della saga di Dune, scritta da Frank Herbert, intitolato Il Messia di Dune. Questo capitolo della saga fantascientifica di Dune è più breve del precedente ma decisamente più lento. Non che il primo sia tutto azione e dialoghi ma questa volta è la trama a non essere particolarmente brillante. Herbert indugia troppo sulle visioni di Paul e Alia, non sfruttando appieno gli intrighi del complotto, lasciando che tutto si risolva da sé o quasi. Paul Atreides, conosciuto anche come Muad’dib, il Kwisatz Haderach, è dotato, più di altri, del potere di avere visioni del suo futuro che si confondono e si sovrappongono, rendendole di difficile interpretazione. Arrakis passa in secondo piano, dando più spazio all’Imperatore, sacrificando così il fascino di questo pianeta che ha reso speciale il primo capitolo. Ci sono anche molti aspetti interessanti ne Il Messia di Dune, ad esempio l’introduzione del personaggio di Hayt, il ghola creato dal Bene Tleilaxu, ovvero un clone di Duncan Idaho, uno dei protagonisti del primo Dune. Anche la presenza di nuove razze e creature dimostrano la vivace fantasia di Herbert. In definitiva, questo libro mi ha dato l’impressione di essere un’introduzione ai futuri sviluppi della saga che non abbandonerò certo ora.

Stephen King trova sempre spazio tra le mie letture e questa volta lo fa con la raccolta di racconti brevi, A volte ritornano. Il Re mette in mostra tutte le sue doti tecniche e la sua vivida immaginazione in questi venti racconti. Alcuni sarebbero poca cosa in mano ad altri autori ma non nella sua. Altri invece sono dei piccoli capolavori, ad esempio Jerusalem’s Lot (che anticipa Le notti di Salem), A volte ritornano, Il compressore, Camion o Il cornicione, solo per citarne alcuni. Quest’ultimo mi ha fatto sudare freddo, letteralmente. Come non citare Risacca notturna che getta le basi per un capolavoro come L’ombra dello scorpione. I figli del grano è un altro di quelle storie che solo King sa imbastire, così come il commovente L’ultimo piolo. Nonostante sia stata prima volta che leggevo questa raccolta, leggendo Il bicchiere della staffa (collegato sempre alla vicende di Jerusalm’s Lot) ho avuto l’impressione, molto forte, di conoscere già la storia. A meno che lo zio Steve non sia venuto a farmi visita nel sonno, sussurrandomela all’orecchio (ne dubito ma non lo escluderei), è probile che l’abbia letta in qualche libro di antologia che si leggono a scuola. Cos’altro aggiungere? A King basta una semplice idea per imbastire una storia fatta di personaggi credibili che si muovono in un mondo fatto di dettagli che lasciano il lettore senza fiato.

In seguito sono tornato sulla saga storica che racconta della Guerra delle Due Rose, scritta da Conn Iggulden e in particolare il suo secondo libro intitolato Trinity. Questo capitolo è più ricco di battaglie e azione rispetto al precedente, oltre al fatto che ci sono meno personaggi e ciò rende la storia più lineare e più coinvolgente. L’autore riesce nella non scontata impresa di rimanere imparziale quando narra le vicende tra le due fazioni dei Lancaster e degli York. Non ci sono buoni o cattivi, entrambi hanno le loro buone ragioni per combatte contro ciò che ritengono ingiusto. Spesso mi sono trovato in d’accordo con York per poi subito dopo fare lo stesso con la regina Margherita, sposa di re Enrico VI dei Lancaster. Come succede spesso nei romanzi storici, dove protagonisti sono persone realmente esistite, la loro fine non è dettata dal sentimento dell’autore ma dal corso della Storia. E questa riserva dei colpi di scena. Una lettura scorrevole che trasporta il lettore in un altro mondo dove tutto sembrava avere più valore e il tempo scorreva più lento ma inesorabile, in un’Inghilterra ancora alle prese con le ferite della Guerra dei Cent’anni.

Infine ho letto AIR: La storia di Michael Jordan scritto dal giornalista americano David Halberstam. Non è il genere di libro che leggo di solito, perché le biografie, soprattutto di personaggi contemporanei, non fanno per me. Ma mi è stato regalato in quanto sono un appassionato di pallacanestro, o di basket come diciamo erroneamente noi italiani, e quindi è per questo che si trova nella mia libreria. Il titolo originale, Playing for Keeps: Michael Jordan and the World He Made, rende meglio l’idea del suo contenuto rispetto alla versione italiana. Non racconta infatti la vita di Michael Jordan, anche se copre il periodo che va dall’università al secondo ritiro, ma piuttosto la sua ascesa sportiva e dei cambiamenti che ha portato, non solo nella pallacanestro, ma in tutto lo sport. L’autore si sofferma sulla forza di volontà si quest’uomo di vincere, di eccellere, in qualsiasi cosa che fosse una finale NBA o una partita a carte. Per buona parte del libro il giornalista salta avanti e indietro nel tempo senza un apparente motivo. Infatti la lettura è più scorrevole e appassionante quando poi i fatti vengono raccontati in ordine cronologico. Le parentesi sulle altre squadre, oltre ai Bulls, sono interessanti e curiose e danno una panoramica più ampia della NBA degli di fine anni ’80 e ’90. L’unico grosso difetto sono le numerose ripetizioni e la tendenza ad insistere su concetti già espressi in precedenza, oltre ad una traduzione non sempre perfetta, a mio parere. Mi sarebbe piaciuto anche un inserto fotografico, come spesso accade in questo genere di libri, e un albo d’oro che riassumesse la carriere di MJ ma non c’è niente di tutto questo. Un libro per appassionati insomma, se non si basket, di sport in generale.

Ancora un altro libro, ep. 3

Non c’è solo musica in questo blog e chi mi segue da qualche tempo lo sa. Ho sempre dedicato un po’ di spazio anche alle mie letture. Ultimamente cerco di riassumere in un solo post le mie impressioni sui libri che ho terminato di recente. Non sono un avido lettore, non divoro libri come se non ci fosse un domani ma mi prendo il mio tempo cercando di non spezzettare troppo la lettura. Per la verità accumulo titoli più di quanto riesca a leggerne, soprattutto ora che mi sono dotato di un lettore di ebook.
Ma veniamo al dunque e partiamo dal libro che ho iniziato successivamente alla pubblicazione dell’ultimo episodio di questa rubrica, ovvero Manituana di Wu Ming. Si tratta del terzo libro che leggo del collettivo italiano, celebre per il bestseller Q, e devo dire che non mi ha entusiasmato molto. Racconta, da un punto di vista insolito, le origini dell’indipendenza americana, ovvero quello dei nativi americani e gli alleati inglesi. La prima parte e piuttosto lenta, non è una novità per i Wu Ming, ma la storia non decolla mai davvero. Alcuni personaggi sono un po’ piatti, poco caratterizzati e alcuni di loro realmente esistiti. Molto bella la parte ambientata a Londra, ricca e divertente anche se fine a sé stessa. Ciò che segue questo intermezzo oltreoceano manca però di ritmo. Il finale è tirato per le lunghe e non aggiunge nulla. Un romanzo che fa riflettere su chi siano stati i buoni e chi i cattivi nella storia americana ma non uno dei migliori Wu Ming.
Probabilmente Le sette morti di Evelyn Hardcastle dell’esordiente Stuart Turton è il libro che più mi ha tenuto incollato alle sue pagine da un paio d’anni a questa parte. Un ottimo giallo dai toni classici ma decisamente originale nella forma. Il protagonista rivive per sette volte, incarnandosi ogni volta in un diverso personaggio, la giornata che porta alla morte della giovane Evelyn Hardcastle. L’obiettivo è scoprire il colpevole prima che le sette vite siano terminate. Nonostante sia complesso l’intreccio delle reincarnazioni, Turton riesce a renderlo solido, a prova di errore. L’ho letteralmente divorato, grazie alla sua tensione costante e la scrittura scorrevole. Davvero un debutto notevole. Da leggere senza distrazioni però, perché le azioni dei vari personaggi si intrecciano e si sovrappongono più volte e potrebbe essere difficile seguirle.
Spinto dai consigli di Stephen King, ho letto L’incubo di Hill House di Shirley Jackson. Non è il primo romanzo di questa autrice che leggo e sapevo che cosa aspettarmi. Infatti non ci sono state sorprese. Un buon romanzo, breve e scorrevole, forse invecchiato non proprio benissimo. La Jackson è brava a dare voce ai pensieri e alle ansie della protagonista ma spesso si dilunga troppo sulle conversazioni tra gli ospiti della casa. Il finale riserva qualche colpo di scena ma, a mio parere, la situazione precipita troppo velocemente. Consigliato ma non aspettatevi un horror di azione o indagine.
Ultimo ma non ultimo, L’incendiaria di Stephen King. Sto procedendo in ordine cronologico con le opere del Re e questo era il turno della bambina dai poteri pirocinetici. Non tra i migliori libri di King che ho letto finora ma pur sempre un ottimo libro. Bello il legame tra padre e figlia, reso ancor più bello dalla capacità di questo scrittore di descrivere il mondo dei bambini. In generale ho trovato la storia un po’ debole e prevedibile ma King con il suo talento salva tutto, caratterizzando come sa fare solo lui i pochi personaggi di questo libro. L’idea della Bottega, una agenzia governativa segreta che indaga sul paranormale, mi è sembrata un po’ abbozzata e il Re poteva sfruttarla meglio. Ma chi sono io per criticarlo?

Ancora un altro libro, ep. 2

Avevo concluso lo scorso anno, dando qualche consiglio letterario. Sono passati sei mesi da allora ed è arrivato il momento di aggiornarvi riguardo alle mie letture. In questi primi mesi del 2020, caratterizzati da quella cosa di cui sarete al corrente un po’ tutti, non hanno visto incrementare di molto il numero di libri che ho letto. Sopratutto perché non ho mai smesso di lavorare, per la maggior parte del tempo da casa, e quindi ho smesso di leggere comodamente in treno. Non so quando riprenderò a fare il pendolare ma per il momento cerco di leggere nei ritagli di tempo e la sera. Ma non voglio dilungarmi oltre e passerei ai fatti.

Il primo libro che ha aperto questo nefasto 2020 è Dune di Frank Herbert. Non sono un appassionato di fantascienza ma ero attratto da questo romanzo perché ho letto a riguardo opinioni entusiastiche. Il fatto che sia stato pubblicato 1965 può far pensare ad una fantascienza datata e non più credibile (cosa vera solo in alcuni dettagli insignificanti, come i libri su microfilm). Invece, essendo ambientato in un lontano futuro, circa 24.000 anni, mette in crisi chiunque voglia fare delle previsioni. All’inizio si fa un po’ fatica ad entrare nel mondo creato da Frank Herbert. Tanti nomi, spesso di derivazione araba e latina, tante usanze e personaggi. Piano piano però si entra nello spirito del libro. Ed è sorprendente come nel 1965, Herbert abbia anticipato tanti temi oggi molto attuali: ecologia, sfruttamento delle risorse e guerra santa. Un libro ricco di tematiche, affrontate all’interno di un thriller fantascientifico dalla tensione costante. Per scelta dell’autore, alcuni passaggi temporali non vengono raccontati e questo a volte spezza la lettura e lascia spaesati. Un libro che fa riflettere anche se non si è appassionati di fantascienza come me. Leggerò anche il seguito, conscio del fatto che l’intera saga copre un arco temporale di 16.000 anni! Attendo il film in arrivo (forse) entro l’anno con interesse.

Non può un fedele lettore di Stephen King, non provare a leggere qualcosa di Shirley Jackson. Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo piuttosto breve e non strettamente horror come si potrebbe pensare. Infatti qualcuno potrebbe restare deluso dal fatto che c’è poca azione e colpi di scena clamorosi. Il classico libro che si deve leggere per il piacere di farlo, solo così si può arrivare al finale che, in qualche modo, cambia la prospettiva delle vicende raccontate e ci fa salire un brivido lungo la schiena. Sono rimasto sorpreso dalla capacità della Jackson di introdurci lentamente nella vita delle due sorelle Blackwood, rendendoci partecipi della loro vita privata e di un passato pesante. Ho già altri libri della Jackson pronti da leggere e non vedo l’ora di affrontare ancora quest’autrice piuttosto enigmatica.

Mi è stato regalato La svastica sul sole di Philip K. Dick. Conosciuto anche come L’uomo nell’alto castello (traduzione letterale del titolo originale), racconta di una storia alternativa nella quale i tedeschi e i giapponesi vincono la seconda guerra mondiale. Primo romanzo di Dick che leggo e forse non l’ho compreso appieno. L’idea dei nazisti che vincono la seconda guerra mondiale è stata all’epoca a dir poco geniale ma secondo me molto poco approfondita. Per volontà dell’autore, vengono presentati al lettore vaghi accenni alle conseguenze di questo evento che avrebbe cambiato la storia. Le vicende dei personaggi danno l’impressione che si possano intrecciare ma più le pagine scorrono e più è forte la sensazione che non sarà così. Il ruolo dell’uomo nell’alto castello tutt’ora mi sfugge. Sembra che Dick abbia buttato lì un’idea, ottima peraltro, ma ha lasciato che altri gliela rubassero negli anni a venire. Non mi ha entusiasmato, devo essere sincero, e per il momento non ho intenzione di leggere altro di questo autore.

Ho proseguito anche con il secondo volume della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind, intitolato La Pietra delle Lacrime. Cosa dire, lo stile di Goodking è scorrevole ed è piacevole leggere le avventure di Richard e Kahlan. Tanta magia, combattimenti e uno sguardo diretto ad un lettore adulto o quasi. Piuttosto corposo ma mai troppo lento, anche se c’è qualche ripetizione di troppo. Non un capolavoro ma un buonissimo libro che intrattiene e a tratti fa anche riflettere. Una saga fantasy controversa scritta da un autore controverso ma sono anche io tra quelli a cui piace, almeno finora. Se volete una lettura estiva di svago ma non troppo, questa saga potrebbe fare per voi. Continuerò sicuramente con il prossimo volume ma non subito.

Non poteva deludermi e non l’ho ha fatto, Secretum della coppia Monaldi e Sorti. Un altro giallo/thriller storico molto accurato e interessante, sopratutto per le vicende storiche connesse. Gli stessi protagonisti del precedente Imprimatur sono alle prese con un conclave imminente e la successione al trono di Spagna. Suggestive le ambientazioni romane, molto dettagliate, nel quale si svolgono le loro avventure, narrate in un linguaggio settecentesco. Sempre precise e sorprendenti le note storiche che sono il punto di forza di questa serie di romanzi. Il vero colpo di scena lo offre la storia e non tanto il romanzo in sé. Se non avete mai letto Monaldi e Sorti vi consiglio di farlo subito anche se richiede un po’ di impegno. Non vedo l’ora di tornare a leggere di Atto Melani e il “ragazzo” senza nome.

La delusione è arrivata con Il Re in Giallo (o Il Re Giallo), raccolta di racconti di Robert W. Chambers. Precursore delle tematiche di H.P. Lovecraft e altri autori è tornato alla ribalta in tempi recenti dopo un periodo nel dimenticatoio e, senza offesa, forse c’era un motivo. I primi racconti che fanno riferimento al Re in Giallo sono i migliori. Poi questa raccolta include altri racconti decisamente meno coinvolgenti. Chambers si perde in lunghe descrizioni che non aggiungono niente ai racconti e annoiano il lettore. I personaggi sono solo dei nomi sulla carta, vanno e vengono confondendosi tra loro. Ho letto Poe e Lovecraft ed altri autori simili ma Chambers l’unico che mi ha messo in difficoltà. Ho fatto fatica ha finirlo e ammetto di aver saltato qualche pagina di descrizioni negli ultimi racconti. Non proprio consigliato a meno che lo volete leggere per beneficio di inventario e colmare il buco nella vostra libreria tra Poe e Lovecraft.

Infine sono ritornato sui romanzi storici con Conn Iggulden e il suo Stormbird, il primo di una serie di quattro romanzi ambientati in Inghilterra alla fine della guerra dei Cent’anni. Le vicende narrate aprono le porte a quella che sarà ricordata come la Guerra delle Due Rose. Davvero ben scritto e scorrevole, sopratutto nei dialoghi. Il linguaggio è forse un po’ moderno ma sicuramente più accessibile. Una sorpresa che mi ha ricordato un altro grande autore di romanzi storici come Bernard Cornwell. Quest’ultimo di sofferma più sui dettagli delle battaglie mentre Iggulden preferisce soffermarsi sulle vicende politiche e sugli uomini che hanno deciso la storia. L’autore si prende qualche libertà rispetto alla realtà me ne rende conto nelle note storiche al termine del romanzo.

Cinque colpi delle dita, ep. 5

Visto che molti di noi hanno più tempo per vedere film, lasciatemi dare qualche consiglio su cosa vedere (e cosa no). Qui sotto troverete delle brevi opinioni riguardo ai film che ho visto negli ultimi mesi, soprattutto in quest’ultimo, per ovvi motivi.
Comincio partendo da Il Cigno Nero del 2010 di Darren Aronofsky con Natalie Portman. In realtà lo avevo già visto in occasione di un passaggio in televisione ma ne ricordavo ben poco. Un film nel quale seguiremo la ballerina Nina Sayers mentre cerca di essere perfetta per la parte del cigno nero per un balletto molto importante. Una tensione abbraccia lo spettatore fin dal primo minuto senza mai abbandonarlo. Non ci sono prologhi o momenti per capire, qui tutto succede e basta. Una ricerca ossessiva della perfezione, visionaria ed intrigante.
Attratto dalle recensioni positive mi sono buttato su A Quiet Place credendo si trattasse di un horror dai risvolti originali. Mi sono reso conto poi, di essere di fronte ad un film fantascientifico ambientato in un mondo desolato e silenzioso. John Krasinski e Emily Blunt fanno un ottimo lavoro per non rendere scontato un film che poteva rivelarsi difficile da tenere in piedi. Non male davvero, sufficiente breve da non stancare e dal finale aperto per il suo seguito in uscita quest’anno.
Molto bello invece Her – Lei di Spike Jonze. Film del 2013 con Joaquin Phoenix e la voce di Scarlett Johansson (nella versione italiana un’azzeccatissima Micaela Ramazzotti). Una love story tra un uomo e l’intelligenza artificiale di un sistema operativo, molto toccante e che fa riflettere. Allora era considerato un film fantascientifico, oggi invece è pericolosamente vicino alla realtà. Da vedere per comprendere fino a che punto la tecnologia può giocare con i sentimenti.
Bello anche Still Life di Uberto Pasolini, uscito nel 2013. Le vicende girano intorno a John May, interpretato da Eddie Marsan, che si occupa di organizzare i funerali alle persone che muoiono sole. Lo sfondo è una cittadina inglese nelle quale le cose stanno cambiando velocemente. Si troverà così ad organizzare l’ultimo funerale prima di essere licenziato. Film semplice e commovente.
Non conoscevo la storia della pattinatrice Tonya Harding prima dell’uscita di Tonya. Film del 2017 di Craig Gillespie, interpretato da una bravissima Margot Robbie, ne racconta le vicende tragicomiche, vere o presunte, che hanno sconvolto nel 1994 il mondo sportivo e non solo, con l’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan. Un film divertente e ben congegnato.
Big Eyes è un’altra incredibile storia vera, raccontata nel 2014 da Tim Burton. Amy Adams e Christoph Waltz sono rispettivamente Margaret e Water Keane. Lui sfrutta le abilità artistiche della moglie per costruire un impero, prendendosi però tutto il merito delle opere. Davvero un bel film di rivincita e giustizia.
Altra storia vera ed incredibile, altro film. Questa volta è Spike Lee ha raccontarci di un poliziotto nero che riesce ad infiltrarsi nel KKK con il suo BlacKkKlansman (2018). A tratti divertente, in altri drammatico e un po’ tarantiniano ma molto ben fatto. Una tensione costante tiene incollato lo spettatore verso un finale di protesta che stride un po’ con il resto del film.
Che dire di Knives Out – Cena con delitto? Un giallo come si deve diretto da Rian Johnson e uscito lo scorso anno. Trama ingarbugliata e un cast d’eccezione, dove spiccano Daniel Craig, Chris Evans e Ana de Armas. Divertente e coinvolgente, un giallo classico ma con elementi davvero innovativi. Da non perdere.
Eh sì, non avevo mai visto La Cosa, film cult di John Carpenter del 1982. Un giovane Kurt Russell ci porta in una base scientifica in Antartide che viene infettata da un misterioso organismo alieno, risvegliatosi dai ghiacci. Può assumere le sembianze di qualsiasi essere vivente e imitarlo alla perfezione. Il resto ve lo lascio immaginare. A parte gli effetti speciali, un po’ datati ma comunque sorprendenti, è un film invecchiato molto bene.
Infine sono riuscito finalmente a vedere The Martian – Il Sopravvissuto, diretto da Ridley Scott del 2015 con Matt Damon e Jessica Chastain tra i protagonisti principali. Un film come si deve, teso dall’inizio alla fine senza momenti morti ed un finale da brividi. Sì è vero si sa già come andrà a finire ma in questo caso è il viaggio che conta.

Mi ha deluso un po’ Ready Player One di Steven Spilberg, uscito nel 2018. Tratto da un libro è una specie di kolossal dei videogiochi. In un futuro tutti potranno vivere in un mondo virtuale, mentre quello reale va a pezzi. Qualcuno però vuole rovinarlo e tocca all’insospettabile protagonista impedirlo. Tanti effetti speciali, con scende davvero spettacolari. Una su tutte la gara automobilistica che apre la competizione che è il fulcro del film. Per il resto tante citazioni della cultura pop anni ’80, inspiegabili dato che ambientato del futuro, che non credo di averle colte tutte.
Anche Suburbicon del 2017, diretto da George Clooney, con Matt Damon e Julianne Moore ha deluso le mie aspettative. L’humor nero funziona a tratti e il tema del razzismo è un po’ didascalico. L’alone di mistero attorno al malcapitato bambino protagonista di dissolve troppo presto. Da salvare per le ottime performance di tutto il cast.
Mi ha lasciato indifferente Il Grinta, remake del 2010 dei fratelli Coen di un classico western. Jeff Bridges, Matt Damon e la giovane Heilee Steinfeld sono i protagonisti di caccia all’uomo che manca un po’ di ritmo ma l’interpretazione, i costumi e le ambientazioni sono ottime.
Più godibile ma niente di eccezionale Allied del 2016 di Robert Zemeckis. Brad Pitt e Marion Cotillard sono due spie che incrociano le loro vite durante la seconda guerra mondiale. Un film di spionaggio, intrighi internazionali e d’amore. Forse con una mezzora in meno di scene totalmente inutili all’economia del film avrebbe giovato.
Devo essere sincero ma avevo delle grandi aspettative per Super 8. Il nome di J. J. Abrams è una garanzia ma il film non decolla mai davvero. A volte è un po’ confuso, soprattutto sulla parte fantascientifica della vicenda. Le scene con i ragazzini sono invece più coinvolgenti.
Avevo rimosso dalla mia memoria Mars Attacks! di Tim Burton del 1996 e ho voluto rivederlo. Lasciando stare la computer grafica, che rivista oggi è agghiacciante, il film non ha un senso logico e manca di ritmo. Davvero noioso nonostante un cast stellare.
Anche il cast di Assassinio sull’Orient Express (2017) di e con Kenneth Branagh, è stellare. Il risultato è migliore ma per me Poirot ha il volto e il portamento David Suchet. Troppa azione e poca indagine, non riesce davvero a tenerti sulle spine.