Lettere d’amore alla prateria

Questo album è rimasto a lungo nella mia wishlist e solo in occasione dell’ultimo Bandcamp Friday, mi sono deciso ad acquistarlo. Prairie Love Letter aveva tutte le caratteristiche che mi piace trovare nella musica country ma, come spesso mi accade, la lunga carriera della cantautrice americana Brennen Leigh mi aveva fatto esitare. Non per chissà quale motivo ma semplicemente perché preferisco scoprire un artista dai suoi primi passi piuttosto che entrare quando lo spettacolo è già iniziato. A volte però è giusto fare uno strappo alla regola per evitare di perdersi qualcosa che vale la pena ascoltare davvero. Mi sono bastati pochi minuti per capire che era proprio quello che andava fatto.

Brennen Leigh
Brennen Leigh

Don’t You Know I’m From Here apre l’album ed è subito chiaro il suo tema. I ricordi della propria terra, di una città lasciata anni fa ma dove ancora resistono salde le radici della Leigh. Una malinconica canzone country ma è solo l’inizio, “I left here full of vinegar back in ‘99 / Guitar in my back seat, big time on my mind / My desire to leave the old me in the dust could not have been more sincere / I looked down my nose at friends, turns out I might need them again / Don’t you know I’m from here“. La successiva Billy & Beau racconta di uno sfortunato amore omosessuale tra due ragazzi. Un amore mai dichiarato ma del quale, chi canta, ne era a conoscenza, nonostante i silenzi dell’amico, “The heart wants to go where the heart wants to go and you can’t undo it / Billy never told me so but I just knew it / Billy loved Beau“. The John Deere H è una spensierata ballata country, una dichiarazione d’amore per… un vecchio trattore. Una canzone così sincera e naturale che non c’è modo di dubitare su ciò che ci racconta questa cantautrice, “The H was made in a factory down in Waterloo / But my dad had got her second hand from some folks that we knew / She wasn’t sleek and she wasn’t fast, took a while to get her going / But she beat a horse and a hand held plow for cutting hay and hoeing“. The North Dakota Cowboy è un altro gioiellino country che racconta di questo ragazzo dagli occhi verdi del quale si invaghì Brennen, o chi per lei, molti anni fa. Un bel giorno se ne andò ma rimase sempre giovane nei suoi ricordi, “His eyes were green as Norway pines, his laughter warm and pure / But he felt a burden in his mind even love could not have cured / And that North Dakota cowboy, handsome, young, adored / Rode off into the prairie sky in his rusty yellow Ford“. Bastano poco meno di due minuti per esprimere tutta la bellezza e la forza della musica country in Yellow Cedar Waxwing. Sono ancora i ricordi d’infanzia ad ispirare le canzoni della Leigh, questa volta è un uccello giallo che noi chiamiamo beccofrusone dei cedri, “There’s a yellow Cedar Waxwing on the Juneberry bush / In the golden sunlight shining through the trees / God made the birds and flowers, He is everywhere we look / God loves the Cedar Waxwing; all the more He’ll care for you and me“. Little Blue Eyed Dog è un incalzante bluegrass che racconta come un cagnolino randagio abbia cambiato la vita a chi lo ha salvato. Una canzone fatta di bei sentimenti e tenerezza, “In some God forsaken Texas town / Looky here, what have I found / A little brown and blue eyed hound / Running in a hail storm / Ain’t it funny what the Lord can do / I thought that I was saving you / Now I’m wondering who rescued who / Welcome to your new home“. Di tutt’altro tenore I Love The Lonesome Prairie. Questo album è appunto un “lettera d’amore alla prateria” e questa canzone, lenta e melodiosa, ne è l’emblema. Meravigliosa, c’è poco altro da aggiungere, “I love the lonesome prairie / Where the grass rolls like waves on the sea / The lonesome prairie wind is like a lifelong friend / No, the prairie’s not lonesome to me / Oh the prairie’s not lonesome to me“. Non sarà come la città ma proprio per questo che è bella Elizabeth Minnesota. Una vita semplice e immersa nella natura, che potrebbe far storcere il naso agli amanti della città, che non possono capire, “I love my dad’s homegrown tomatoes and my grandma’s scalloped potatoes / Elizabeth Minnesota is my home / Well you might call me hillbilly but what you think don’t matter really / Elizabeth Minnesota is my home“. Prairie Funeral racconta con sorprendente vividezza e sensibilità un funerale di molti anni fa. Non mancano i racconti e la musica che unisce chi ha accompagnato quest’uomo per l’ultimo saluto, “It was a funeral on the prairie, all his children gathered round / Put him in a horse drawn wagon, drove him into town / In the dark of February snow covered up the ground. / In a pioneer church made out of sod we sang A Mighty Fortress Is Our God“. Tra le mie preferite c’è sicuramente la bellissima You’ve Never Been To North Dakota. Un affascinante viaggio fatto di immagini del North Dakota, una canzone d’altri tempi, pura e semplice. Da ascoltare, “Have you looked up and read the note / Aurora Borealis wrote / While you were gently sung to sleep by a coyote / Felt your joints get stiff and cold / To let you know you’re growing old / Then you’ve never been to North Dakota“. Non c’è spazio ai sentimentalismi in Pipeline, c’è una terra da difendere. Chiunque tu sia non farai passare il tuo oleodotto. Il messaggio è semplice ma c’è ancora qualcuno che non vuole capire, “You got big ideas and a great big paycheck / And a closet full of designer suits / Custom shoes of Italian leather / But you ain’t laying no pipeline / But you ain’t laying no pipeline / But you ain’t laying no pipeline through this land“. Si chiude con Outside The Jurisdiction Of Man. Una canzone molto bella, triste e solitaria, che lascia incantati per la sua durezza, “So let my remaining time all pass / On a blanket of swaying prairie grass / And then won’t you bury me ‘neath the work of God’s own hand / Outside the jurisdiction of man“.

Prairie Love Letter è un album meraviglioso. è davvero difficile descrivere a parole quello che queste canzoni ti lasciano dentro. Brennen Leigh non ne sbaglia una e, tra ricordi d’infanzia, storie e messaggi, ci racconta l’amore per la sua terra, per quelle praterie desolate ma anche ricche di vita. Le capacità si songwriting di quest’artista sono a dir poco eccezionali. Raramente ho trovato una tale capacità di ritrarre i ricordi con le parole con tanta vivacità e sentimento. Sì lo so, non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Si tratta pur sempre di country, bluegrass, americana ma ogni volta, ogni benedetta canzone, mi sorprende come fosse la prima volta. Un sentito grazie a Brennen Leigh e a chiunque abbia collaborato a questo album. Perché è qualcosa di speciale, davvero.

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Storia di una maga

C’è ancora tempo per me di recuperare qualche uscita che mi sono perso lo scorso anno. In realtà il nome di Jess Williamson, cantautrice americana, compare da parecchio tempo nella mia personale wishlist, è uno di quei nomi che ritorna sempre quando mi metto alla ricerca di nuova musica. All’inizio di questo 2021 mi sono deciso di ascoltare il suo ultimo album, uscito lo scorso maggio, intitolato Sorceress. Il suo folk pop mi è piaciuto subito e non me lo sono fatto scappare un’altra volta.

Jess Williamson
Jess Williamson

L’apertura è affidata a Smoke che dapprima ci fa assaggiare la voce morbida ed etera della Williamson per poi lasciare spazio alle chitarre. Un inizio affascinante e ben bilanciato,”We like staying home, we like running round / Fix my hair and make-up when I go downtown / Don’t care if we’re alone, the trick is where you are / You can wear my clothes, we can take my car / And that’s what I get to give / That’s what I get“. As The Birds Are si presente con un folk pop dalle atmosfere vintage. La voce della Williamson è suadente e malinconica. Tutto è come dovrebbe essere, “Annie, put your weapon down / I saw you last night / You were running round / With them coyotes hollerin in the city streets / They don’t lay a hand on me“. La successiva Wind On Tin è una delle canzoni che preferisco di questo album. Un ritmo carico di sogni e speranze che si mescola con con quelle sonorità cosmiche che hanno caratterizzato le sonorità di questa artista, “Helpless, helpless, helpless / We all sang along / There is a braid that binds us / And his thread ain’t gone / Heard a sound so heavenly / Were the angels singing just for us? / Or is that what the wind out here does on tin?“. La title track Sorceress è una canzone che parla d’amore con delicatezza, nella quale la Williamson è accompagnata da una musica essenziale. Un’atmosfera intima e riflessiva pervade il brano e il finale è sorprendente, “But I’m not trying to tame a lion / I want to be caressed / Yes, there’s a little magic in my hat / But I’m no sorceress / Sorceress“. Decisamente più pop, Infinite Scroll, che ricorda le sonorità anni ’80. Jess però dimostra ugualmente di essere a suo agio, rivelandosi una cantautrice abile e di talento, “You watched me laugh in the face of the clock / And fall down stairs with barely a knock / I was on one then, really leading the pack / Swearing love can’t die when I believed that / Time did unfold like an infinite scroll“. Love’s Not Hard To Find è una romantica ballata che si affida un folk pop luminoso e positivo. La voce della Williamson appare fragile e pronta a spezzarsi in qualsiasi momento, “I don’t know what you need now, baby / I can’t read your mind / If it’s love you’re looking for / Love’s not hard, hard to find, hard to find“. How Ya Lonesome vira verso un folk country che ricorda un po’ Lana Del Rey. Una delle canzoni più belle e ricche di fascino di questo album, facile innamorarsene, “Big moon shine all over the house / It didn’t work then, well it don’t work now / Sage them stones, gonna rinse ‘em out / Asked for help, they let me down“. Segue Rosaries At The Border si sposta in territori più acustici e confidenziali, con chiari rifermenti religiosi. Jess Williamson continua a sorprendere per la sua duttilità e capacità, “They told her life was better on the other side / You’ll give your babies a better chance / Than you had in your whole life / For the fate of her family, and as she prayed to Jesus Christ / She came running“. Tra le mie preferite non posso escludere Ponies In Town. Una chitarra e la voce calda sono più che necessari a quest’artista a creare una delle canoni più poetiche e immaginifiche di questo album, “I got a little money now, I buy the fancy eggs / My thoughts are calm and quiet when I lay down my head / Take anything you want from me, my love, I give it free / I don’t keep track of what is owed, you got no debts with me“. Si ritorna alle influenze del pop con Harm None che racconta di un’amore più forte delle difficoltà, “Still my heart is wrestling here / In the tar pits, slinging fear / Pray we never grow so old / That you can’t show us what you know / Miss miracle“. Si chiude con Gulf Of Mexico. La Williamson affronta il passare degli anni meditando su cosa significhi essere una donna. Un finale riflessivo e maturo, “A woman goes through phases and a woman goes alone / I can’t quite explain it, cause I don’t always know / Now was it another lifetime or not so long ago? / I’m remembering you swimmin’ in the Gulf of Mexico“.

Sorceress è un album che mi ha sorpreso innanzitutto per la produzione che l’accompagna. Il panorama di un certo cantautorato indie folk sì è molto inflazionato negli ultimi anni, sfornando numerosi artisti che finiscono per assomigliarsi. Eppure esiste ancora chi è in grado di distinguersi come ha fatto Jess Williamson. Ogni canzone è ben bilanciata all’interno di tutto l’album che spazia del folk, al pop fino a toccare il country. La produzione, dicevo, risulta brillante in questo senso, supportata del talento della Williamson. Sorceress è un album davvero ben fatto, senza cadute, rivelandomi un altro nome da tenere in considerazione per i prossimi ascolti.

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Filipendula ulmaria

Per il momento le uscite del 2021 tardano ad arrivare, c’è da attendere febbraio per ascoltare qualcosa di nuovo. Nel frattempo recupero qualche disco dello scorso anno come questo Wildhorse della cantautrice norvegese Malin Pettersen. Si tratta del suo secondo album, pubblicato lo scorso ottobre e più o meno da allora fa parte della mia collezione. Perché dunque ho aspettato tanto a scriverne? Non so esattamente perché ma è andata così. Sono sempre in tempo per recuperare. In realtà, Malin Pettersen, è uno di questi nomi che mi sono appuntato ormai da parecchio tempo e l’occasione dell’uscita del suo nuovo Wildhorse, ha risvegliato in me l’interesse per la sua musica.

Malin Pettersen
Malin Pettersen

La traccia di apertura California ci lascia intuire che le sonorità americane saranno quelle che caratterizzeranno maggiormente questo album. Un nostalgico nella memoria di un viaggio nell’assolato stato americano, “California, my heart’s beating for ya / California poppies blowing in the wind / Out in the fields / You know how I feel / About the gold“. Segue la luminosa e positiva Hometown. La voce della Pettersen è fresca e la melodia orecchiabile, “I left my worries but I took control / If you ask me I’d say I’m on a roll / People back home would say I’m on a spin / But the same old people / don’t know where I’ve been / I gotta go / Gotta go“. Particles è una ballata d’amore vecchia scuola. Voce suadente su di un sottofondo poco invadente. Semplicemente romantica e po’ melensa, “I hear scientists say particles / move in the strangest ways / That some can move in waves / and sometimes even fly through space / Not the strongest telescope / can see it’s flight, but yet we know / That it has to be there because it has to be so / Just like the love I have for you“. Holding Lonely è un bel brano country che parla ancora d’amore senza tralasciare una buona dose di malinconia, “Any other night / You’d probably change my mind / Any other night / I’d lay you down / But I can’t keep you companied / No, that won’t make things right / I’ve been holding lonely / Way too tight“. Decisamente più vivace, Let’s Go Out. Qui la Pettersen sfordera una delle canzoni più orecchiabili e trascinanti di questo album, nonché una tra le mie preferite, “Sometimes you know what you want / You just don’t want to admit it / The future’s not too far away / Just stay close to me baby / Let’s change each other’s lives now“. La successiva Arkansas ci trasporta nel sogno americano dove è tutto è possibile. Trovate diamanti e oro, nella terra della speranza. Una canzone ispirata e brillante,”I hear you can dig for diamonds / In the Arkansas state park / I hear you can still find gold in Denver / I hear somebody’s trying to make gold out of something else / I think there are some things / they forget to remember / And the people are going crazy / I hear you can dig for diamonds in the Arkansas state park“. Decisamente più riflessiva I Don’t Care. Anche in questo caso la Pettersen dimostra di avere nel sangue la musica dei grandi cantautori americani, come molti suoi connazionali del resto, “I don’t care for laughing / For it would be untrue / I don’t care for breathing much / But I don’t care to die / And I don’t care for living / Seems like I’m bound to try“. Weightless è una canzone che suona come una confessione intima e fragile. La voce della Pettersen è delicata e sfuggente, supportata da un accompagnamento essenziale ma efficacie,”When I was young / All I wanted / Was to be mysterious / To hide myself / Inside my head / And always act so serious / I wanted to be shy / I wanted to get high / But I wasn’t / And I didn’t / Except for a couple of times“. La più leggera Mr. Memory affronta l’eterno rapporto tra la memoria e la bottiglia. Bere per dimenticare sembra essere l’unica strada percorribile a volte, “Mr. Memory, meet Mr. Bottle. / He’s the only true friend I’ve ever known. / Mr. Bottle, meet Mr. Memory. / He’s the kind of friend that just won’t leave you alone. / Mr. Bottle don’t remind me of all the things that I do wrong“. Wildhorse Dream è una bella canzone, anche questa volta illuminata dalla voce pulita della Pettersen, arricchita da vaghe sonorità pop, “Being on a plane / Is like leaving all the pain behind / What I listen to / What I eat / And who I’m gonna meet / It all gets lost in time / It’s like time’s not even time moving forward / But just movements that help us keep track“. Chiude la malinconica Queen Of The Meadow. Una delle canzoni più poetiche di questo album. Davvero ben scritta e interpretata. Lascia dietro di sé solo sensazioni positive, “Because the good times were plenty / And the bad ones won’t bother me now / I’ve learned more that I knew / my mind could, somehow / And as a memory of all the good life gave / I want Queen of the Meadow on my grave“.

Wildhorse è davvero un ottimo album di una delle esponenti migliori del filone americana del Nord Europa. Un album fatto di canzoni mai sopra le righe, sempre ben bilanciate tra malinconia e gioia. Malin Pettersen è una cantautrice indubbiamente abile e di talento che ha quella rara capacità di fare un passo indietro rispetto a chi ascolta. Le sue canzoni diventano in qualche modo le tue, come un regalo fatto senza aspettarsi nulla in cambio. Wildhorse è da annoverare tra le migliori uscite dello scorso anno ed solo colpa mia se sono arrivato un po’ in ritardo.

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Mi ritorni in mente, ep. 75

Uno degli ultimi album che ho acquistato lo scorso anno è URRANTA, debutto della cantante scozzese Deirdre Graham. La particolarità di questo album è che è interamente cantato in gaelico scozzese e ripropone dieci canzoni tradizionali. Le lingue gaeliche hanno un fascino del tutto particolare ma devo ammettere che, al momento ci capisco ben poco. Ma questa ovviamente è una mia mancanza a cui cercherò di rimediare approfondendo la conoscenza di queste lingue.

URRANTA ridà nuova vita a queste canzoni, offrendole a noi con un piglio moderno ed un ricco accompagnamento orchestrale. Si passa dalle ballate al pianoforte come Seinneam Cliù nam Fear Ùr (Canto le lodi degli uomini nuovi), Dòmhnall nan Dòmhnall (Donald dei Donalds) e Tha Mi Sgìth ‘n Fhògar Seo (Sono stanco di questo esilio) alle canzoni nelle quali gli archi riempiono l’aria e accompagnano la voce della Graham, Uamh an Òir (Grotta d’oro) oppure Iain Ghlinn’ Cuaich (John di Glen Quoich). Molto più moderne ma altrettanto affascinanti sono Òran Mòr Scoirebreac (La grande canzone di Scoirebreac), Mairead nan Cuiread (L’astuta Margaret) e Moch an-Diugh a Rinn Mi Èirigh (Mi alzai presto). Non mancano anche sonorità più folk, rappresentate da ‘S Gann Gun Dìrich Mi Chaoidh (Non salirò più). Un album vario ma accomunato dalla passione per la tradizione e per le influenze musicali che vanno al di là della lingua scelta.

Un fiume spericolato

Inizio il nuovo anno con un album uscito lo scorso novembre, intitolato Reckless River. Si tratta del debutto, dopo una serie di EP, della cantautrice inglese Zoë Wren che ha già avuto modo di farsi notare anche con altre collaborazioni, ad esempio nel duo Roswell con Jasmine Watkiss. Seguo quest’artista da un po’ di anni e ho atteso questo debutto, che finalmente è arrivato, per soddisfare la mia curiosità. Realizzato tra Londra e Lugano, questo album affonda le sue radici nel folk inglese ed è arricchito dalle doti di chitarrista della Wren che si propone come una delle promesse più interessanti del panorama folk.

Zoë Wren
Zoë Wren

Smoky Sunrise ci fa assaporare subito il suono della chitarra che accompagna la voce della Wren. Una canzone che affronta i sentimenti che sono affiorati dando l’addio alla sua Londra. Lo stile di questa cantautrice è pulito e classico, senza tempo. Elephants And Drums, nella quale si rivela il titolo dell’album, è una canzone dalle tinte scure. La voce della Wren è percorsa un profondo sentimento di malinconia, schiarito soltanto dalle note della chitarra. La successiva Cecilia prende spunto dal folk tradizionale per raccontare la storia della sua bisnonna di origini slovene. Una canzone che parla di altruismo e sacrificio in modo commovente. Welcome Here richiama le sonorità della tradizione e affronta con sensibilità la condizione dei senzatetto che abitano le nostre città e condividono i marciapiedi con gli artisti di strada. Come Home invece si rifà ad un folk dal sapore americano. Una canzone che spicca sulle altre per suo piglio differente ed energico. L’unica canzone tradizionale dell’album è Let No Man Steal Your Thyme. Un brano che non solo mette in risalto la voce cristallina della Wren ma anche le sue capacità alla chitarra e di tutti i musicisti che l’accompagnano. Ring In Your Pocket racconta ancora delle esperienze come artista di strada di questa cantautrice. Un uomo lascia cadere un anello di fidanzamento nella custodia della sua chitarra. Una canzone poetica e carica di speranza. London Town è un delicato e ispirato quadro della vita nella capitale inglese. Zoë Wren si dimostra un’abile songwriter che osserva il mondo che la circonda, traendone immagini per la sua musica. Don’t Touch My Guitar si sposta in territori decisamente più blues per soffermarsi sulle numerose e fastidiose esperienze come artista di strada. Un’occasione di deliziarci delle sue abilità alla chitarra. L’album si chiude con la bella What If che testimonia la sua esperienza dei sui laboratori di canto nella carceri con un’associazione di beneficenza. Una canzone, anche in questo caso, di speranza e vita nuova. Un piccolo gioiello in questo ottimo album.

Reckless River non delude le aspettative e ci fa conoscere un’artista di sicuro talento. Zoë Wren, oltre ad un’eccezionale abilità nel suonare la chitarra, evidente anche a uno come me che ne capisce poco o nulla, si dimostra altrettanto abile nella scrittura dei testi. Le parole sono scelte con cura e veicolano un messaggio, una storia, spesso chiari ed efficaci. Un album di debutto notevole, che richiama le sonorità dei cantautori che hanno ispirato Zoë Wren in questi anni di attività e che ci fanno apparire più matura, artisticamente, di quanto lo non sia anagraficamente. Reckless River è una delle sorprese che l’anno appena passato ha portato con sé, regalandoci la possibilità di ascoltare Zoë Wren nella sua forma migliore.

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Com’è andata?

Siamo arrivati in fondo a questo 2020. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro purtroppo no. Spero voi stiate tutti bene. Io ho passato indenne questi 366 giorni (un giorno in più era proprio quello che ci voleva) ma non si può dire lo stesso per molti di noi. Passeremo alla storia, non c’è dubbio. Non sappiamo ancora come andrà a finire. Forse passerà tutto presto, non certo in maniera indolore ma passerà prima o poi. Oppure l’umanità si estinguerà piano piano, tra pandemie, inquinamento e surriscaldamento globale, e tra qualche decina di anni rimarrà solo qualche sparuto villaggio di sopravvissuti. Come ne L’ombra delle scorpione o Io sono leggenda.
Sembra passato un secolo da quando andavo in ufficio su di treno affollato e tornavo a casa la sera su di un altro ancora più affollato. Quando andavo a vedere le partite di basket nei fine settimana insieme a migliaia di persone. Quando si poteva vedere un film senza notare quanto le persone sono vicine, senza esclamare “che assembramento!” appena c’è un po’ di folla. Quando tutti puntavano il dito contro Fontana perché indossava una mascherina in TV gettando nel panico i cittadini, non sapendo che di lì a poco l’avremmo indossata tutti quella mascherina. Quando era poco più che un’influenza. Quando siamo andati a prendere in Cina quel ragazzo con la febbre usando un aereo militare attrezzato per il biocontenimento, non sapendo quello che stava succedendo qui, proprio sotto il nostro naso. Quando tutti orgogliosi ci vantavamo di aver individuato i due simpatici cinesi in vacanza con il virus, non sapendo che questi erano soltanto la punta di un iceberg. Quando le immagini del lockdown cinese ci facevano impressione. Poveretti, pensavamo, forse stanno esagerando un po’ ma così imparano a mangiare i pipistrelli vivi. Non sapendo che saremmo arrivati anche noi a quello. Al lockdown intendo, non a mangiare i pipistrelli vivi. Non ancora almeno. Quando a colpi di slogan, Milano, Bergamo e la Lombardia tutta si vantavano che non si sarebbero mai fermate. Poi ci siamo dovuti fermare di fronte alla processione di camion dell’esercito. Quando la domanda più importante senza risposta era “dov’è andato Bugo?”. Quando non sapevamo cosa fossero un DPCM, un tampone molecolare, un asintomatico o un’autocertificazione. Quando non sapevamo che ci fossero così tanti esperti di virus ed epidemie, o tipi diversi di mascherine.

Queste righe che seguono le scrissi diverso tempo fa, con l’intenzione di pubblicarle una volta finito tutto ma siccome non si vede una fine, ho pensato sarebbe stato meglio farlo in questa occasione. Sono incompiute. Non ho saputo dare loro una degna conclusione. Rimarranno così, in memoria di quello che è stato. Di quel momento in cui ho smesso definitivamente di scriverle, perché non sapevo più dove stavo andando a parare. Prendetele per quello che sono, un flusso di pensieri e ricordi che, forse, ci accomunano un po’ tutti.

È arrivato all’improvviso. O forse no, dovevamo aspettarcelo. Ma no dai! Chi se lo sarebbe mai aspettato dopotutto. Deve essere successo per colpa di uno che andava in giro come se niente fosse. Problema risolto, abbiamo trovato il colpevole. L’avevano detto che non ci sarebbe stato nessun pericolo. Da queste parti tutto funziona bene, non c’è niente di cui preoccuparsi. Nel dubbio lunedì in ufficio ci vado in macchina e mi porto il lavoro a casa. Ho preso il treno per tutto il mese senza sapere nulla, se doveva succedere sarebbe già successo. Nel dubbio meglio la macchina comunque, anche se non so quanto potrò lavorare da casa. Un paio di settimane, non c’è niente di cui preoccuparsi. Meno male che non ho rinnovato l’abbonamento del treno. Dai che questa settimana lavoro da casa. Mi distraggo un po’ di più ma è più comodo, o no? Non c’è bisogno di svegliarsi presto. Passano i giorni e mi accorgo di passare il mio tempo seduto davanti al pc. Ve bene ma non è molto diverso che essere in ufficio, ti pare? Mi manca la mia passeggiata in stazione mentre ascolto la musica. Posso ascoltarla mentre lavoro, cosa che di solito non faccio. Non mi piace molto però, finisce per essere un sottofondo che a malapena colgo.

I giorni passano e lavorare a casa mi infastidisce sempre di più. Sono a casa ma non posso fare quello che faccio abitualmente. Tutti coloro che sono costretti a casa si dedicano ai loro hobby, ai libri che non hanno mai letto, ai film che non hanno mai visto. Io invece, purtroppo o per fortuna, continuo a lavorare. Non è un lavoro essenziale ma si continua a farlo, il perché non lo so esattamente o forse sì. I soldi. Alla fine muovono tutto. Questa è la prima cosa alla quale dovremmo ripensare una volta passato il peggio. Abbiamo viaggiato per il mondo come fosse il giardino di casa nostra. Lo abbiamo fatto come turisti, per necessità o per lavoro. Credevamo di essere i padroni e invece non lo siamo per niente. Laddove c’era la normalità ho capito esserci il privilegio. Non ti accorgi dell’importanza di qualcosa finché non te la tolgono, dicono. Mi manca uscire di casa? Neanche più di tanto. Non sono mai stato uno molto sociale e socievole. Mi sembra strano soprattutto non poter uscire liberamente per comprare qualcosa che non sia strettamente necessario o di uscire per una passeggiata.

Che poi a volte mi ritrovo a non pensare ad altro. Se penso al lavoro, penso a quando potrò tornare in ufficio, quando finirò questa parvenza di ferie che ferie non sono, quando potrò smettere di indossare guanti e mascherina e non sentirmi più a disagio. Magari è solo un brutto sogno. Magari domani è tutto finito e si potrà riprendere. Magari non finirà mai e questa è la nuova normalità. Leggo gli esperti che un giorno dicono una cosa e quello dopo un’altra. Anche loro non sanno più che pesci pigliare. Leggo le profezie, alcune ottimistiche che non si rivelano mai veritiere, altre pessimistiche che speriamo non si rivelino veritiere. Ma è tutta una montagna di fuffa, mi dico. Forse, chissà, vuoi vedere che sotto sotto ci prendono? Forse se i Maya avevano ragione. Forse aveva ragione quel vecchio libro sulle presunte profezie di Giovanni XXIII. Forse il buon vecchio Malachia ci ha preso anche stavolta. Ezechiele ci è andato giù pesante per essere sicuro di prenderci. Quella Sylvia Browne eppure l’aveva detto. Beh, come non citare Nostradamus che va bene per qualsiasi cosa. Il buon Bill Gates è stato meno criptico ma nessuno gli ha dato retta. Pure Branko aveva detto la sua.

Poi mi ritrovo ad ascoltare i numeri delle sei del pomeriggio. Non tornano mai. Ci vuole davvero un veggente per interpretarli. Che poi non hanno senso, dicono. E quindi, niente più numeri? Come facciamo ha sapere come sta andando? Un qualche significato devono pur averlo. Che poi visti in percentuale non sono poi così spaventosi. Sì ma rispetto a cosa? A niente? Sì, allora sono un po’ più spaventosi. Ma non c’è da preoccuparsi, andrà tutto bene. In che senso? Per tanti le cose non sono andate affatto bene. Nel senso che finirà prima o poi. Ah sì, questo è sicuro. Per alcuni è finirà prima ma tant’è. Sembra secoli fa, quando tutto andava come sempre, vero? Sembra che siamo fermi da anni. Che il bollettino sia una tradizione nazionale, come Sanremo di febbraio. Mentre noi qui affoghiamo nelle domande senza risposta e nei numeri, la Natura continua il suo corso. Anzi si fa beffe di noi e sta meglio senza. L’acqua e l’aria si puliscono, gli animali arrivano in piazza e il silenzio avvolge tutto. La Natura è più forte perché lei è padrona della Terra e l’uomo una delle sue tante creature. Ah ma non illudiamoci. Vedrete che tutto questo non ci cambierà poi molto. Questione di anni e poi tutto tornerà come prima. L’umanità raramente ha imparato dai propri errori. Ma forse questa volta sarà diverso.

Bello questo 2020 vero? Tutti in piazza a festeggiarlo quando è arrivato. Non mi è mai piaciuta la festa di Capodanno. Non ho mai capito cosa ci sia da festeggiare. E poi è un anno bisestile, lo sanno tutti che “anno bisesto, anno funesto”. Non credo a queste cose ma il mio 2016 non è stato felicissimo e questo 2020 non mi ispirava per niente. Sotto quel simpatico 20 doppio che ci metteva in guardia dallo scrivere le date correttamente per esteso, si nascondeva un problema più grosso. Molto più grosso.

Non mi giudicate – 2020

Siamo arrivati in fondo a questo strano anno. Il 2020 è stato davvero particolare per tutti noi ma avrò modo di scriverne più avanti. Ora è arrivato il consueto appuntamento di decidere quelli che, secondo me, sono stati i migliori album che ho ascoltato quest’anno (e un libro scelto tra quelli letti da Gennaio). Nessuna classifica, impossibile per me farne una, ma solo premi individuali. Il mio pc mi dice che sono 56 i dischi usciti quest’anno ed entrati a far parte della mia collezione e quelli scelti qui sotto sono solo 14, va da sé che molti di essi ho dovuto scartarli. Ma non temete, quelli degni di nota li trovate tutti qui 2020. Molti album non sono passati per questo blog anche se mi sono piaciuti. Ma il tempo è inclemente e faccio quello che posso. Anche questo argomento troverà spazio nei prossimi giorni su questo blog. Se in queste festività, ognuno a casa propria, avanzate un po’ di tempo per ascoltare della buona musica, ecco cosa ho scelto per voi quest’anno.

  • Most Valuable Player: Courtney Marie Andrews
    Questa cantautrice non delude mai e il suo Old Flowers ne è la conferma. Un album emozionante come pochi altri quest’anno e non potevo escluderlo da questa lista.
    Come navi nella notte
  • Most Valuable Album: Huam
    Il trio di artisti scozzesi Salt House pubblica un album magnificamente ispirato. Fin dal primo ascolto si percepisce la sensazioni di non essere davanti ad un disco qualunque.
    La speranza è quella cosa piumata
  • Best Pop Album: The Human Demands
    Amy Macdonald è Amy Macdonald. Questo album è probabilmente il migliore dei suoi finora. L’ho ascoltato un’infinità di volte e non ne ho mai abbastanza. Ho detto tutto.
    Una pallottola al cuore
  • Best Folk Album: An Sionnach Dubh
    Scelta non facile quest’anno ma quello di Dàibhidh Stiùbhard è l’album folk che più mi ha affascinato quest’anno. L’irlandese e gaelico scozzese possono risultare incomprensibili ma la musica è un linguaggio universale.
    La volpe nera
  • Best Country Album: That’s How Rumors Get Started
    Anche in questo caso avevo l’imbarazzo della scelta ma Margo Price con il suo terzo album l’ha spuntata sui concorrenti. Cambio di marcia per questa cantautrice che non tradisce sé stessa.
    Una luna piena sopra una strada vuota
  • Best Singer/Songwriter Album: Song For Our Daughter
    C’è qualcuno che può competere con Laura Marling quando si tratta di cantautrici? Difficile dirlo con obbiettività ma per me lei è tra le migliori in assoluto e lo sarà ancora a lungo.
    L’amore è una malattia curata dal tempo
  • Best Instrumental Album: Shine
    Sto allargando i miei interessi agli album strumentali e questo della musicista irlandese Caroline Keane è tra quelli che ho ascoltato di più.
    Musica tradizionale irlandese per concertina che allieta l’animo.
    Mi ritorni in mente, ep. 70
  • Rookie of the Year: Diana DeMuth
    Pochi dubbi a riguardo. Misadventure è un gran debutto, convincente sotto ogni aspetto. I contendenti non erano pochi ma quest’artista si è guadagnata questo premio con largo anticipo.
    Lo stesso vecchio gioco
  • Sixth Player of the Year: Shayna Adler
    Premio dedicato alla sorpresa dell’anno. Wander è un album, per l’appunto, sorprendente e se lo merita tutto. Un folk americano diverso dal solito, un viaggio affascinante.
    Ho visto tante, tante cose
  • Defensive Player of the Year:  Siv Jakobsen
    Chi invece non è una sorpresa ma una certezza è questa cantautrice norvegese che quest’anno a pubblicato A Temporary Soothing. Un album sincero e personale, anche molto fragile.
    Un lenitivo temporaneo
  • Most Improved Player: Hailey Whitters
    La scelta alla fine è ricaduta su di lei e il suo The Dream che mi ha accompagnato nei momenti più bui della prima ondata. Un buon country, positivo ed orecchiabile. Cos’altro chiedere?
    Bougainvillea, whiskey e un sogno
  • Throwback Album of the Year: In All Weather
    Dedicato all’album non uscito quest’anno. A mani basse lo vince Josienne Clarke. Una cantautrice unica che devo ancora scoprire ma senza fretta. Ogni volta che lo ascolto è come la prima volta.
    Bel tempo si spera
  • Earworm of the Year: Supernasty
    Non è stato un anno di canzoni particolarmente martellanti ma questa di Lynne Jackaman lo è stata senza dubbio. Tutto l’album One Shot merita un ascolto. Non vi deluderà.
    Mi ritorni in mente, ep. 72
  • Best Extended Play: Marmalade
    Il terzo EP della cantautrice Sophie Morgan è andato al di là delle mie aspettative. Si merita una menzione in questa lista di fine anno. Speriamo in un album nel prossimo. Sto già aspettando.
    Mi ritorni in mente, ep. 68
  • Most Valuable Book: Le sette morti di Evelyn Hardcastle
    Ho letto più libri del solito quest’anno ma nessuno come questo. Un giallo tanto appassionante quanto ingarbugliato. Stuart Turton ha fatto un ottimo lavoro. E siamo solo al suo debutto.
    Ancora un altro libro, ep. 3

Le tende della vita

Tra gli ultimi album pubblicati quest’anno non potevo lasciarmi sfuggire il nuovo disco di Keaton Henson. Devo ammettere che mi sono lasciato indietro qualche uscita del malinconico cantautore inglese, in particolare gli album strumentali e sperimentali, in favore dei quelle più canoniche, ovvero gli album di canzoni. Nella mia collezione ci sono dunque quattro dei suoi otto album, compreso il nuovo Monument. Cosa ci si può aspettare ancora dal buon Keaton, sempre alle prese con tristi riflessioni e malinconiche poesie? Da lui non mi aspetto nulla di diverso e ogni volta che ascolto qualcosa di nuovo voglio essere sicuro di trovarmi davanti al solito Keaton ma, spero per lui, solo un po’ più sereno della volta precedente.

Keaton Henson
Keaton Henson

In Ambulance, Henson, chiede aiuto e comprensione. Essere un artista spesso porta a fraintendere i sentimenti di una canzone. Il dolore o un malessere vengono applauditi come un semplice spettacolo di intrattenimento, “I’m empty, but don’t it sound so good? / Oh no, I’d stop if I could / I’m half a songwriter, half a man / Not fully either“. La successiva Self Potrait è una canzone che descrive in modo vivido e forte una sensazione di decadenza, di morte. Parole dure che escono senza filtri dal cuore spezza di Henson. Una canzone dolorosa, “The sun brings up yesterday’s evils / And drags them back into the sky / I have not long enough arms, my love / To reach for the curtains of life“. Ontario trova forma nelle sperimentazioni musicali e la voce di questo cantautore è una costante. Il clima freddo del Canada sembra adattarsi bene all’animo di Henson e ce lo dice con la consueta fragilità e sincerità, “Old sparrow / I’m burying me here / Now I know / The winters for me, dear / Wood sided houses / Here reawaken my bones / And I see now / I’ve had a break in my soul“. Tra le canzoni più commoventi c’è Career Day dedicata al padre scomparso lo scorso anno, l’attore Nicky Henson. La precarietà della vita e le sue contraddizioni emergono in tutte le similitudini che Henson riesce a trovare, per spiegare qualcosa di altrimenti inspiegabile, “I’m an astronaut, baby / I work in the night / I’m a certain kind of crazy / I live in my mind / I’m a deep sea diver / I find ways to breathe / I’m deep undercover / I don’t look like me“. Il lutto per la morte del padre emerge anche in Prayer. La voce dimessa del figlio Keaton canta, con straziante commozione, la percezione di star perdendo qualcosa per sempre, “Hallelujah, I’m saving you up / All for the day you leave / I held you in while you shed your skin / And I read myself to sleep“. While I Can racconta la malattia del padre Nicky dal punto di vista di quest’ultimo. Keaton deve aver fatto uno sforzo enorme a calarsi nei suoi panni. La musica è un inno alla vita e contrasta con le parole dolorose, “While my lungs have breath to sing for you / And I have fingers left to cling to you / While my thoughts are making any sense / While I’m living in the present tense“. Anche in Bad la perdita è ispirazione per il cantautore. La malattia che occupa la mente, le giornate passano nell’attesa di una brutta notizia, “Sick of waiting for bad news / Am I waiting to lose you? / Waiting for bad news / Still“. Segue The Grand Old Reason che con dolcezza e fragilità ci parla ancora di morte, con una sensibilità poetica che fa quasi male. La pena di Henson sembra uscire da ogni singola parola, tanto è il dolore, “But like you, I have tried for so long / Not to cry / That I don’t even know if I can when you die / But I’m sure, as damn hell / Gonna try / Oh I am sure, as damn hell / Gonna try“. Husk è una riflessione sull’invecchiare e non accorgersene nemmeno. Keaton Henson prova a spazzare via un po’ di malinconia con un accompagnamento più ricco ma qualcosa di essa rimane ancora a galla, “The death of a century / Has sunken its teeth in me / How the hands of the clock / Are beating to death / Our memory“. Thesis invece sembra spostare di nuovo l’attenzione sul fatto di essere un artista e giocare pericolosamente con le emozioni. Una voce sommessa e un pianoforte sono più che sufficienti per spiegarsi, “I heard the loneliness leaving / And the metaphors bleeding / Felt the words turn to cliché / As I repeat the things we say / And it’s an elegant thesis / Yeah, the structure is decent / But it lacks catachresis“. L’album si conclude con Bygones che affronta di nuovo i demoni interiori dell’età adulta e vive dei ricordi confortanti del passato. La voce si nasconde, quasi volesse sprofondare per sempre e sparire nel buio, “I don’t want to be the best / I am weary, let me rest / I’m going to wait right here for no one / I’m the reason I can’t sleep / I got all my baby teeth / All buried underneath my grown ones / Oh, I fear the races run / I’m afraid of everyone / I get scared of all this breathing“.

Come si può non voler bene a Keaton Henson? Come si può non percepire il dolore e la forza della vita in Monument? Il contrasto tra la perdita e la fortuna di poter vivere, ammirando le bellezze che ci circondano, sono le colonne di questo album. Ma tutto deve passare dalla morte che rende così meravigliosa la vita, così straordinaria. Keaton Henson riesce a trasmettere il suo lutto dando sfoggio del suo talento di poeta e compositore ma lo fa senza apparire oscuro od opprimente. Monument è un altro grande album di un artista sensibile e apparentemente fragile che ha scavato, e continua a scavare, dentro la sua anima e, inevitabilmente, in quella di ognuno di noi.

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Mi ritorni in mente, ep. 74

In questo periodo dell’anno ritornano, come ogni anno, le canzoni di Natale. Che siano in italiano o in inglese, molte di esse sono tradotte un po’ in tutte le lingue del mondo. Una delle più note, in lingua inglese, è senza dubbio In The Bleak Midwinter, conosciuta anche come A Christmas Carol. Scritta nel 1872 dalla poetessa di origine italiana Christina Rossetti è stat messa in musica per la prima volta nel 1906 da Gustav Theodore Holst e poi nel 1911 da Harold Drake. La canzone racconta naturalmente della nascita di Cristo ed è stata proposta da tanti artisti. Si poteva dunque riproporla in una nuova maniera? Sì.

Ci ha pensato Iona Fyfe, cantante scozzese che ha tradotto il testo in lingua Scots aggiungendo anche una strofa originale. La stessa Fyfe ha tradotto In The Bleak Midwinter, interpretandola quindi con la sua voce cristallina e facendosi accompagnare al pianoforte da Michael Biggins. Le canzoni di Natale hanno un fascino tutto loro e questo è del tutto particolare.

In ‘e bleak midwinter
 A lang lang time ago
 Earth stood hard as iron
 Waater like a stone
 Snaw hid faen
 Snaw on snaw, snaw on snaw
 In ‘e bleak midwinter
 A lang, lang time ago 

Lo chiamano destino ma non lo è

Questo 2020 sta giungendo, finalmente, alla sua fine. Non è ancora arrivato il momento, almeno per me, di tirare le somme di questo anno di musica. Ecco perché ne approfitto per recuperare qualche disco, uscito negli scorsi mesi ma che non ha trovato spazio in questo blog. Bad Luck della cantautrice americana Sylvia Rose Novak è uscito a maggio ed è stato nella mia wishlist per un po’ di tempo. Si tratta del suo quarto album ma rappresenta per lei una rinascita dal punto di vista musicale. Un rock americano sincero, guidato dalle chitarre che mi ha subito conquistato.

Sylvia Rose Novak
Sylvia Rose Novak

Si comincia con Dallas. Gli echi delle chitarre si fanno subito sentire ed introducono la Novak e la sua voce graffiata e sicura. Un bel rock dal ritmo lento al quale è impossibile resistere, “Somewhere east of Fresno / The sun began to rise / Casting shadows on our faces / Dancing diamonds in our eyes / The birds called out a warning / The pedal hit the floor / Just us against a hundred men / Or more“. I colori del southern rock prendono il largo con Little Sister. La Novak ci regala una melodia orecchiabile ma il tema è difficile, lo spaccio di droga al confine con il Messico, raccontato da una donna, “Little Sister, I don’t think I’m gonna make it / I’ve taken far too much to try and fake it / The desert’s quiet and cold / And every ounce I hold / Is gonna break it“. C’è una voglia di scappare da tutto e da tutti in South Of Boulder. Un rock veloce dove la voce della Novak rincorre le note in un desiderio di fuga. Una delle canzoni più trascinanti di questo album, “And you can race the trains from here to Arizona / You can run the rivers to the coast / You can try to find some peace out in Sedona / From the places you have come to fear the most / From the places you have come to fear the most“. Dry affronta temi come l’alcol e la salute mentale. Un brano ruvido e sincero, dalle tinte scure e solcato dalle chitarre che graffiano l’aria. Un altra gran bella canzone rock, “I hear the hollow whisper and / The talk all over town / But if there’s cowardice in compromise / I’ll lay my armor down / There’s a reason that I’m here / Could someone tell me why I came? / Trading nickels in for numbers / Trading number in for names“. Spazio alla melodia con Arkansas che richiama il country, non solo nelle sonorità ma anche nella forma. Una storia fuorilegge fatta di violenza e pistole, “You can damn your youth and waste your life / Have a couple babies, be a real good wife / Or you can fire two rounds / Before they draw / Either way you’ll die in Arkansas“. Florwers Of The Fortunate è un rock veloce che celebra la vita e le sue difficoltà. Un altro brano che si lascia ascoltare volentieri ed entra subito in testa, “It’s a dizzy dance, this second chance / But you say you’re just a victim of circumstance / Caught between could’ve been and could be / Paralyzed by should’ve been and should be / One hand on the throttle and one foot in the grave / Just another soul to save“. Dirty è una ballata rock che si ispira alla storia di una senzatetto di Nashville incontrata dalla stessa Novak. Una delle canzoni che più mi piacciono di questo album, per quella rabbia che la pervade, “When you’re destitute and desperate, it’s easy to steal / When you’ve run out of cards, it’s easy to deal / You’re backed by your badge / But it doesn’t seem real / Anymore“. C’è rabbia e voglia di riscatto anche in Shadow. Testo autobiografico, segnato dai sensi di colpa e dalle difficoltà del mondo della musica. Sylvia Rose Novak qui si lascia trasportare dai sentimenti, “I’m just a shadow of a ghost of a person that you thought you knew / Just a fraction of the fiction that you wrote my life into / If in the attic of your mind you find / A photograph or two / They’re of a shadow of a ghost of a person that you thought you knew“. Wating On October è una ballata dal gusto country, malinconica e disperata. La Novak qui ci incanta con la voce, dura ma capace di tratteggiare immagini vivide, “I stay waiting on October / On a chill / That blankets time and makes the air stand still / Where the cotton fields catch fire / As the sun burns down the day / No gold can stay / We fade away / We fade away“. Si chiude con la title track Bad Luck, nel quale la Novak sfodera un rock deciso e made in USA. Una canzone ispirata dal disturbo ossessivo compulsivo di Warren Zevon di cui soffre la stessa Novak, “Wake up, baby, you’re talking in your sleep / Of shoes and ships and ceiling wax / And wolves among the sheep / You’re running from the future / You’re hiding from the past / At least we know these nightmares / Don’t last“.

Bad Luck è un album che ti cattura fin dal primo minuto, composto da dieci canzoni che hanno quel buon sapore del rock americano che si fa sempre più fatica a trovare. In alcune canzoni mi ha ricordato Lilly Hiatt e ne sono contento. Si sente come un’urgenza nello scrivere e mettere in musica queste canzoni. Sylvia Rose Novak ha dalla sua l’esperienza, non solo artistica ma anche di vita, per affrontare argomenti delicati e difficili, senza apparire mai presuntuosa o banale. Insomma se volete dare un calcio a questo 2020 con un po’ di rock, Bad Luck è quello che fa per voi.

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