Giovane fuoco, vecchia fiamma, ep. 5

In queste settimane, nonostante i vari ponti, ho ascoltato poca musica in termini puramente legati al numero di ascolti. Perché in realtà aprile è stato un mese ricco di uscite interessanti ed attese da tempo ma che non ho ancora ascoltato un soddisfacente numero di volte. Sì, perché prima di abbandonare un album e riporlo nel dimenticatoio o quasi, concedo sempre una seconda possibilità a tutti. A volte, così facendo, mi accorgo che il mio giudizio era stato affrettato, altre invece confermo le mie prime impressioni. Questo vale soprattutto per i nuovi artisti, perché per i miei preferiti difficilmente un loro album cade presto nel suddetto dimenticatoio. Siccome maggio si presenta anche lui ricco di nuove uscite, è bene ricapitolare qui sotto gli album più meritevoli che ho ascoltato ultimamente. Tra conferme e nuove scoperte, alla fine non è andata male nemmeno stavolta.

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I giorni più selvaggi sono alle spalle

L’album di debutto, Reckless, uscito due anni fa ci aveva fatto scoprire una delle voci più interessanti e carismatiche degli ultimi anni, ovvero quella di Morgan Wade. Fu un esordio solido il suo, fatto di canzoni pop rock ma dalle influenze country, che hanno spinto in alto le aspettative di questo nuovo disco, intitolato Psychopath. Una prova difficile la sua, anche perché quella ragazza insicura e contro il mondo ha incontrato il successo e quindi la fiducia in sé stessa.

Morgan Wade
Morgan Wade

Se si comincia ad ascoltare questo album dalla title track Psychopath, sembra che la Wade non si sia allontanata di molto dalle sonorità del suo esordio. Sonorità che ritroviamo anche in Domino, trascinante rock dal retrogusto squisitamente made in USA. Anche una ballata come Want non ci sarebbe stata male allora, cosi come la bella Roman Candle, dalle chiare influenze del pop rock anni ’90. Lo stesso si potrebbe dire della malinconica Outrun Me, che poggia quasi esclusivamente sulla forze della voce della Wade. Andando avanti nell’ascolto troviamo altre ballate degne di nota, come Guns and Roses, guidata dalle note del pianoforte e la conclusiva 27 Club. Per trovare qualcosa che si discosta più o meno nettamente dal recente passato dobbiamo ascoltare la scanzonata, ’80 Movies, che sa tanto di country pop d’altri tempi. Un rock un po’ più sporco muove Losers Looks Like Me, una canzone colma di rimpianto, ma è con la mia preferita Alains (dedicata alla Morissette) che si può sentire davvero la scossa che spezza l’album in due. Non è da meno Meet Somebody che si affida a delle sonorità spudoratamente grunge, celebrando ancora i bistrattati anni ’90. In fondo troviamo la spensierata e insolita Fall In Love With Me, che in qualche modo sancisce il cambiamento.

Psychopath ci restituisce una Morgan Wade che prova ad affondare di più la penna nel suo animo, facendo emergere il suo volto più rock. Le sonorità country sono quasi del tutto scomparse, in favore di qualcosa di più orecchiabile e immediato. Rispetto a Reckless, questa cantautrice, ha fatto dei passi in avanti, affinando la scrittura e provando a variare in maniera più decisa. In definitiva Psychopath è un seguito degno del suo predecessore che apre nuove strade per Morgan Wade, strade che possono avere svolte improvvise ma sempre più dirette verso uno stile personale e riconoscibile, ancora in parte nascosto sotto la superficie.

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Due torti non fanno una ragione

Per sorprendere non è necessario essere originali. Lo sa bene la band britannica The Lathums che nel 2021 con l’album How Beautiful Life Can Be ha dato spolvero alle chitarre, rilanciando uno stile che ha caratterizzato l’epoca d’oro della musica del Regno Unito. Anche se le canzoni che lo componevano non brillavano certo d’originalità, è stata, senza dubbio, la determinazione di questi giovani artisti a percorrere una strada in controtendenza rispetto ai loro coetanei la chiave dell’accoglienza positiva di pubblico e critica. Quest’anno sono tornati con il loro secondo album From Nothing To A Little Bit More che ha visto l’addio del bassista Johnny Cunliffe e l’arrivo di Matty Murphy, che ricompone così la formazione a quattro con Scott Concepcion, Ryan Durrans e il leader Alex Moore. Il secondo album è uno scoglio difficile da affrontare e i Lathums sono chiamati ad affrontarlo due anni dopo il fortunato debutto.

The Lathums
The Lathums

L’album comincia con la ballata rock Struggle, nella quale Moore riflette sulle difficoltà dell’infanzia, per poi lasciare spazio a qualcosa di più movimentato, in continuità con l’album precedente, dal titolo Say My Name. Sulla stessa lunghezza d’onda la trascinante Facets, nella quale possiamo ascoltare tutta l’energia delle chitarre che hanno caratterizzato l’esordio della band. Sad Face si affida ad un pop rock energico e tirato che alza i decibel, affidandosi quasi esclusivamente alla voce e al carisma di Moore. Spazio al romanticismo con I Know Pt 1 che suona un po’ vintage ma funziona, così come la spensierata Lucky Bean. In Rise And Fall tornano la melodia tracciate dalle chitarre, dando vita ad una canzone luminosa e ispirata. C’è tempo anche per lasciarsi andare in canzoni più malinconiche come Crying Out che non rinuncia alle sonorità indie rock più energiche, contrariamente alla bella Turmoil che si affida principalmente al pianoforte, svelandoci una dolce ballata. Land And Sky è la canzone più oscura dell’album, dalle sonorità che ricordano gli anni ’90. Senza dubbio un esperimento riuscito e dal fascino particolare. La conclusiva Underserving è la classica ballata riflessiva che abbraccia l’album e lascia buone sensazioni.

Anche in questa occasione i Lathums riescono nell’impresa, non facile di questi tempi, di rimanere fedeli alle scelte fatte al loro esordio. In questo From Nothing To A Little Bit More viene meno l’effetto sorpresa del suo predecessore ed è più difficile fare affidamento solo su questo aspetto. Per compensare questo Alex Moore e soci provano qualcosa di diverso, affidandosi meno ai riff di chitarra e più all’energia del front-man, rischiando così di perdere una delle loro peculiarità più evidenti. Ma niente che pregiudichi questo lavoro,che è pur sempre un secondo album e c’è ancora tempo per la band di trovare una strada più definita. From Nothing To A Little Bit More è il degno successore di How Beautiful Life Can Be, che ci regala momenti di nostalgia per un indie rock che i Lathums sanno mantenere vivo dandoci la sensazione che, se si vuole, questo genere riserva ancora qualche sorpresa e ha ancora la capacità di attrarre i giovani.

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Meglio tardi che mai, ep. 1

Il caldo ha colpito anche questo mio blog e la voglia di ferie si fa sentire. Queste due cose messe insieme (oltre ad altri eventi che hanno messo sotto sopra la mia routine ma, non preoccupatevi, ora è tutto tornato alla normalità) hanno provocato qualche rallentamento nella regolare pubblicazione delle mie “recensioni”. Nei giorni scorsi ero ben intenzionato a recuperare, preparando un paio di post per le settimane successive ma è mi mancata la voglia. Sì, ogni tanto succede. Mi sono guardato indietro e ho pensato di fare un’operazione di “recupero”. Siamo a metà dell’anno e non tutta la musica che ho ascoltato finora è passata da queste parti. Ci sono album che meritano di essere quantomeno consigliati e ho pensato che sarebbe comodo riunirli in un unico post e dedicare loro qualche parola. Ecco il primo episodio di una serie che potrebbe diventare un genere di post piuttosto frequente in futuro. Forse. Non lo so nemmeno io.


Kim Carnie è un’artista scozzese che con il suo And So We Gather esordisce come solista dopo una carriera ricca di soddisfazioni come cantante in lingua gaelica. Il suo folk moderno e tradizionale allo stesso tempo mi hanno subito conquistato. Un album etereo e giovane.


Con A Miss / A Masterpiece, la cantautrice statunitense Sylvia Rose Novak, sceglie sonorità più rock rispetto al passato ma conserva il suo stile personale anche grazie ad una voce unica e riconoscibile. Un album che migliora ad ogni ascolto, forte e carico di sentimenti e passione.


Let There Be No Despair è il secondo album di Jess Jocoy che ascolto e posso dire che trovo davvero magica la sua voce e il modo di interpretare il country e l’americana. La sua è una voce soul prestata al folk e il risultato è qualcosa di unico e affascinante. Provare per credere.


The Sheepdogs sono una band canadese che ha appena pubblicato il loro settimo album. Io li ho scoperti di recente e mi piace il loro southern rock, un po’ vintage, che pesca anche dal country e dal folk americano. Questo Outta Sight è pieno di canzoni irresistibili che piaceranno sicuramente ai nostalgici degli anni ’70.


Elles Bailey con la sua voce black e il suo blues rock è giunta al suo terzo album intitolato Shining In The Half Light. La sua musica esce dalla mia comfort zone e ogni tanto bisogna provare a vedere cosa c’è fuori. Un album che si ascolta tutto d’un fiato, attratti dalla voce soul di questa artista.

Mi ritorni in mente, ep. 84

Gli Editors sono una band ormai sulle scene da più di quindici anni e nonostante non abbiano mai realizzato un album capolavoro, sono riusciti sempre a fare ottimi album. La formazione è rimasta più o meno la stessa ma in occasione del loro settimo album (e probabilmente anche per i prossimi) hanno aggregato Benjamin John Power, compositore di musica elettronica conosciuto con il nome di Blanck Mass. In passato c’era già stata una collaborazione con la band e i risultati sono stati davvero buoni.

Il nuovo album uscirà il prossimo 23 settembre e si intitolerà EBM. I primi due singoli Heart Attack e Karma Climb, promettono molto bene ed indicano la volontà di tornare alle sonorità tipiche degli Editors. Vi lascio con lo splendido video di Heart Attack, generato da un’intelligenza artificiale, sotto la guida dell’artista Felix Green. Davvero magnifico, merita più di una visione.

Welch la Rossa, il diavolo e la voce d’oro

Dieci anni. Tanto è passato da quando sono stato catturato e portato nel mondo magico di Florence +The Machine, la band progetto capitanata da Florence Welch che nel 2009 ha debuttato con l’acclamato Lungs. Il quinto album, intitolato Dance Fever, è uscito lo scorso maggio a quattro anni di distanza dal precedente High As Hope che aveva ulteriormente consolidato il sound della band. Cosa aspettarsi, dunque, da questa nuova fatica, nata nei lunghi anni di pandemia? In generale da Florence +The Machine non ci si aspettano sorprese ma un pop di qualità, riconoscibile e affascinante. Non resta che ascoltare e tornare di nuovo alla corte della regina rossa.

Florence Welch
Florence Welch

King apre le danze, con la voce inconfondibile della Welch che corre sinuosa sulle pulsazioni della musica. Una canzone profondamente personale che affronta le insicurezze e le consapevolezze della propria età, “I need my golden crown of sorrow / My bloody sword to swing / My empty halls to echo with grand self-mythology / I am no mother / I am no bride / I am king“. I mostri che albergano nell’animo emergono in Free che corre con ritmo sincopato. Le sonorità ci riportano agli esordi e ci ricordano perché questa band è così amata da allora, “I’m always running from something / I push it back, but it keeps on coming / And being clever never got me very far / Because it’s all in my head / “You’re too sensitive” they said / I said “Okay, but let’s discuss this at the hospital”“. Choreomania sottolinea in modo marcato il tema di fondo dell’album, la mania di ballare, un’ossessione irresistibile. Una canzone che va in crescendo, avanzando lenta ma costante, guidata dall’energia della Welch, “And I am freaking out in the middle of the street / With the complete conviction of someone who’s never had anything actually really bad happen to them / But I am committed now to the feeling“. La successiva Back In Town segna un momento più riflessivo e malinconico. Una canzone insolitamente scarna ed essenziale per la band, sorretta dalla voce della sua leader, “I’m back in town, why don’t we go out / And never go to sleep? / Throw our dreams out, let them pile up on the streets / I thought that I was here with you / But it was always just an empty room / ‘Cause it’s always the same“. Girls Against God continua sulle stesse sonorità ma il testo è molto personale e frammentario. Florence si lascia andare a ricordi ed immagini del passato, e lo fa con passione e sensibilità, “And it’s good to be alive / Crying into cereal at midnight / If they ever let me out, I’m gonna really let it out / I listen to music from 2006 and feel kind of sick / But, oh God, you’re gonna get it / You’ll be sorry that you messed with this“. La successiva Girl Dream Evil vira verso un pop rock in pieno stile della band. Le atmosfere oscure ribaltano il mito della ragazza dei sogni, “Am I your dream girl? / You think of me in bed / But you could never hold me / And like me better in your head / Make me evil / Then I’m an angel instead / At least you’ll sanctify me when I’m dead“. Preyer Factory è un breve intermezzo di poco più di un minuto che concede pieni poteri alla voce della Welch, “All the things that I ran from / I now bring as close to me as I can / Ripping hotel sheets with gritted teeth / My montage of lost things / My shiny trinkets of grief“. Cassandra sembra una riflessione, tra realtà e immaginazione, del periodo difficile del lockdown. Un mondo fermo dove ognuno era solo e perso,”Well, can you see me? / I cannot see you / Everything I thought I knew has fallen out of view / In this blindness I’m condemned to / Well, can you hear me? / I cannot hear you / Every song I thought I knew, I’ve been deafened to / And there’s no one left to sing to“. Heaven Is Here è un’altra canzone personale con chiari rifermenti alla carriera di artista. Breve nella durata e scarna ma originale nell’accompagnamento, “And I ride in my red dress / And time stretches endless / With my gun in my hand / You know I always get my man / And every song I wrote became an escape rope / Tied around my neck to pull me up to Heaven“. Tra le mie preferite c’è la bella Daffodil. Qui sente la versione più epica, quasi mistica dei Florence + The Machine. Tutto è ben bilanciato e ispirato. Da ascoltare, “There is no bad, there is no good / I drank all the blood that I could / Made myself mythical, tried to be real / Saw the future in the face of a / Daffodil / Daffodil“. Il singolo di punta dell’album, nonché la canzone più in linea con la consueta produzione, è sicuramente My Love. C’è poco da aggiungere, la classe e lo stile della Welch sono qui, “I was always able to write my way out / Song always made sense to me / Now I find that when I look down / Every page is empty“. Nemmeno un minuto per Restraint, nella quale Florence canta con voce sommessa pochi versi, “And have I learned restraint? / Am I quiet enough for you yet?“. Cambio di passo con The Bomb. Nonostante il titolo faccia presagire altro, ci troviamo invece di fronte ad un lento dalle tinte classiche. Una canzone d’amore come di deve, “I’ve blown apart my life for you / And bodies hit the floor for you / And break me, shake me, devastate me / Come here, baby, tell me that I’m wrong / I don’t love you, I just love the bomb“. Si chiude con Morning Elvis. Una canzone dolorosa e triste, che sembra raccontare le difficoltà di essere un’artista e soffrire sul palco come l’ultimo Elvis, “Well, pick me up in New Orleans / Pinned in a bathroom stall / Pick me up above my body / Press my corpse against the wall / I told the band to leave without me / I’ll get the next flight / And I’ll see you all with Elvis / If I don’t survive the night“.

Dance Fever è un album figlio del suo tempo che ci riporta ad una Florence Welch più umana, per così dire. Le incertezze, le insicurezze e la voglia di riscatto di questi tempi emergono da ogni strofa. Non c’è volontà di sperimentare per i Florence + The Machine, se non in brevi e rare occasioni, ma l’ennesimo tentativo riuscito di mantenere sempre alta la qualità delle loro canzoni. Questo è stato finora il loro segreto: fare sempre delle ottime canzoni, senza forse prendersi dei rischi ma del resto non hanno nemmeno il bisogno di farlo. Non ne ha bisogno Florence Welch, che si dimostra ancora un’artista irraggiungibile ma meno dea e sempre più mortale.

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Punto di rottura

Mi ha colto un po’ di sorpresa la collaborazione tra queste due cantautrici americane, entrambe da tempo presenti nella mia collezione. Non avrei mai pensato di vedere riunite sotto un unico nome Aubrie Sellers e Jade Jackson ma il progetto Jackson+Sellers è proprio questo e debutta con l’album Breaking Point. In realtà a pensarci bene, le influenze musicali delle due ragazze non sono poi così distanti. Entrambe propongono un country alternativo, più rock per la Jackson e più garage per la Sellers ma comunque perfettamente paragonabili. Quindi questa collaborazione l’ho accolta fin da subito con curiosità, sicuro della sua buona riuscita.

Jackson+Sellers
Jackson+Sellers

L’apertura è affidata alla cover di Devil Is An Angel, scritta ed interpretata da Julie Miller nel 1997. L’affiatamento c’è e le due voci stanno bene insieme, la più dolce della Sellers e quella più ruvida della Jackson,”You look just like an angel / You sound so bright and true / You seem so sweet coming down my street, but the devil is an angel, too / Yeah the devil is an angel, too“. La title track Breaking Point, scritta dalla Sellers, è vicina al suo stile garage country. Il suono delle chitarre riecheggia, lasciando che il canto tratteggi la melodia, “I’m at the breaking point / You’re breaking me, baby / Everything you say to me, it’s driving me crazy / I know what you’re doing, but you need a new toy / ‘Cause you’re breaking me / I’m at the breaking point“. As You Run è scritta dalla Jackson ed è lei a prendersi la scena con la sua voce, questa volta più morbida. Una ballata rock, una delle tante alle quali ci ha abituato, “Why so scared / Of looking back / Following footsteps / And covering up your tracks / Won’t you stay one more night / Let me make it alright“. The Word Is Black è una canzone della Sellers nella sua versione più dark. Istantanee cittadine e di solitudine prendono forma tra le chitarre distorte, sulle quali galleggia la voce, “Eleven cars hauling strangers / Everybody on their phones / Staring down at their papers / Everybody all alone“. Segue Waste Your Time che ricorda le sonorità anni ’70 ed è una canzone nella quale si può tornare ad apprezzare meglio l’unione delle due voci. Un ritornello ripetitivo ed orecchiabile racconta di un amore difficile, “Gem on my necklace hit me like a heartbeat / As we ran in the street / Gold chain wrapped around your fingers when you kissed me / The love that I wanted I knew I wouldn’t get / But I still tried / I still tried“. Hush è una malinconica ballata a due voci. Nonostante in questo brano abbiano rinunciato al rock, le Jackson+Sellers riescono a dare alla luce una delle canzoni più belle di questo album, “Wind’s wild, sparrow beguiled / By a rose of fragrance so sweet / She swooped down low like wind to an arrow / And crashed in its soil and seed“. Con Fair Weather si ritorna alle sonorità più in linea con quelle della Sellers. Le chitarre contrastano con la sua voce delicata e tutto è leggero come in un sogno, “Fair weather, we’ll be together / Always, forever / You’ll never leave me alone / Long as the sun is shining / We don’t need a silver lining / But fast as a cold wind blows, / Fair weather comes and it goes“. Wound Up è decisamente più rock e con un piglio blues che ben si sposa con l’interpretazione delle due ragazze. Molto simile a quanto ci ha fatto sentire la Sellers nel suo ultimo album, “Can you live up to / My mirage of you / Wound up, wound up / The day’s way too long / And the night’s not long enough / I’m weak-kneed, so kiss me / Come on and light me up“. La mia preferita è sicuramente la cover di The Wild One, l’originale è del 1974 ed interpretata da Suzi Quatro in un veste decisamente più punk. L’alternarsi delle voci, la melodia orecchiabile la rendono perfetta per entrambe. Da ascoltare, “I’m a red-hot fox, I can take the knocks / I’m a hammer from hell, honey, can’t you tell / I’m the wild one / Yes, I’m the wild one“. Chiude l’album Has Been che prende ancora spunto dal passato per offrirci un altro bel rock a due voci. Le chitarre restano in primo piano e le voci si uniscono, “They’ll say, “passé, out of date” / They’ll run away from you / Oh, you ain’t nothin’ but a has been / So old news, so last year / You ain’t nothin’ but a has been / Go ask anyone“.

Breaking Point è un album nel quale Aubrie Sellers e Jade Jackson si danno spesso il cambio alla guida e raramente le si può sentire entrambi al microfono. Considerato che questo si può considerare un album di debutto è comprensibile che le due cantautrici abbiano portato alla causa ciascuna il loro contributo. Nelle cover si intravede maggiormente il potenziale e l’affiatamento del duo che, libero dalla propria personale scrittura di ciascuna, riesce a rendere al meglio. Breaking Point è un album ben fatto, nel quale le due cantautrici stanno cercando il punto di equilibrio tra due personalità musicali simili ma non identiche. Jackson+Sellers è un esperimento riuscito che soddisfa le aspettative e che speriamo sia solo l’inizio di una collaborazione lunga e produttiva.

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Il cuore su questi ciottoli

È possibile sorprendere senza fare nulla di nuovo? La risposta è sì. Ci sono riusciti quattro giovani ragazzi inglesi che si presentano sotto il nome di The Lathums. In mezzo a rapper, trapper e compagnia ecco spuntare una paio di chitarre, un basso e una batteria. Tutto già visto, già sentito. Eppure era da un po’ che non si sentiva nulla del genere. How Beautiful Life Can Be segna l’atteso esordio di una band che ripropone tutte le sonorità più note che hanno caratterizzato gli anni d’oro del pop rock made in UK. Sono tante le influenze che si possono citare ascoltando questo album, una su tutti i The Smiths. Ma non mi piace fare confronti, se posso li evito. Quindi non resta che ascoltare questo How Beautiful Life Can Be dimenticando per un attimo quel senso di déjà vu che può suscitare.

The Lathums
The Lathums

Cirles Of Faith apre l’album e subito si è immersi nel suono delle chitarre e dalla voce di Alex Moore. Un sound familiare ma che vibra di un’energia giovane, un testo ispirato e un ritornello orecchiabile. Serve altro? “Circles of faith in an undisputed land / I’ve taken up my refuge / I’m sticking to my plan / We all carry things we dare not speak / It’s humbling down here / At the bottom of the heap / And I will define the things I’vе seen“. Più luminosa e leggera I’ll Get By. La band rivela un lato sentimentale che non è per nulla scontato di questo tempi. Una canzone gioiosa che non cade mai nel banale e non può non far piacere ascoltare, “I’ll get high on the things you like / And we’ll be alright, I know / And if you want to, I can help you / Help you feel alright“. Fight On si apre con le note di una chitarra che ci cattura subito, lasciando poi spazio alla voce che canta un testo di resistenza alle battaglie di tutti i giorni. Una voce che corre veloce e sicura, “So fight on / My little bird / Oh I’m running jumping flying / Gunning faster fighting / Faster than the world / So fight on / My little bird / Oh I’m running jumping flying / Gunning faster feeling / Faster than the world“. How Beautiful Life Can Be è la title track, nonché singolo di punta dell’album. Una rasserenante riflessione sulle cose belle e semplici della vita. Un gioiellino da ascoltare, “Just how beautiful life can be / When one allows her to breathe / Let the children have their chance to see / Just how beautiful life can be“. The Great Escape è un po’ il cavallo di battaglia di questa band. Un piccolo compendio del brit pop, fatto di immagini lucide e tenute insieme da una melodia orecchiabile e un giro di chitarra che ti entra in testa, “And they could call it the great / The great escape of the world / And I don’t need diamonds and pearls / Just to vanish off the face of the earth / Is there any life on Mars / Or will I be arriving first? / Will I be arriving first?“. Segue I Won’t Lie, è una scanzonata cavalcata pop rock che galleggia leggera, lasciando che i pensieri scorrano liberi. Questa band mette a segno un altro punto a loro favore, “I’ll wait beside her, a constant reminder of when we were young / But I’ll let my guard down, pour all my heart out on these here cobblestones / In good time, lay my-my / In my life, I’ve been hurt some / I won’t lie, I won’t lie“. I See Your Ghost mette in mostra le capacità di Alex Moore, le sue parole sono veloci e corrono sulle note delle chitarre, “My chain, I know it, is particularly fancy / Means a lot to me, but if you come a little closer, you might find / Is there anything you’d like to say to me? / I find it very funny but I likely turn to anger very quick“. Segue Oh My Love che ancora una volta ci sorprende con la sua leggerezza e vitalità. La vita è troppo breve per viverla con negatività, “Time is weak and demanding of me / They will crumble at your fingertips / If you want to be happy / Then happy you will be / Oh, my love / Oh, my love“. I’ll Never Forget The Time I Spent With You è una ballata molto bella, guidata dal suono di una chitarra acustica. Questo dimostra di avere una spiccata sensibilità, senza paura di fare affidamento a melodie collaudate, “I won’t forget the time I spent with you / Before we’d even met I’d spent a lifetime with you / If only in your imagination but where else can we go? / You’re a shooting star I know / You’re a shooting star I know“. I Know That Much è una canzone che nasce dai sogni di questi ragazzi, la voglia di lasciare volti e luoghi conosciuti per esplorare il mondo e la vita, “But I put names to their faces / So I don’t make the same mistakes / And I’ve seen grey clouds up above / But I won’t let them take my love / I’ve come too far and I’ve lost too much / I won’t stop now I know that much / I know that much“. Artificial Screens si riferisce alla dipendenza dagli schermi degli smartphone, un tema moderno supportato da chitarre d’altri tempi. Un’altra canzone riuscita alla perfezione, “I think you are / Under a spell / And you don’t even know yourself / Everywhere I go / Everybody that I see / They’re looking down on the artificial screens“. Si chiude con l’epica The Redemption Of Sonic Beauty, un inno alla musica. Una canzone diversa del resto dell’album, che inizia al piano ma cresce in tripudio rock, “The redemption of sonic beauty / Here to save your souls / It’s the redemption of sonic beauty / I wonder do you know your role / It’s the redemption of sonic beauty, oh“.

How Beautiful Life Can Be è un debutto eccezionale, nel quale il talento della band è ancora coperto dai numerosi riferimenti del passato. Ma non c’è nulla di male in tutto questo. Non importa quali artisti vi possano ricordare, non importa se avete la sensazione di aver già ascoltato qualcosa di simile, i The Lathums sanno scrivere canzoni. Basta ascoltarli per rendersi conto che le basi di questa band sono solidissime e in controtendenza con le mode. Un ritorno alle chitarre, ai ritornelli orecchiabili e alla gioia di fare musica. Un ritorno nelle strade delle periferie inglesi dove quattro ragazzi hanno inseguito un sogno di mettere su una band e provare a vedere se la storia si può ripetere.

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Sotto un’altra luce

Era il 2017 quando una ventenne inglese si affacciava nel mondo della musica, attirando subito su di sé l’attenzione di pubblico e critica. Jade Bird non si presentava come molte sue colleghe coetanee, sia dal punto di vista dell’immagine sia da quello puramente musicale. La sua musica guardava più al passato che al futuro, al rock anni ’90 con echi grunge. Nel 2019 arriva l’album di debutto che tutti si aspettavano. La ragazza fa centro e non delude le aspettative, dando alla luce uno dei dischi più belli di quell’anno. Con il nuovo Differents Kinds Of Light tutti l’aspettavano al varco, compreso io. Devo essere sincero, ero sicuro non avrebbe deluso. E così è stato.

Jade Bird
Jade Bird

L’album prende forma con la breve introduzione strumentale intitolata DKOL, che lascia poi spazio a Open Up The Heavens. La Bird ripropone le sonorità del debutto, voce graffiante, chitarre in primo piano che richiamano un rock di altri tempi, “I’m stood still completely drenched / Do you know what it feels like / To have water in your shoes / Oh, it’s raining on me again / Oh, it’s raining on / A sunny day / Day“. Honeymoon si affida ad un ritmo veloce che fa viaggiare la voce della Bird con la consueta energia. Un amore che ogni giorno viene messo alla prova in un testo giovane ed orecchiabile, che dà prova del talento di questa cantautrice, “Ooh, my lover in the morning light / I wanna feel something that I want twice / Ooh, my lover with your hairdo down / Why not try to change it now / Maybe if I start pleasing you nice / Finally, I would start to feel alright“. La successiva Punchline prova a rallentare, rincorrendo una melodia dall’animo rock. La voce ferma della Bird è magnetica e venata da una tristezza mista a rabbia, “What a difference a day makes / Oh, you started off thinking you were the top of your game / You were telling jokes with the sun rise / But by the end of the day, you were looking like a punchline“. La title track Different Kinds Of Light è una balla lenta ed eterea. Jade Bird dimostra ancora di saper calibrare la sua voce ed allontanarsi per un attimo dal rock, “Who’s gonna call you tonight? / Who’s gonna make you feel storms and thunder? / Who’s gonna bring you to life? / Who’s gonna make you feel beautiful under / Different kinds of light“. Trick Mirror ritorna alle consuete sonorità, cantando ancora di un amore difficile. Testo e musica si intrecciano alla perfezione, “I love you like I always have, but my body’s cold / Whenever the weather gets bad / I start to run and I don’t look back / But you’re my shelter and I’m left alone in the black“. Segue I’m Getting Lost una veloce cavalcata rock che si muove in un’atmosfera notturna. Jade Bird riesce sempre a dosare la sua giovane rabbia e dare slancio alla canzone, “I’ll take off to the station / Nothing but the clothes on my back / There are chances worth taking / I need to know what I’m living for / Get it all back on track“. Le ballate però trovano sempre spazio e Houdini è una di queste. L’amore e le sue difficoltà offrono ancora lo spunto alla Bird per una canzone matura e ben scritta, “Oh, if they need a one to one / A reason or an explanation / If they need lessons on leaving / I’ll send them to you, Houdini / Oh, you’re looking at me like you can’t / Quite believe what you’re feeling / But I’ve always known that you’d go / Without giving a reason“. Chitarre distorte e voce carica di energia danno vita a 1994. Una delle canzoni che preferisco di questo album e che rientra appieno nello stile di quest’artista, “And if you get caught / Tell them nothing at all / Say that I wasn’t short of six feet tall / And if you get caught / Tell them nothing at all / Say that I was born in 1994“. Più solare, con richiami al rock made in UK, è Now Is The Time. Una scrittura ispirata e libera, ci fa apprezzare il lato più spensierato di questa ragazza, “When you get your hair styled / Come on down the stairs / Turn the TV on and off again / All they do is talk shit / If I had a penny for all your potential / I’d be left drowning, my mouth full of metal“. Candidate è ancora Jade Bird all’ennesima potenza. Ondate di risentimento viaggiano veloci sulle chitarre e la voce è irresistibile. Da ascoltare, “If you want somebody to judge, if you want somebody to blame / If you want somebody to hate, I’m a great candidate / If you want to employ, somebody to toy with / Really why would you wanna wait, I’m a great candidate“. Red White And Blue è una mesta ballata, semplice ma carica di sentimento. Questa cantautrice sa come toccare le corde giuste e sorprende il contrasto con le canzoni più rock, “Have you ever thought / That the first chord you hit might be the one? / Have you ever sat / And looked upon your hands / And seen the things they’ve done?“. Rely On è un rock lento dalle sonorità vagamente anni ’80. Una canzone rassicurante e dallo spirito giovane che non manca di emozione, “If you need me to rely on, I’m there for you / Somebody in the wild, when the lions move / If you need me to rely on, I’m there for you / When it comes down to the wire / I’m the only one, only one you should choose“. Jade Bird piazza un altro pezzo dei suoi con Prototype. Il suono della chitarra acustica traccia una melodia folk e la voce corre leggera. Una bella canzone, tra le mie preferite, “Oh, things got better the moment I fell / When I wasn’t looking, it all stood still / I know with these things you can’t always tell / But I love you, and I think I always will“. L’album si chiude con Headstart che ha un bel ritornello orecchiabile, la consueta energia e il testo sincero. Non si può chiedere altro, “I’ve more pride than many / This is kind of rare for me / Everyone knows that it’s true / You’re the only one in the room / But you don’t see me, do you? / Must be blind not to / That’s alright I’ll keep on / Putting myself on the line“.

Con Differents Kinds Of Light, Jade Bird fa un passo nella direzione giusta, senza prendersi troppi rischi. L’unico, il più evidente, è la scelta di inserire quindici tracce. Troppe? Non credo sia un difetto ma certo è una cosa che può non piacere a qualcuno. Lo stile della Bird rimane pressoché immutato, cambia l’approccio che risulta più maturo ma ugualmente giovane e ricco di vitalità. La sua capacità di porsi a metà tra il rock americano e quello british resta uno dei suoi punti di forza, così come trovare delle melodie orecchiabili e accattivanti. Differents Kinds Of Light offre la conferma che tutti si aspettavano, niente di nuovo forse ma non sbagliare il secondo album è già un bel traguardo. Jade Bird mantiene saldo il suo nome tra le promesse più luminose della musica di questi ultimi anni in attesa di degni concorrenti.

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Sogni oscuri

Correva l’anno 2018 quando ascoltai l’album di debutto di Tori Forsyth, intitolato Dawn Of The Dark. Lo scorso maggio è stato pubblicato Provlépseis che segna una svolta, in termini di stile, rispetto al suo predecessore. I singoli che hanno anticipato l’album denotavano una chiara svolta rock che metteva da parte le vibrazioni country. Il titolo dell’album è ispirato dalla parola greca che significa predizioni ed è stato scelto dopo le registrazioni, avvenute prima dell’epidemia, quasi a voler sottolineare alcuni aspetti, legati alla vita della cantautrice australiana, che l’album sembra aver anticipato. Ecco dunque un nuovo capitolo per quest’artista che seguo fin dagli esordi, grazie alla sua voce particolare e lo stile decisamente nelle mie corde.

Tori Forsyth
Tori Forsyth

Be Here dà inizio all’album, le chitarre graffiano e accompagnano la voce carismatica della Forsyth. Marcatemente rock, che trasuda rabbia e libertà, così diverso da quanto ascoltato finora da quest’artista, “Hold my face, my glazed eyes / Covered up, told a lie / Want you out when you’re inside / I’m so tired my glazed eyes / Spit me up, chew me out / My well done, it’s been lost now / Relapse hurts like promises / My well done, matters less“. All For You rallenta ma non si discosta dalle sonorità precedenti. Un sentimento doloroso serpeggia tra le parole della canzone. La voce della Forsyth sa essere ruvida quando serve e qui è tutto perfetto, “Ingest the medicine I had all along / Don’t know if it’s god / But I’ll give anything a shot / Breathe through the obscure dreams / Don’t know what it means / I read into almost everything“. La successiva Cosmetic Cuts si affida ad un revival anni ’90. Atmosfere cupe che ben si addicono alla voce di quest’artista e rappresentano l’animo di questo album, “My insecurities / Aren’t few and far between / I’ll take care of you / But the price is me / And then I’ll paint my heart / And I’ll serve it up / Serve it to myself / With its cosmetic cuts“. Redundant è un rock tirato che richiama le sonorità tipiche del grunge. La rabbia emerge dalle parole ed è ben supportata dalla chitarre. Un cambio di passo che segna questo album, “Cutting everything and turning over tables / Gnashing my teeth on live electric cable / Put me on the stand I’m waiting for my trial / Forgot, who I am, and now I’m in denial“. Courtney Love è una ballata rock, malinconica e graffiata. Sotto la superficie si possono sentire le influenze country dell’esordio ma ad affascinare di più è la forza di questa canzone, “I paid rent, so long / Empty house, broken throne / Where there’s resistance, there’s commitment / To corruption, but there’s no substance / She’s got no substance“. Last Man Stands è un lenta cavalcata rock che si affida molto alla voce graffiata delle Forsyth. Una melodia decadente che esprime un malessere profondo, “Let me fall, break my bones / Show you mine, show me yours / Last man stands, I give you that / For half the day, then straight away I’ll take it back“. Keeper va in una direzione diversa. Un testo più poetico che lascia più spazio alle emozioni che emergono con forza dalle parole. Tori Forsyth qui dimostra tutto il talento di cantautrice, “Wish I was a little less dramatic / I didn’t turn to panic / As the first emotions / How I wish I could control them / Am I too sarcastic? / I use it as a blanket / I promise I’ll try harder / When outside gets warmer“. Si torna a qualcosa di più rock con Blaming Me. La voce di fa calda ma ruvida e incornicia un ritornello ben rustico e orecchiabile. Non nascondo che è una delle canzoni che preferisco di questo album, “Place your bets as it’s called off / Take what’s mine just because / And lie your way to the next extreme / Spent too much on your time blaming me“. Nothing At All si riaffida alla ballata e la voce della Forsyth ci racconta un sentimento di rassegnazione, “Now I’m too tired from being so wired / My nerves have been shot to the floor / I try to mend them but I’m sick of pretending / I actually care anymore / But sometimes it’s better to bleed than feel nothing at all / Sometimes it’s better to bleed than feel nothing at all“. Shapeshifter è un rock veloce e tirato, affondato in un mare di parole. Ben si destreggia la Forsyth nel ritmo veloce di questa canzone, “Tight lip unzip on the first round / Loyalty gone with a dead mouth / Sick lounge undone cheap threads now / Begging me on borrowed time and stealing like a free foul“. Kid è un’altra bella canzone che ancora fa un’operazione di revival più che riuscita. Un rock che esprime ancora un sentimento di rabbia che corre veloce lungo le note di tutto l’album, “We’re all meant to cry, confess when we lie / Spend what we earn, kill ‘em and die / Cheapen the stakes with our own lives / I gamble myself, soon I’ll be fine“. Down Below è il punto di collegamento tra passato e presente della musica di questa artista. Ancora una canzone che esprime un senso di inquietudine senza soluzione, “And honey you’re next, I bet you’d like to know / You’ll be safe and sound, no matter where you go / Everyone’s a bitch, they follow me home / Remind me what you did, I’ll take you with me down below“. Chiude l’album Martyr, carica di parole e immagini che si susseguono in un pop rock orecchiabile, “And I’m a martyr at my grave and I’m laughing at me / I was blinded for the kill I was deafened so they could speak / They took what was mine, they put it in a gun / They point it at my head as if they’d already won / They already won“.

Provlépseis rapprensenta ovviamente una svolta, un cambio netto di sonorità. Esistono due tipi di artisti a mio parere. Chi cambia snaturando sé stesso e chi sa farlo senza rinnegare il proprio passato. Ebbene Tori Forsyth con questo album è riuscita a cambiare, non di poco, ma in qualche modo l’ha fatto rimanendo fedele al suo esordio. Tutto suona molto più rock, perfino grunge, le sonorità country sono un ricordo, eppure c’è qualcosa che sopravvive. Provlépseis è un album lungo, denso e monocromatico, senza momenti leggeri o luminosi. Sembra di stare dentro la testa di questa cantautrice dove i pensieri e le emozioni scorrono veloci e si susseguono senza sosta. Il coraggio e la voglia di cambiare vanno sempre premiati e questa volta non fa eccezione.

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