Ancora un altro libro, ep. 16

È giunto il momento di dare spazio alle mie letture, l’ultimo post di questo genere risale alla metà dello scorso dicembre. Qui brevemente cercherò di riassumere le mie impressioni raccolte di volta in volta termino un libro.

Cominciamo da Le strade di Laredo di Larry McMurtry. Ambientato circa vent’anni dopo i fatti narrati nel precedente Lonesome Dove, questo romanzo racconta una caccia all’uomo tra Texas e Messico. I protagonisti sono più o meno gli stessi, solo più vecchi e abituati ad una vita diversa, a parte il capitano Woodrow Call che si mette sulle tracce di un pericoloso assassino. La storia però procede lentamente e bisogna attendere tre quarti di libro prima che succeda qualcosa di significativo. Nel frattempo gli assassini psicopatici diventano due e uno è di troppo e, a conti fatti il suo peso nella trama è praticamente nullo. Inoltre ci sono troppe coincidenze, comportamenti inspiegabili da parte di alcuni personaggi, situazioni poco credibili e numerose ripetizioni. Anche i dialoghi non sono all’altezza del suo predecessore ma in generale è un romanzo ben scritto. Le strade di Laredo è una storia profondamente triste e diversa da quella di Lonesome Dove, nella quale non c’è redenzione per nessuno.

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Ancora un altro libro, ep. 14

Mi sono accorto che l’ultimo episodio di questa rubrica risale addirittura allo scorso febbraio. Credo sia arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Cominciamo con La ragazza dai capelli strani, breve raccolta di racconti in cui possiamo ammirare il talento, ancora acerbo, di David Foster Wallace e la sua capacità di analisi della società moderna. Ogni racconto ha un tono e uno stile diversi, spesso con una struttura frammentata, con continui cambiamenti nel punto di vista e persino della forma. Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, lo stile di questo autore continua ad essere innovativo e sorprendente. I periodi lunghissimi, le continue associazioni mentali e le situazioni assurde e geniali sono le caratteristiche che più emergono dalla sua lettura. Sotto la superficie c’è la volontà di Wallace di dare forma ai pensieri più complessi senza rinunciare alla sua visione lucida del mondo nel quale viviamo, una visione che è ha anticipato i tempi. Se cercate racconti con una trama ed un finale, in questa raccolta, non ne troverete nemmeno uno.

Decisamente una lettura più leggera quella de La spada del destino, ovvero il secondo volume della saga dello strigo Geralt di Rivia. Si tratta ancora una raccolta di racconti ma a differenza del primo, ho trovato questo un po’ meno avvincente. Nei tre primi racconti lo strigo non ha un ruolo attivo all’interno della storia, è uno spettatore al pari di alcuni personaggi secondari, pure poco caratterizzati. Nei successivi tre invece, Geralt mette finalmente mano alla spada e rende giustizia al suo ruolo. Una raccolta divisa in due metà, una trascurabile e un po’ lenta, e l’altra più convincente e in linea con lo spirito della saga mostrato finora. Indubbiamente Andrzej Sapkowskici sa fare, il suo stile è diretto e asciutto, con una particolare attenzione ai dialoghi. Forse solo le vicende amorose tra Yennefer e Geralt risultano, a volte, un po’ stucchevoli e fuori luogo. Non mi resta che scoprire cosa riserva il primo romanzo della saga.

Solo Stephen King poteva scrivere un romanzo su di un’automobile assassina senza essere banale e grottesco. Non sapevo cosa aspettarmi da Christine ma ha saputo sorprendermi anche questa volta. Nella prima parte King definisce i personaggi, i rapporti che li legano e il contesto nel quale vivono la loro vita serena. Finché il giovane Arnie non sceglie Christine. Nella seconda parte tutto cambia e si entra in un susseguirsi di eventi che sembra impossibile da fermare. Il male che continua oltre la vita e non conosce riposo. Il passato che apre vecchie ferite e il futuro incerto dei giovani protagonisti. Il finale riserva delle sorprese nel perfetto stile di questo autore, evitando spettacolari colpi di scena. Senza dubbio tra i migliori romanzi di questo autore che ho letto finora e consigliato anche a chi vuole iniziare a scoprire il Re.

La repubblica dei ladri è terzo capitolo della saga dei Bastardi Galantuomini e quello nel quale facciamo finalmente la conoscenza di Sabetha, personaggio fin qui solo nominato. Scott Lynch ci racconta anche di più sul passato di questa banda di ladri, svelandoci l’episodio del teatro già citato nei libri precedenti. Nel frattempo ritroviamo Locke e Jean impegnati nelle elezioni nella città dei maghi. Forse queste elezioni sono un pretesto un po’ debole per portare avanti la storia, soprattutto perché non è chiarissimo il ruolo dei due protagonisti, ma alla fine si spiega tutto o quasi. Questo romanzo appare più come un prologo per quello che seguirà. Il colpo di scena finale, infatti, apre a nuovi e inquietanti sviluppi. L’unico modo per scoprire quali saranno è leggere il prossimo The Thorn of Emberlain che però è in attesa di pubblicazione da dieci anni.

La battaglia di Ravenspur, il finale della quadrilogia della Guerra delle Due Rose, è quanto ci si poteva aspettare dopo il deludente terzo volume. Conn Iggulden non riesce a dare forma al romanzo che diventa così in una sorta di docufilm, dove alcune parti sono caratterizzate da dialoghi e azione, altre, più frequenti, non sono altro che una voce fuori campo che riassume velocemente i fatti più salienti. La sensazione è che l’autore non avesse le idee ben chiare e questo a portato all’assenza di una struttura, con personaggi poco caratterizzati e approfonditi. Le riflessioni dei protagonisti sono spesso ripetitive e alla lunga annoiano, dando l’impressione che servano solo ad riempire qualche pagina in più. La gran quantità di personaggi che hanno preso parte a questo conflitto, durato trent’anni, forse avrebbe meritato ben più di quattro libri o, in alternativa, un solo libro meno dettagliato ma più chiaro di quello che ha realizzato Iggulden. Questa serie di libri si è rivelata una delusione, soprattutto dopo i primi due buoni volumi. Non entro nel merito della fedeltà ai fatti storici che sono esposti nella nota storica in chiusura ma, a ben vedere, riassume, in una decina di pagine e in modo più chiaro, le altre centinaia appena concluse. Nota a margine: il titolo italiano è fuorviante. Non c’è stata nessuna battaglia a Ravenspur, anche se ha un ruolo centrale nelle vicende. Molto meglio il titolo originale: Wars of the Roses. Ravenspur: Rise of the Tudors.

Ancora un altro libro, ep. 13

Ecco il consueto appuntamento con una veloce recensione dei libri che ho letto negli ultimi mesi. Alcuni ottimi e altri un po’ meno.

Black Jesus. The anthology di Federico Buffa è una raccolta di aneddoti sul mondo della pallacanestro USA infarciti di termini gergali, nomi noti, altri meno, soprannomi e curiosità varie. Incomprensibile per chi non mastica un po’ di basketball. Fortunatamente non è il mio caso, altrimenti mi sarei trovato ancora più spaesato. Lo stile di Buffa è difficile da seguire su carta, spesso e volentieri si perde il filo. Mi sono ritrovato a rileggere più volte le stesse righe nel tentativo di capirne il significato. A tutto questo si aggiungono numerosi refusi (mai visti così tanti in un libro solo!) e ripetizioni inutili. Sarebbe bastato un minimo di editing, indicare almeno l’anno in cui è stato scritto ciascun capitolo e rivedere lo stile di scrittura per ottenere un libro tutto sommato godibile e interessante. Invece, così com’è, è francamente illeggibile.

Con la raccolta di racconti Scheletri, King si conferma essere un abile narratore anche quando lo spunto per una storia si dimostra un po’ debole. Quando questo autore sceglie di condensare la sua fantasia in poche pagine, viene a mancare la profonda caratterizzazione dei personaggi, caratteristica fondamentale dei suoi romanzi. Inoltre è in raccolte come questa che emergono, in maniera più evidente, le influenze di autori come Lovecraft (La nebbia, La scorciatoia della signora Todd, La nonna) e Poe (L’uomo che non voleva stringere la mano, L’immagine della falciatrice, Nona). Alcuni racconti sono stati inseriti più per “beneficio di inventario” che per altro ma altri sono dei piccoli capolavori (L’arte di sopravvivere, su tutti). Un’ottima raccolta che offre un’ampia panoramica sullo stile e l’immaginario di Stephen King.

Frank Herbert ha avuto il merito di aver creato un mondo complesso, un vero e proprio universo. Eppure anche in questo terzo volume della saga, intitolato I Figli di Dune, tutto si riduce ad una questione di famiglia. Leto II ripercorre i passi del padre Paul, affrontando pari pari le stesse visioni e facendo le medesime riflessioni anche se con esiti differenti. Gli altri personaggi sono gli stessi di sempre e mettono in piedi complotti e contro-complotti che sono difficili da seguire. Herbert, con il suo stile dico/non dico, non aiuta affatto il lettore nel districarsi tra di essi. Manca empatia con i protagonisti, in particolare con Leto che sa sempre cosa succederà (ma non lo dice a nessuno, anche perché se lo facesse sarebbe inutile continuare a leggere il resto del romanzo). La cerchia ristretta di personaggi rende vani alcuni colpi di scena ed è un peccato, soprattutto quando si ha a disposizione un intero universo. Il ritmo è lento e un buon centinaio di pagine sono di troppo. In definitiva un capitolo che porta avanti le incredibili vicende di Arrakis, appoggiandosi su di un intreccio complesso ma frastagliato, con dinamiche per larga parte prevedibili, salvandosi in un finale che lascia presagire importanti cambiamenti ma non soddisfa appieno.

Se nel primo volume di questa trilogia Mervyn Peake ha costruito il microcosmo di Gormenghast, in questo seguito, intitolato per l’appunto Gormenghast, lo distrugge pezzo dopo pezzo. Dopo una prima parte che ricalca le atmosfere grottesche e bizzarre del suo predecessore, il romanzo prosegue poi su un binario differente, più cupo e malvagio. Il personaggio chiave è Ferraguzzo sempre più disposto a tutto per ottenere il potere. Il giovane conte Tito è un ribelle che mina dall’interno le fondamenta del castello di Gormenghast mettendo a dura prova le solide mura di pietra e i suoi immemorabili rituali. Lo stile di Peake è unico, fatto di descrizioni dettagliate ma mai noiose, dialoghi scorrevoli (sempre divertenti gli scambi di battute tra il dottor Floristrazio e la sorella Irma) e colpi di scena spiazzanti. Non so sinceramente cosa aspettarmi dal terzo capitolo ma anche se non dovesse essere all’altezza di questi primi due, sono contento di essermi perso ancora una volta per gli immensi corridoi e le infinite stanze di Gormenghast.

Ancora un altro libro, ep. 11

In queste settimane il blog si prenderà qualche momento di pausa, anche se le ferie vere arriveranno ad agosto. Per non perdere il passo, faccio un breve riepilogo delle letture delle scorse settimane.

Dopo aver letto tutti i libri della Guida, pensavo di ritrovare in Dirk Gently, agenzia investigativa olistica la stessa inventiva folle e divertente tipica di Douglas Adams. Ma a parte qualche scena degna di nota, il personaggio del Monaco Elettrico e lo stesso Dirk Gently, il resto non convince. L’immaginazione brillante di Adams è annegata in una trama rigida ma allo stesso tempo confusionaria, che non trova compimento nel finale, anch’esso ai limiti dell’incomprensibile. Tutto succede troppo in fretta rispetto al resto della storia e si rischia più volte di perdere il filo. Conosco quello che sa fare Adams e questo libro non rivela a sufficienza il suo talento ed è meglio partire dalla Guida se lo si deve affrontare per la prima volta.

Come sempre Tolkien non delude e offre una versione accessibile a tutti del poema medievale di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, riscrivendolo quasi in prosa e conservandone il ritmo ed il linguaggio antico. Altrettanto ottima la traduzione italiana e la postfazione sulla simbologia dei poemi contenuti nella raccolta Sir Gawain e il cavaliere verde. Perla e sir Orfeo. Rispetto alla traduzione del Beowulf, sempre di Tolkien, ci sono molti meno suoi appunti e note, nonostante gli sforzi del figlio Christopher di raccoglierne il più possibile. Il poema Perla è forse il più impegnativo da leggere mentre Sir Orfeo è più semplice e breve. In definitiva una lettura interessante e per certi versi sorprendente nella modernità dell’eroe imperfetto e per il colpo di scena finale.

Con Cujo, ritorno da Stephen King ci rende partecipi di un incubo che dura pochi giorni e gira intorno alle vicende di pochi personaggi. Un San Bernardo idrofobo tiene in ostaggio nella loro auto un donna e suo figlio per giorni a causa di una serie di sfortunate coincidenze. La prima metà ci presenta la situazione, e qui alcuni potranno trovarla inutile ma al contrario io ritengo sia fondamentale ed è ciò che rende King un maestro. Senza quella prima parte, la seconda risulterebbe solo un horror sanguinario, una corsa contro il tempo fine a sé stessa. Invece il Re ci porta nelle campagne, nella abitazioni isolate e i suoi abitanti. Il cane Cujo è al solito un pretesto per raccontare altro, per raccontare l’uomo, la società americana. King ha forse scritto di meglio ma Cujo è un ottimo esempio di quello che è questo autore nel bene o nel male. I protagonisti sono verosimili e la situazioni in cui si trovano le due vittime anche. Il terrore di trovarsi in una situazione senza via d’uscita è palpabile. Forse ambientarlo al giorno d’oggi sarebbe più difficile, basterebbe un cellulare per risolvere tutto per il meglio. Sempre ammesso che King lo avesse voluto ben carico e con un buon segnale…

Ancora un altro libro, ep. 8

Prima che finisca anche questo anno mi sembra doveroso dare spazio anche alle mie letture. Questa rubrica infatti è ferma dallo scorso maggio e mi sembra il momento adatto per ricapitolare qui tutti i libri che ho letto da allora.

Cominciamo con Il diavolo e l’acqua scura di Stuart Turton che ci porta nel 1634 a bordo della misteriosa Saardam, una nave mercantile diretta ad Amsterdam. Dopo l’ottimo Le sette morti di Evelyn Hardcastle non vedevo l’ora di buttarmi su questo romanzo, il secondo dell’autore. Anche se potrebbe sembrare un giallo storico, la ricostruzione storica è appena accennata, per stessa ammissione dell’autore, in modo da concedere più spazio a trama e personaggi. Turton riesce sempre a creare una tensione costante nei suoi romanzi, disseminando indizi e intrecciando le vite dei vari protagonisti. Tutto molto bello se non fosse che l’impianto narrativo messo in piedi dall’autore si sofferma spesso su alcuni dettagli e lascia tempo al lettore di ragionare troppo sulla soluzione del mistero. Questo smorza la sorpresa finale, che di fatto arriva in anticipo se si escludono man mano i possibili sospettati. Va dato atto però a Turton di non lasciare nulla al caso e sono sicuro che saprà migliorarsi nei prossimi romanzi.

Il filo della spada è quarto capitolo delle avventure di Uhtred durante la nascita del regno d’Inghilterra. Bernard Cornwell è un grande narratore che questa volta lascia più spazio alla fantasia. Un’ambientazione meno vasta rispetto al solito e un obiettivo chiaro, rendono questo romanzo scorrevole e appassionante. Nuovi personaggi e vecchie conoscenze si alternano mantenendo alta la qualità di questa saga. Non vedo l’ora di continuare a seguire le avventure di questo signore della guerra, sempre diviso tra re Alfredo e il richiamo degli dei pagani.

Al mio radar dei classici gotici, per qualche motivo, è sempre sfuggito Il monaco di Matthew Gregory Lewis. Romanzo del 1796, ricco di tutte le caratteristiche del genere gotico. Fantasmi, demoni, tentazioni e cripte ammuffite fanno da sfondo alla torbida storia del monaco Ambrosio. Lewis riserva diversi capitoli agli altri personaggi che girano attorno a Lorenzo, i buoni della storia, e per un attimo ti fa credere che forse stai leggendo il libro sbagliato. Ma poi riprendono le vicende del monaco e tutto torna. Lettura scorrevole, anche grazie alla traduzione, cosa non scontata per un’opera di fine ‘700, con vivide descrizioni degli aspetti più macabri. Ma quando si parla di sesso, molto è lasciato all’immaginazione. Ritmo serrato e ben congegnato che ti tiene incollato fino al diabolico finale. Peccato per le parti in versi che non aggiungono nulla alla storia anzi spezzano inutilmente la narrazione e sembrano più un spot per l’autore che vuole vendersi come poeta.

Prosegue la mia avventura nella saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind che vede sempre protagonisti Richard e Kahlan con l’aiuto del mago Zedd. Il tempio dei venti è poco vario nelle ambientazioni e comunque alcune di questa già viste in precedenza e soprattutto piuttosto lento rispetto agli altri. Kahlan a volte va in paranoia e Richard sembra tanto risoluto ma basta poco per fargli cambiare idea. La storia è piuttosto debole ma resta comunque una lettura piacevole. La violenza gratuita rende questo fantasy adulto anche se il linguaggio usato da Goodkind non sconfina mai nel volgare. E non ne capisco sinceramente il perché. Incredibile ma vero nell’edizione italiana manca un intero capitolo ma non preoccupatevi, non si nota nemmeno. Questo è chiaramente un segno che il romanzo ha qualche pagina di troppo comunque.

I Wu Ming con L’armata dei sonnambuli danno il meglio in questo romanzo storico ambientato nei primi anni della rivoluzione francese. Tre protagonisti, le cui storie convergono nei capitoli finali, e un antagonista, si muovono in una Parigi instabile e confusa. Ci sono momenti horror vagamente paranormali, scene d’azione e le immancabili riflessioni sociopolitiche, il tutto intervallato da documenti, articoli di giornale e gazzettini vari. Divertenti i resoconti sgrammaticati ma genuini di chi “in piazza c’è stato davvero”. Forse un’introduzione alla situazione in Francia sarebbe stata d’aiuto per districarsi tra le varie fazioni ma si può porre rimedio comunque per proprio conto. Come al solito i Wu Ming mostrano l’altra faccia della Storia, supportati da una documentazione a volte esile ma ricca di fascino e mistero, senza disdegnare scene di puro intrattenimento.

Primo libro di DeLillo che leggo dopo averlo sentito associare a David Foster Wallace. In Rumore bianco ho notato delle somiglianze tra i due ma DeLillo fa uso dell’ironia più raramente, limitandola alle situazioni più grottesche. Un romanzo raccontato in prima persona, fatto di episodi e salti temporali brevi ma frequenti. L’autore sembra scegliere le parole una per una, senza lasciare nulla al caso. Un romanzo che parla di morte, ne è pervaso dalla prima all’ultima riga. Questo perché il protagonista ne è terrorizzato e non riesce a smettere di pensare ad essa. Più si va avanti nel racconto e meno trovano spazio le battute un po’ nonsense del postmodernismo, a beneficio di un ritmo più serrato. Non un libro semplice da leggere ma sicuramente ricco di spunti di riflessione. Mi sono rivisto spesso nei pensieri e nelle idee del protagonista e un po’ mi ha fatto impressione. Leggerò senza dubbio altro di DeLillo.

Da parecchio tempo non leggevo Deaver e La scimmia di pietra è una delle prime indagini di Lincoln Rhyme che mi ero lasciato indietro. Ne ho letti molti ma questo non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto. Ho intuito il principale colpo di scena con largo anticipo ma la spiegazione di Deaver lascia qualche buco e il resto è poco credibile. La prevedibile imprevedibilità di questo autore non è un meccanismo perfetto e ogni tanto si inceppa. Resta una lettura piacevole e tornerò di nuovo sulla scena del crimine con Linc e Amelia.

Una cosa divertente che non farò mai più è il reportage di David Foster Wallace a bordo un una crociera superlusso ed è irresistibile. Tutto il talento di questo scrittore condensato in poche ma divertenti pagine che raccontano la sua esperienza in modo lucido e dettagliato. Sono molti i passaggi che strappano una risata sincera. La capacità di DFW di scrivere di ogni cosa che gli passa davanti a gli occhi e per la testa con una facilità disarmante ed efficacia, è sorprendente. Difficile comprendere cosa sia stato “romanzato” e cosa no ma la mia idea è che la penna di questo autore sia più vera del vero e anche questa volta, nella sua superficiale leggerezza, sia riuscita a scavare nella profondità dell’animo umano e della cultura americana e occidentale. Consigliato a chi vuole scoprire lo stile di DFW senza impegno.

Con Le creature del buio – Tommyknockers, Stephen King si dà alla fantascienza ma senza rinunciare al suo immaginario horror. Perfetta come sempre la costruzione dei personaggi che popolano Haven, anche se in un paio di occasioni si dilunga troppo e inutilmente. King riesce a rendere verosimile perfino una storia che racconta di dischi volanti, arricchendola di dettagli. Gli alieni ci sono ma non si vedono mai per davvero e l’idea della mutazione è ben congegnata. Lettura scorrevole come di consueto per King anche se lui stesso lo considera il peggiore dei suoi. Il finale un po’ assurdo e sopra le righe toglie un po’ di magia ma poco male, c’è tanto di buono in questo libro.

Ancora un altro libro, ep. 7

Non è passato molto tempo dall’ultima volta che ho pubblicato un post riguardo alle mie letture. Infatti nel frattempo ho letto solo due libri ma entrambi meritano due parole. In particolare il primo di questi ovvero, Gli inganni di Locke Lamora (The lies of Locke Lamora) di Scott Lynch. Primo della serie dei Bastardi Galantuomini, è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 2006 e sono previsti altri sei volumi. La pubblicazione in Italia è stata travagliata ma lo scorso anno la Mondadori ha dato nuova vita ai primi tre capitoli, il quarto sarà pubblicato in lingua originale alla fine di quest’anno. Come potete notare, tra la pubblicazione del primo, Gli inganni di Locke Lamora appunto, e il successivo I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies), passa solo un anno ma ci vorranno ben sei anni prima di poter leggere La repubblica dei ladri (The Republic of Thieves). Scott Lynch ha dovuto affrontare diversi problemi personali che hanno rallentato la realizzazione delle opere, compreso l’ultimo romanzo The Thorn of Emberlain che uscirà a quattro anni di distanza dal precedente.
Vi starete chiedendo quindi come è questo Gli inganni di Locke Lamora. Innanzi tutto si potrebbe definire un fantasy. Ma è finalmente un fantasy dove il protagonista, Locke Lamora, non è un eroe che deve salvare il mondo, dove non c’è una netta distinzione tra male e bene e dove la magia non è onnipresente. Ci sono maghi ma un po’ diversi dal solito. Molto permalosi, vendicativi e anche parecchio costosi. La particolarità dello stile di Lynch è l’uso di toni adulti, con un linguaggio carico di parolacce, con un uso frequente di violenza fisica e verbale, ma sempre con una vena di ironia nera. Tutto ciò può piacere a molti e dare fastidio ad altri. Per certi versi può ricordare un po’ lo stile tarantiniano, per intenderci. Lo stesso Locke non è un personaggio per bene e, anche se appare simpatico e affabile, è disposto a tutto pur di salvarsi la pelle e guadagnarci sopra qualche moneta. Perché Locke è prima di tutto un abile ladro e truffatore e insieme ai suoi Bastardi Galantuomini mette a segno colpi mirabolanti. Jean Tannen è abile con le armi (ma anche senza), i gemelli Calo e Galdo Sanza sono ottimi in tutto e il giovane Cimice deve imparare ancora molto ma non gli manca certo il coraggio.
All’inizio va tutto per il verso giusto al nostro Locke Lamora e ai suoi compagni. La truffa al ricco Don Lorenzo Salvara inizia nel modo migliore ma la presenza nella città di Camorr del misterioso Re Grigio rovina i piani della banda. Camorr, appunto. Lynch pone i protagonisti in una simil Venezia settecentesca, dove si trovano tracce di una civiltà antica che costruiva tutto con un vetro indistruttibile. Gli uomini che la abitano hanno perso ogni conoscenza di quel periodo e vivono in un mondo più simile al nostro. L’autore crea tutta una mitologia, una religione originale e curiosa, fatta di numerose divinità. Spesso ci sono brevi digressioni che spiegano il contesto sociopolitico nel quale si muovono i personaggi senza mai approfondire troppo per non risultare noioso. I capitoli che raccontano la storia principale sono intervallati da flashback sulla gioventù di Locke Lamora e dei suoi colleghi e spesso influenzano la trama successivamente.
Quando iniziano i problemi e troppe cose mettono i bastoni tra le ruote alla Spina di Camorr (così è soprannominato Locke) si fa fatica a staccarsi dalle pagine grazie a colpi di scena del tutto inaspettati. Preparatevi perché succede di tutto. Non aggiungo altro per non rovinarvi il piacere della lettura, se non che la scrittura di Lynch, supportata da una traduzione più che ottima, è moderna e scorrevole, infarcita di parole desuete e altre del tutto inventate. Non vedo l’ora di leggere il secondo libro e scoprire qualcosa di più sui personaggi rimasti in secondo piano.

L’altro libro è La lunga marcia di Richard Bachman ovvero niente di meno che Stephen King. Lo pseudonimo fu creato da King nel tentativo di vedere se il suo successo era legato alle sue storie o semplicemente al suo nome. Non riuscì mai a scoprirlo dato che fu smascherato troppo presto (colpa dei diritti d’autore a suo nome) ma i numeri, piuttosto scarsi per Bachman sono a sostegno più della seconda ipotesi. Questo è il secondo romanzo a nome Bachman, il primo Ossessione, è stato ritirato dal mercato per volontà dello stesso King a seguito di alcuni episodi di violenza forse legato ad esso o forse no. La lunga marcia è stato pubblicato per la prima volta nel 1979 ma è stato scritto tra il 1966 e il 1967, otto anni prima dell’esordio di King con Carrie.
Cento ragazzi partecipano ad una logorante marcia che parte dal confine del Maine con il Canada per arrivare fino a Boston, a meno che non rimanga un solo concorrente. Sì perché chi rallenta, commette infrazioni previste dal regolamento viene prima ammonito tre volte, poi “congedato” ovvero fucilato sul posto da inflessibili soldati. Alla fine il vincitore avrà un sacco di soldi e un imprecisato Premio. Ovviamente ci troviamo negli Stati Uniti ma diversi da come li conosciamo. Sembra esserci un regime militare che non viene mai approfondito dall’autore. In realtà sono tanti i punti oscuri di questo romanzo. Quello che conta è la marcia. La scelta di King di raccontarla dal punto di vista di Ray Garraty, un giovane concorrente, lascia pochi dubbi su come vada a finire.
King riesce a dare forma ad un vero proprio incubo al quale prendono parte dei ragazzi incoscienti della loro scelta. La tensione è sempre alta e sembra di partecipare con loro a questa logorante “passeggiata” che porterà i concorrenti a reagire in modi diversi. Chi si arrende e accetta la morte, chi non vuole mollare e in un certo senso “muore”, annullando sé stesso, spegnendosi lentamente. Non c’è alternativa, o cammini e vinci o muori. Ottima quest’idea di base e la scelta di non approfondire il contesto nel quale si svolge la competizione, lasciando al lettore la libertà di immaginarsi questi Stati Uniti distopici e la natura del Premio. Ma si tratta pur sempre di un King acerbo, che perde la bussola nel capitolo finale, accelerando troppo e senza motivo. Tutti sanno che il Re ha qualche problema con i finali e questo è il più enigmatico dei suoi letti finora. Ho girato l’ultima pagina credendo di trovare il resto ma era completamente bianca. Forse una vera conclusione avrebbe deluso comunque ma vale lo stesso la pena di leggerlo, consapevoli che King ha scritto di meglio. Conta di più il viaggio che la meta.

Ancora un altro libro, ep. 6

L’ultimo episodio di questa rubrica risale a gennaio e quindi è arrivato il momento di raccogliere qui le impressioni sulle letture che ho affrontato in questi mesi. Dopo aver salutato, solo temporaneamente, il buon David Forster Wallace, mi sono dedicato al secondo capitolo della saga di Dune, scritta da Frank Herbert, intitolato Il Messia di Dune. Questo capitolo della saga fantascientifica di Dune è più breve del precedente ma decisamente più lento. Non che il primo sia tutto azione e dialoghi ma questa volta è la trama a non essere particolarmente brillante. Herbert indugia troppo sulle visioni di Paul e Alia, non sfruttando appieno gli intrighi del complotto, lasciando che tutto si risolva da sé o quasi. Paul Atreides, conosciuto anche come Muad’dib, il Kwisatz Haderach, è dotato, più di altri, del potere di avere visioni del suo futuro che si confondono e si sovrappongono, rendendole di difficile interpretazione. Arrakis passa in secondo piano, dando più spazio all’Imperatore, sacrificando così il fascino di questo pianeta che ha reso speciale il primo capitolo. Ci sono anche molti aspetti interessanti ne Il Messia di Dune, ad esempio l’introduzione del personaggio di Hayt, il ghola creato dal Bene Tleilaxu, ovvero un clone di Duncan Idaho, uno dei protagonisti del primo Dune. Anche la presenza di nuove razze e creature dimostrano la vivace fantasia di Herbert. In definitiva, questo libro mi ha dato l’impressione di essere un’introduzione ai futuri sviluppi della saga che non abbandonerò certo ora.

Stephen King trova sempre spazio tra le mie letture e questa volta lo fa con la raccolta di racconti brevi, A volte ritornano. Il Re mette in mostra tutte le sue doti tecniche e la sua vivida immaginazione in questi venti racconti. Alcuni sarebbero poca cosa in mano ad altri autori ma non nella sua. Altri invece sono dei piccoli capolavori, ad esempio Jerusalem’s Lot (che anticipa Le notti di Salem), A volte ritornano, Il compressore, Camion o Il cornicione, solo per citarne alcuni. Quest’ultimo mi ha fatto sudare freddo, letteralmente. Come non citare Risacca notturna che getta le basi per un capolavoro come L’ombra dello scorpione. I figli del grano è un altro di quelle storie che solo King sa imbastire, così come il commovente L’ultimo piolo. Nonostante sia stata prima volta che leggevo questa raccolta, leggendo Il bicchiere della staffa (collegato sempre alla vicende di Jerusalm’s Lot) ho avuto l’impressione, molto forte, di conoscere già la storia. A meno che lo zio Steve non sia venuto a farmi visita nel sonno, sussurrandomela all’orecchio (ne dubito ma non lo escluderei), è probile che l’abbia letta in qualche libro di antologia che si leggono a scuola. Cos’altro aggiungere? A King basta una semplice idea per imbastire una storia fatta di personaggi credibili che si muovono in un mondo fatto di dettagli che lasciano il lettore senza fiato.

In seguito sono tornato sulla saga storica che racconta della Guerra delle Due Rose, scritta da Conn Iggulden e in particolare il suo secondo libro intitolato Trinity. Questo capitolo è più ricco di battaglie e azione rispetto al precedente, oltre al fatto che ci sono meno personaggi e ciò rende la storia più lineare e più coinvolgente. L’autore riesce nella non scontata impresa di rimanere imparziale quando narra le vicende tra le due fazioni dei Lancaster e degli York. Non ci sono buoni o cattivi, entrambi hanno le loro buone ragioni per combatte contro ciò che ritengono ingiusto. Spesso mi sono trovato in d’accordo con York per poi subito dopo fare lo stesso con la regina Margherita, sposa di re Enrico VI dei Lancaster. Come succede spesso nei romanzi storici, dove protagonisti sono persone realmente esistite, la loro fine non è dettata dal sentimento dell’autore ma dal corso della Storia. E questa riserva dei colpi di scena. Una lettura scorrevole che trasporta il lettore in un altro mondo dove tutto sembrava avere più valore e il tempo scorreva più lento ma inesorabile, in un’Inghilterra ancora alle prese con le ferite della Guerra dei Cent’anni.

Infine ho letto AIR: La storia di Michael Jordan scritto dal giornalista americano David Halberstam. Non è il genere di libro che leggo di solito, perché le biografie, soprattutto di personaggi contemporanei, non fanno per me. Ma mi è stato regalato in quanto sono un appassionato di pallacanestro, o di basket come diciamo erroneamente noi italiani, e quindi è per questo che si trova nella mia libreria. Il titolo originale, Playing for Keeps: Michael Jordan and the World He Made, rende meglio l’idea del suo contenuto rispetto alla versione italiana. Non racconta infatti la vita di Michael Jordan, anche se copre il periodo che va dall’università al secondo ritiro, ma piuttosto la sua ascesa sportiva e dei cambiamenti che ha portato, non solo nella pallacanestro, ma in tutto lo sport. L’autore si sofferma sulla forza di volontà si quest’uomo di vincere, di eccellere, in qualsiasi cosa che fosse una finale NBA o una partita a carte. Per buona parte del libro il giornalista salta avanti e indietro nel tempo senza un apparente motivo. Infatti la lettura è più scorrevole e appassionante quando poi i fatti vengono raccontati in ordine cronologico. Le parentesi sulle altre squadre, oltre ai Bulls, sono interessanti e curiose e danno una panoramica più ampia della NBA degli di fine anni ’80 e ’90. L’unico grosso difetto sono le numerose ripetizioni e la tendenza ad insistere su concetti già espressi in precedenza, oltre ad una traduzione non sempre perfetta, a mio parere. Mi sarebbe piaciuto anche un inserto fotografico, come spesso accade in questo genere di libri, e un albo d’oro che riassumesse la carriere di MJ ma non c’è niente di tutto questo. Un libro per appassionati insomma, se non si basket, di sport in generale.

Ancora un altro libro, ep. 3

Non c’è solo musica in questo blog e chi mi segue da qualche tempo lo sa. Ho sempre dedicato un po’ di spazio anche alle mie letture. Ultimamente cerco di riassumere in un solo post le mie impressioni sui libri che ho terminato di recente. Non sono un avido lettore, non divoro libri come se non ci fosse un domani ma mi prendo il mio tempo cercando di non spezzettare troppo la lettura. Per la verità accumulo titoli più di quanto riesca a leggerne, soprattutto ora che mi sono dotato di un lettore di ebook.
Ma veniamo al dunque e partiamo dal libro che ho iniziato successivamente alla pubblicazione dell’ultimo episodio di questa rubrica, ovvero Manituana di Wu Ming. Si tratta del terzo libro che leggo del collettivo italiano, celebre per il bestseller Q, e devo dire che non mi ha entusiasmato molto. Racconta, da un punto di vista insolito, le origini dell’indipendenza americana, ovvero quello dei nativi americani e gli alleati inglesi. La prima parte e piuttosto lenta, non è una novità per i Wu Ming, ma la storia non decolla mai davvero. Alcuni personaggi sono un po’ piatti, poco caratterizzati e alcuni di loro realmente esistiti. Molto bella la parte ambientata a Londra, ricca e divertente anche se fine a sé stessa. Ciò che segue questo intermezzo oltreoceano manca però di ritmo. Il finale è tirato per le lunghe e non aggiunge nulla. Un romanzo che fa riflettere su chi siano stati i buoni e chi i cattivi nella storia americana ma non uno dei migliori Wu Ming.
Probabilmente Le sette morti di Evelyn Hardcastle dell’esordiente Stuart Turton è il libro che più mi ha tenuto incollato alle sue pagine da un paio d’anni a questa parte. Un ottimo giallo dai toni classici ma decisamente originale nella forma. Il protagonista rivive per sette volte, incarnandosi ogni volta in un diverso personaggio, la giornata che porta alla morte della giovane Evelyn Hardcastle. L’obiettivo è scoprire il colpevole prima che le sette vite siano terminate. Nonostante sia complesso l’intreccio delle reincarnazioni, Turton riesce a renderlo solido, a prova di errore. L’ho letteralmente divorato, grazie alla sua tensione costante e la scrittura scorrevole. Davvero un debutto notevole. Da leggere senza distrazioni però, perché le azioni dei vari personaggi si intrecciano e si sovrappongono più volte e potrebbe essere difficile seguirle.
Spinto dai consigli di Stephen King, ho letto L’incubo di Hill House di Shirley Jackson. Non è il primo romanzo di questa autrice che leggo e sapevo che cosa aspettarmi. Infatti non ci sono state sorprese. Un buon romanzo, breve e scorrevole, forse invecchiato non proprio benissimo. La Jackson è brava a dare voce ai pensieri e alle ansie della protagonista ma spesso si dilunga troppo sulle conversazioni tra gli ospiti della casa. Il finale riserva qualche colpo di scena ma, a mio parere, la situazione precipita troppo velocemente. Consigliato ma non aspettatevi un horror di azione o indagine.
Ultimo ma non ultimo, L’incendiaria di Stephen King. Sto procedendo in ordine cronologico con le opere del Re e questo era il turno della bambina dai poteri pirocinetici. Non tra i migliori libri di King che ho letto finora ma pur sempre un ottimo libro. Bello il legame tra padre e figlia, reso ancor più bello dalla capacità di questo scrittore di descrivere il mondo dei bambini. In generale ho trovato la storia un po’ debole e prevedibile ma King con il suo talento salva tutto, caratterizzando come sa fare solo lui i pochi personaggi di questo libro. L’idea della Bottega, una agenzia governativa segreta che indaga sul paranormale, mi è sembrata un po’ abbozzata e il Re poteva sfruttarla meglio. Ma chi sono io per criticarlo?

Cinque colpi delle dita, ep. 4

Come ho fatto per i libri, prima che si concluda l’anno, pubblico delle brevi recensioni/opinioni riguardo ai film che ho visto quest’anno.

Ho portato avanti la filmografia di Quentin Tarantino cominciando con Jakie Brown del 1997. Film piuttosto normale per gli standard del regista americano e l’unico finora non originale essendo tratto dal romanzo Punch al rum di Elmore Leonard. Trama fatta di inganni e contro inganni con personaggi ben caratterizzati capaci di tenere alta la tensione per tutto il film. Ma quello che volevo vedere più di tutti era The Hateful Eight del 2015. Cast stellare, ambientazione western e l’espediente della stanza chiusa. Cosa chiedere di più? Niente perché Tarantino ancora una volta non delude con i suoi dialoghi fiume, conditi di volgarità a non finire, e dei personaggi irresistibili. C’è una domanda che riecheggia durante il film: cos’è la giustizia? Gli odiosi otto pensano tutti di avere ragione, si accusano l’uno con l’altro, ma solo una è la verità. Sarà abbastanza per placare la sete di giustizia o c’è altro? Da vedere assolutamente. Meno imperdibile ma tutto sommato nient’affatto male, Colossal film del 2016, diretto da Nacho Vigalondo con Anne Hathaway e Jason Suideikis. Un gigantesco mostro che sta distruggendo Seul è per qualche motivo collegato mentalmente ad una ragazza americana. Solo lei può fermarlo. Un’idea di fondo interessante e piena di possibili complicazioni. Qualche perplessità sullo sviluppo del personaggio antagonista e il finale affrettato ma per il resto è un godibilissimo mix di azione, comicità e thriller fantascientifico. Di tutt’altro tenore The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese del 2013 con Leonardo DiCaprio. Filmone ispirato dalla vera ascesa (e caduta) dell’agente di borsa Jordan Belfort. Montagne di soldi, lusso, sesso e droga permeano ogni secondo di questo film. Quasi tre ore che filano via sperando di vedere cadere l’insopportabile broker. Nonostante io abbia ascoltato, anni e anni fa, un infinità di volte la colonna sonora del film The Blues Brothers non avevo mai visto il film del 1980 con John Belushi e Dan Aykroyd. Finalmente ora posso dire di averlo fatto. Mi ha sorpreso perché pensavo fosse una sorta di musical e invece non lo è. Pensavo fosse una commedia e invece è una commedia sì ma demenziale. Divertente e pieno di musica, un film che è invecchiato bene.

Incuriosito dal trailer e dalla presenza di Blake Lively ho visto Chiudi gli occhi (All I see is you), film del 2018 diretto da Marc Foster. Speravo in un thriller ricco di mistero e dai risvolti paranormali ed invece si è rivelato, sì un thriller ma sentimentale. Una ragazza, Blake Lively, che a causa di un incidente da bambina rimane ceca, si innamora di un uomo che si prenderà cura di lei, Jason Clarke. Con un’operazione riacquisterà la vista dall’occhio destro, riuscendo così a vedere il volto di suo marito e cominciare una nuova vita. Non vado oltre per spoilerare ma vi dico subito che, contrariamente a quanto dovrebbe succedere ho provato empatia più per Clarke, che in questo caso è l’antagonista, che per la protagonista e vittima interpretata dalla Lively. Il colpo di scena arriva troppo tardi e ciò poteva essere il fulcro della storia invece ne diventa la sua conclusione. Bravi gli attori e belle le ambientazioni ma l’interessante idea di fondo è stato sfruttata male. Ho visto in tv il primo adattamento del romanzo di Stephen King Pet Sematary del 1989. Sceneggiato dallo stesso King è molto fedele al libro, con effetti speciali vecchia scuola davvero ben fatti. C’è qualcosa in CGI che fa orrore per quanto è brutta e inutile piuttosto che per il suo intento horror. La recitazione è ha tratti ridicola e smorza in più occasioni la tensione del film. Adattamento trascurabile. Poi ho visto Under the Skin, film del 2014 con Scarlett Johansson diretta dal regista inglese Jonathan Glazer, che vuole indagare sulla razza umana con gli occhi di un alieno nei panni di una donna attraente. Ambientazioni claustrofobiche e tensione piuttosto blanda non aiutano a far decollare il film che è più un esercizio di stile che altro. Non è un cattivo film ma poteva essere approfondito meglio.

Ancora un altro libro

Mi ero ripromesso, all’inizio dell’anno, di scrivere di più riguardo ai libri letti. In parte ho mantenuto la promessa ma prima che finisca questo 2019 vi consiglierò ancora qualche libro. Prima di addentrarmi nei dettagli di alcuni libri in particolare vi consiglio le divertenti avventure di Tre Uomini In Barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome. Un libretto carico di scene comiche e a volte paradossali, in bilico tra fantasia e realtà, che vede protagonisti tre amici in gita sul Tamigi con il cane Montmorency. Scritto nel 1889, strappa ancora qualche sorriso e anche qualcosa di più. Il suo seguito Tre Uomini a Zonzo ambientato in Germania è meno comico ma è incredibilmente profetico sulla diffusione della lingua inglese e l’avvento di Hitler, oltre ad essere infarcito di contraddizioni e assurdità del popolo tedesco. Se vi piacciono i libri più seri, vi consiglio Altai del collettivo Wu Ming, romanzo storico che fa da seguito (o quasi) di Q, che ho letto tempo fa. Meno complesso e più lineare del predecessore è comunque un buon romanzo, ben scritto e pensato.

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Scegliere cosa leggere nella sconfinata bibliografia di Stephen King, era un problema che non volevo più affrontare. Perciò non mi restava altro che procedere in ordine cronologico. Avendo già letto Carrie (1974) e i successivi Shining (1977) e L’ombra dello scorpione (1978) mi restava solo Le notti di Salem (1975), per completare i suoi primi quattro libri. Sapevo già di dover affrontare una storia di vampiri e che avrei incontrato padre Donald Callahan, protagonista di alcuni episodi della Torre Nera. Le intenzioni del giovane King erano quelle di scrivere un libro che fosse una pietra miliare dei libri dei vampiri e dell’horror in genere. Lo stesso King ammetterà di essere stato un po’ presuntuoso ma Le notti di Salem resta comunque un eccezionale esempio del suo talento. Questo romanzo ha contribuito in modo significativo a etichettarlo come il “re del’horror”, definizione che gli è sempre andata stretta ma che non ha mai rifiutato.
L’idea alla base del romanzo è semplice, come nella maggior parte dei romanzi di King: un vampiro decide di stabilirsi nella sonnolenta cittadina di Jerusalem’s Lot nel Maine, scegliendo una casa nota per la sua cattiva reputazione. Il resto lo potete immaginare, tutti sappiamo cosa fanno i vampiri ma ciò che sorprende di questo libro è il contesto nel quale si svolgono i fatti. Il male, rappresentato dal vampiro Kurt Barlow, si muove senza sosta nella quotidianità delle notti di Salem’s Lot. Durante il giorno solo pochi cittadini notano che qualcosa sta succedendo ma fingono di non vedere (anticipando il sentimento della città di Derry in It). Lo scrittore Ben Mears, torna a Sales’s Lot, dopo averla lasciata da bambino e più di tutti nota le terribili azioni dello straniero Barlow e del suo aiutante R.T. Straker. Troverà la collaborazione del professore Matt Burke e l’appoggio di Susan Norton, una giovane ragazza che Ben ha conosciuto proprio a Salem’s Lot. Si aggiungerà ben presto alla compagnia anche Mark Petrie, un ragazzino senza paura, appassionato di mostri e vampiri. La lotta contro Barlow risulterà subito impari e King si rivela spietato e senza nessun rispetto per il lettore, soprattutto per quello che si affeziona facilmente ai personaggi.
Nonostante si noti un King un po’ acerbo sotto alcuni aspetti, si può già apprezzare la sua capacità nel dettagliare e dare profondità ai personaggi secondari (o perfino semplici comparse). Praticamente ognuno di essi ha nome e cognome, un lavoro, un passato anche se il suo passaggio nel romanzo è molto breve. Che King si sia ispirato a Dracula di Bram Stoker è cosa nota, anzi lui stesso lo sottolinea più volte. L’impostazione stessa della trama è molto simile. L’unica differenza è che quello di Stoker era una sorta di romanzo epistolare, quello di King è in questa forma solo nel capitolo finale. Un romanzo che non si può non definire horror e quindi si discosta un po’ dalle successive produzioni del Re, meno focalizzate su mostri e sangue. Un romanzo d’azione con pochi momenti riflessivi. In definitiva Le notti di Salem è un romanzo assolutamente da non perdere per conoscere Stephen King e le sue influenze letterarie, oltre a quelle che avrà sulla successiva produzione del Re.
In seguito ho anche letto La Zona Morta (1979). Avevo visto, diversi anni fa, il film del 1983 di David Cronenberg con Christopher Walken ma del quale ricordavo davvero poco. In questo romanzo King mette da parte mostri e il suo immaginario horror per confezionare un thriller dal ritmo incalzante e dall’immancabile componente sovrannaturale. Il giovane Johnny Smith, capace di avere delle premonizioni, rimane in coma per cinque anni in seguito ad un grave incidente automobilistico. Al suo risveglio trova un mondo diverso e le sue capacità più sviluppate ed invadenti. Una serie di eventi lo porterà a decidere le sorti degli Stati Uniti d’America. Stephen King ci racconta un’istantanea di quegli anni, tra mito e realtà, di un sogno americano corrotto e, purtroppo, profetico. Un ottimo libro per chi vuole iniziare ad affrontare il mondo di King.

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Non sono un appassionato del genere fantasy. Ho letto solo Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion e Lo Hobbit e dunque la mia cultura fantasy è limitata a questo noto scrittore inglese. Ma questa estate, non ricordo come, sono incappato nella saga fantasy de La Spada della Verità. Avevo visto, diversi anni fa, la serie tv della quale, a parte una splendida Bridget Regan nella parte di Kahlan Amnell, ricordavo poco o niente. Ho saputo che la serie era tratta dai libri di Terry Gooking, un autore americano che ha praticamente scritto solo romanzi che riguardano le avventure del Cercatore e della Depositaria. Sono partito ovviamente dal primo volume della quale è composta la saga. L’edizione italiana ha attraversato una serie di pubblicazioni un po’ confuse rispetto all’originale e l’attuale è composta di undici volumi che vanno a coprire il primo arco letterario della saga. Il primo volume racchiude i primi due episodi della saga e supera le 700 pagine. Prima di intraprendere questa avventura ho cercato di informarmi un po’ a riguardo. Ho capito essere una saga più per adulti che per ragazzi, contrariamente a come accade spesso nella letteratura fantasy, e che l’autore non deve essere un gran simpaticone ed è un po’ fissato con la dottrina filosofica dell’oggettivismo. Questa ultima caratteristica è particolarmente evidente in alcuni passaggi del libro e se devo essere sincero è una visione delle cose piuttosto condivisibile. In sostanza, anche i cattivi fanno i cattivi per una buona ragione e credono di essere nel giusto tanto quanto i buoni. Ho semplificato troppo, Wikipedia saprà essere più esaustiva se vi interessa. Comunque, la Spada della Verità mi aveva convinto e pur non aspettandomi chissà quale capolavoro, ho iniziato la lettura. Soprattutto nei primi capitoli si intuisce, forse anche per colpa di una traduzione non eccezionale, che Goodking non è uno scrittore nato. Anche se la lettura è estremamente scorrevole e senza particolari momenti morti, si può trovare qualche dialogo è un po’ infantile e il protagonista Richard Chyper a volte appare un po’ troppo ingenuo. Le idee però non mancano al buon Terry, anche se qualcuno lo accusa di aver scopiazzato qua e là nella letteratura fantasy (ma chi non l’ha mai fatto dopotutto). Fin da subito il mondo di Goodkind si delinea chiaramente, le Terre dell’Ovest prive di magia da una parte e dall’altra le Terre Centrali e il D’Hara, dove imperversa la magia. I tre confini che tengono separate le terre sono in pericolo, e uno di questi è già crollato ad opera del malvagio Darken Rahl. Il giovane Richard Cypher si trova coinvolto, dal mago e amico Zedd e dalla Depositaria Kahlan Amnell, in un viaggio alla ricerca della terza scatola dell’Orden. Un oggetto che, se finisse nelle mani di Rahl, gli permetterebbe di sottomettere il mondo. Non rivelo altro sulla trama che è interessante e ben congegnata. Mi è piaciuto il fatto che Goodking non si risparmia sui particolari violenti e anche un po’ splatter, che indirizza il fantasy verso un pubblico adulto. Notevoli i capitoli nel quale Richard è prigioniero di una Mord Sith. Sono tesi e claustrofobici, oltre ad essere una chiara fantasia sadomaso dell’autore. Al di là di questo, le scene delle torture sono le più toste del romanzo. Manca però, in mezzo a tutto questo, un po’ di sano turpiloquio. I cattivi non si abbandonano mai ad espressioni volgari e anche ai protagonisti non scappa mai una mezza parolaccia (forse c’entra ancora la traduzione). Evidentemente il fantasy piace così ma, a me, ha fatto uno strano effetto. In definitiva le oltre 700 pagine del primo volume le ho divorate in poco tempo e ho passato delle ore di piacevole lettura. Leggerò sicuramente anche il secondo volume e chissà se in futuro qualche altra saga fantasy farà capolino da queste parti.