Ancora un altro libro, ep. 16

È giunto il momento di dare spazio alle mie letture, l’ultimo post di questo genere risale alla metà dello scorso dicembre. Qui brevemente cercherò di riassumere le mie impressioni raccolte di volta in volta termino un libro.

Cominciamo da Le strade di Laredo di Larry McMurtry. Ambientato circa vent’anni dopo i fatti narrati nel precedente Lonesome Dove, questo romanzo racconta una caccia all’uomo tra Texas e Messico. I protagonisti sono più o meno gli stessi, solo più vecchi e abituati ad una vita diversa, a parte il capitano Woodrow Call che si mette sulle tracce di un pericoloso assassino. La storia però procede lentamente e bisogna attendere tre quarti di libro prima che succeda qualcosa di significativo. Nel frattempo gli assassini psicopatici diventano due e uno è di troppo e, a conti fatti il suo peso nella trama è praticamente nullo. Inoltre ci sono troppe coincidenze, comportamenti inspiegabili da parte di alcuni personaggi, situazioni poco credibili e numerose ripetizioni. Anche i dialoghi non sono all’altezza del suo predecessore ma in generale è un romanzo ben scritto. Le strade di Laredo è una storia profondamente triste e diversa da quella di Lonesome Dove, nella quale non c’è redenzione per nessuno.

Continua a leggere “Ancora un altro libro, ep. 16”

Ancora un altro libro, ep. 15

Prima che finisca questo 2023 è bene che io raccolga qui le mie impressioni su gli ultimi libri che ho letto dallo scorso mese di luglio.

Il sesto volume della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind, intitolato La fratellanza dell’ordine, vede Richard e Kahlan impegnati ancora contro la minaccia dell’Ordine Imperiale. Come al solito sono costretti a dividersi e, come al solito, pensano sia per sempre. Ed ecco che il dramma della separazione inizia a diventare troppo ricorrente in questa saga. Questa volta è colpa di Nicci, una Sorella dell’Oscurità che inizialmente sembra essere un personaggio spietato e pericoloso ma poi Goodkind finisce per stravolgere tutto troppo velocemente, rendendolo anonimo. Richard, al solito, è bravo a fare tutto e questo spesso lo fa diventare prevedibile e in questa occasione anche un po’ insopportabile. La trama è meno complessa dei precedenti, con un finale insipido, piena di riempitivi (il capitolo 19 è inutilmente lungo) e carica di un significato piuttosto banale. Sappiamo bene che Goodkind voleva diffondere il relativismo ma per ora non mi sembra niente di così eccezionale. Sarebbe stato meglio si fosse preoccupato di essere meno infantile e semplicistico in alcuni passaggi e avremmo avuto un più che discreto fantasy d’intrattenimento.

Il secondo libro della trilogia di Stoccolma, intitolato 1794 e scritta da Niklas Natt och Dag, riprende le atmosfere del precedente e in parte anche le tematiche. Un thriller storico arricchito dalle descrizioni della città e dei suoi vicoli. Sembra quasi di vederla e di sentire gli odori nauseanti che le pervadono e di toccare le difficili condizioni di vita di allora. La scrittura è pulita, con capitoli spesso brevi e significativi, mai inutili. La struttura del romanzo è particolare, si passa da un punto di vista all’altro e si fanno dei passi indietro che poi permettono di comprendere meglio le vicende successive. Non mancano violenza e volgarità, le quali possono impressionare qualche lettore. Alla fine restano alcune questioni in sospeso che si concluderanno nel terzo volume.

Underworld di Don Delillo è così denso di contenuti che è difficile descrivere in poche parole che cosa racconta. I temi più ricorrenti che ho potuto cogliere sono: la spazzatura, i complotti, la guerra fredda, il nucleare, il numero tredici, l’educazione, l’arte e la cultura italo-americana. I personaggi che prendono parte a questo romanzo in realtà non sono molti e tutti entrano in qualche modo in contatto tra loro. Nella parte centrale, forse la più brillante ed eterogenea del libro, troviamo brevi spezzoni di vita americana, tutti rigorosamente scritti nello stile postmoderno di Delillo. L’autore fa avanti e indietro nel tempo, terminando, prima dell’epico epilogo, con un lungo flashback che va a chiudere il cerchio. Qualcosa rimane in sospeso, va a perdersi nel flusso di parole, negli ottimi dialoghi e nelle lunghe disamine. Ma così deve essere, è nello stile pulito e discorsivo di Delillo e nella sua visione postmoderna. Un libro che si deve leggere per il piacere di farlo, cogliendone i numerosi spunti di riflessione, e non per trovare colpi di scena (che non mancano) o per seguire una trama lineare.

Robert Harris prende in prestito l’idea di Philip K. Dick per il suo Fatherland, immaginando un mondo nel quale la Germania nazista vince la Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è perfino migliore del precedente tentativo, più realistico e plausibile nel suo complesso. L’unico difetto è che non rappresenta davvero un valore aggiunto, anzi in un certo qual modo ne smorza la tensione. Se questo thriller fosse stato ambientato negli ultimi anni del conflitto, o subito dopo, invece che in un ipotetico 1964, a mio parere, sarebbe stato più interessante e la trama, con qualche accorgimento, sarebbe stata in piedi lo stesso. Il detective protagonista, solitario e tormentato, e la bella e brillante americana che lo aiuta nelle indagini, rendono questo romanzo piuttosto prevedibile nelle dinamiche. Il movente degli omicidi è quasi scontato, compensato però da un buon colpo di scena finale. Quello che resta è un buon thriller godibile, dal ritmo serrato e dalla particolare ambientazione ucronica ma non privo dei cliché del genere.

Il sesto volume de Le storie dei re sassoni, dal titolo La morte dei re, conferma le ottime qualità di narratore di Bernard Cornwell e il suo amore per la storia del regno d’Inghilterra. Come di consueto le note storiche ci rivelano le fonti, le quali, proprio perché esigue, permettono all’autore di prendersi numerose libertà nel rispetto della storia. Uhtred è figlio del suo tempo, intelligente ma superstizioso, irrispettoso ma fedele al suo giuramento, con comportamenti che alla morale moderna ci appaiono violenti ma purtroppo non lontani da quelli testimoniati nelle guerre di oggi. Tanto tempo è passato ma poco sembra essere cambiato. Sempre ottimo il giusto peso che Cornwell dà agli eventi paranormali e al ruolo delle donne del tempo. Lascio Uhtred alle sue avventure ancora una volta pienamente soddisfatto e con il desiderio di ritornare al più presto nelle terre della futura Inghilterra.

Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle, è un classico della fantascienza ormai entrato nell’immaginario comune anche grazie alle numerose trasposizioni cinematografiche. Un breve romanzo dallo stile scorrevole e serrato, con un deciso cambio di ritmo nella terza parte. I colpi di scena sono probabilmente ciò che rendono questo libro così famoso ma che però rischiano di oscurare il resto della storia che offre numerosi spunti di riflessione sul rapporto tra umani e animali. Su questo punto forse soffre di una visione un po’ datata, non più in linea con quella moderna, ma del tutto comprensibile se si considera che è stato pubblicato nel 1963.

Ancora un altro libro, ep. 14

Mi sono accorto che l’ultimo episodio di questa rubrica risale addirittura allo scorso febbraio. Credo sia arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Cominciamo con La ragazza dai capelli strani, breve raccolta di racconti in cui possiamo ammirare il talento, ancora acerbo, di David Foster Wallace e la sua capacità di analisi della società moderna. Ogni racconto ha un tono e uno stile diversi, spesso con una struttura frammentata, con continui cambiamenti nel punto di vista e persino della forma. Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, lo stile di questo autore continua ad essere innovativo e sorprendente. I periodi lunghissimi, le continue associazioni mentali e le situazioni assurde e geniali sono le caratteristiche che più emergono dalla sua lettura. Sotto la superficie c’è la volontà di Wallace di dare forma ai pensieri più complessi senza rinunciare alla sua visione lucida del mondo nel quale viviamo, una visione che è ha anticipato i tempi. Se cercate racconti con una trama ed un finale, in questa raccolta, non ne troverete nemmeno uno.

Decisamente una lettura più leggera quella de La spada del destino, ovvero il secondo volume della saga dello strigo Geralt di Rivia. Si tratta ancora una raccolta di racconti ma a differenza del primo, ho trovato questo un po’ meno avvincente. Nei tre primi racconti lo strigo non ha un ruolo attivo all’interno della storia, è uno spettatore al pari di alcuni personaggi secondari, pure poco caratterizzati. Nei successivi tre invece, Geralt mette finalmente mano alla spada e rende giustizia al suo ruolo. Una raccolta divisa in due metà, una trascurabile e un po’ lenta, e l’altra più convincente e in linea con lo spirito della saga mostrato finora. Indubbiamente Andrzej Sapkowskici sa fare, il suo stile è diretto e asciutto, con una particolare attenzione ai dialoghi. Forse solo le vicende amorose tra Yennefer e Geralt risultano, a volte, un po’ stucchevoli e fuori luogo. Non mi resta che scoprire cosa riserva il primo romanzo della saga.

Solo Stephen King poteva scrivere un romanzo su di un’automobile assassina senza essere banale e grottesco. Non sapevo cosa aspettarmi da Christine ma ha saputo sorprendermi anche questa volta. Nella prima parte King definisce i personaggi, i rapporti che li legano e il contesto nel quale vivono la loro vita serena. Finché il giovane Arnie non sceglie Christine. Nella seconda parte tutto cambia e si entra in un susseguirsi di eventi che sembra impossibile da fermare. Il male che continua oltre la vita e non conosce riposo. Il passato che apre vecchie ferite e il futuro incerto dei giovani protagonisti. Il finale riserva delle sorprese nel perfetto stile di questo autore, evitando spettacolari colpi di scena. Senza dubbio tra i migliori romanzi di questo autore che ho letto finora e consigliato anche a chi vuole iniziare a scoprire il Re.

La repubblica dei ladri è terzo capitolo della saga dei Bastardi Galantuomini e quello nel quale facciamo finalmente la conoscenza di Sabetha, personaggio fin qui solo nominato. Scott Lynch ci racconta anche di più sul passato di questa banda di ladri, svelandoci l’episodio del teatro già citato nei libri precedenti. Nel frattempo ritroviamo Locke e Jean impegnati nelle elezioni nella città dei maghi. Forse queste elezioni sono un pretesto un po’ debole per portare avanti la storia, soprattutto perché non è chiarissimo il ruolo dei due protagonisti, ma alla fine si spiega tutto o quasi. Questo romanzo appare più come un prologo per quello che seguirà. Il colpo di scena finale, infatti, apre a nuovi e inquietanti sviluppi. L’unico modo per scoprire quali saranno è leggere il prossimo The Thorn of Emberlain che però è in attesa di pubblicazione da dieci anni.

La battaglia di Ravenspur, il finale della quadrilogia della Guerra delle Due Rose, è quanto ci si poteva aspettare dopo il deludente terzo volume. Conn Iggulden non riesce a dare forma al romanzo che diventa così in una sorta di docufilm, dove alcune parti sono caratterizzate da dialoghi e azione, altre, più frequenti, non sono altro che una voce fuori campo che riassume velocemente i fatti più salienti. La sensazione è che l’autore non avesse le idee ben chiare e questo a portato all’assenza di una struttura, con personaggi poco caratterizzati e approfonditi. Le riflessioni dei protagonisti sono spesso ripetitive e alla lunga annoiano, dando l’impressione che servano solo ad riempire qualche pagina in più. La gran quantità di personaggi che hanno preso parte a questo conflitto, durato trent’anni, forse avrebbe meritato ben più di quattro libri o, in alternativa, un solo libro meno dettagliato ma più chiaro di quello che ha realizzato Iggulden. Questa serie di libri si è rivelata una delusione, soprattutto dopo i primi due buoni volumi. Non entro nel merito della fedeltà ai fatti storici che sono esposti nella nota storica in chiusura ma, a ben vedere, riassume, in una decina di pagine e in modo più chiaro, le altre centinaia appena concluse. Nota a margine: il titolo italiano è fuorviante. Non c’è stata nessuna battaglia a Ravenspur, anche se ha un ruolo centrale nelle vicende. Molto meglio il titolo originale: Wars of the Roses. Ravenspur: Rise of the Tudors.

Ancora un altro libro, ep. 12

L’ultimo episodio di questa rubrica risale allo scorso luglio e da allora di libri ne ho letti diversi. Quindi direi che è arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Bloodline è un romanzo storico che racconta le vicende della Guerra delle Rose, il terzo di quattro che compongono la saga scritta da Conn Iggulden. Rispetto ai due precedenti, questo non mi è sembrato all’altezza di essi. L’autore non riesce a portarci indietro nel tempo anche a causa della scarsa caratterizzazione dei personaggi, un difetto già riscontrato nel primo e nel secondo volume. Molti sono solo dei nomi e uno dei pochi personaggi di fantasia, nonché uno dei più riusciti, Derry Brewer, il deus ex machina, che spiccava sugli altri, viene inspiegabilmente relegato a poche apparizioni. In alcuni capitoli più che un romanzo sembra una cronaca, con un susseguirsi di avvenimenti che servono solo a coprire lunghi intervalli di tempo. Bloodline è un buon romanzo storico che si prende alcune libertà (è tipico di questo genere) ma prova a rimanere fedele ai fatti per quanto possibile. L’autore però appare comunque più schierato dalla parte dei Lancaster piuttosto che da quella degli York ma se si cerca qualcosa di imparziale e veritiero meglio un saggio.

Prosegue la mia avventura (tra alti e bassi) nel mondo della saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind. Il quinto volume, L’anima del fuoco, ricalca la struttura dei precedenti, introducendo nuovi personaggi e nuove ambientazioni. Richard e Kahlan si ritrovano alla prese con i “rintocchi” che minacciano la presenza della magia nel mondo fantastico creato dall’autore. I pregi e i difetti rimangono gli stessi dei capitoli precedenti. Lo stile asciutto e scorrevole dell’autore contrasta con le numerose ripetizioni e banalità. Ad esempio i continui rifermenti al cibo, del tutto inutili all’interno della narrazione, e la tendenza a sottolineare le vicende amorose di personaggi, spesso ininfluenti sulla loro psicologia e sull’intreccio. Inoltre, ma forse è solo una mia impressione, Goodkind sembra avere qualche problema con la gestione del tempo. Settimane che sembrano giorni e viceversa. Le varie linee temporali non sembrano intrecciarsi a dovere e il finale mi è parso affrettato e un po’ campato in aria. Non importa, il prossimo volume chiude un ciclo narrativo e lo leggerò sicuramente ma non subito. Sono nella fase: devo sapere almeno come va a finire.

Questo è uno di quei libri che compaiono un po’ per caso mente si cerca altro ma che sentiamo il bisogno di leggere subito, lasciando in attesa altri libri che aspettano il loro turno da mesi, se non addirittura anni. 1793 è un romanzo storico che segna il debutto dello scrittore svedese Niklas Natt och Dag. Si potrebbe definire un giallo o un thriller storico ma in realtà è qualcosa di più di questo. La coppia di investigatori, il tisico Cecil Winge e il reduce Mickel Cardell, è quella classica. La mente e il braccio. Entrambi sono ben integrati nel contesto storico in cui vivono, la Stoccolma del 1793. Più originale è la struttura del romanzo, che non segue semplicemente le indagini e, nella parte centrale, lascia che sia il lettore a scoprire parte della verità con occhi diversi, con gli ultimi capitoli che servono a chiudere il cerchio. Lo stile dell’autore è incalzante e condito da ottimi dialoghi. Le scene forti non mancano e la violenza potrebbe disturbare i lettori più sensibili ma nel contesto rende tutto più vivido. Un ottimo esordio che tiene sulle spine fino all’ultima pagina ma non privo di qualche difetto, come le ripetizioni, le espressioni ricorrenti e qualche colpo di scena di troppo. Leggerò sicuramente il suo seguito che si presenta come una storia indipendente ma in continuità rispetto a questo libro. Ovviamente, come d’uopo, anche questa è una trilogia.

Altro che di trilogia si tratta, quella del Le Storie dei Re Sassoni che è arrivato al suo tredicesimo volume. Modestamente non sono nemmeno arrivato a metà con Il signore della guerra, quinto libro di questa serie di romanzi storici del maestro Bernard Cornwell. Nonostante si tratti del quinto capitolo di una lunga saga, questo autore riesce a mantenere alto il livello della narrazione, anche grazie agli elementi storici inseriti in essa. Data la scarsità di evidenze storiche, il nostro non manca di dare spazio alla fantasia ma lo fa senza mai risultare poco credibile come avviene spesso in alcuni romanzi storici d’avventura. Il protagonista Uhtred, nonché voce narrante, è sempre più spavaldo e strafottente almeno nelle apparenze ma la sua fedeltà a re Alfredo è messa ancora una volta a dura prova. Le note storiche dell’autore, seppure brevi, sono sempre interessanti perché chiariscono cosa è vero e cosa no del romanzo appena terminato. Non vedo l’ora di tornare con Uhtred sulle colline inglesi per vedere cosa ne sarà del sogno di Alfredo.

Chiudo in bellezza con un capolavoro ovvero Lonsome Dove (le prime edizioni in Italia avevano l’inspiegabile titolo di Un volo di colombe). In questo grande romanzo western affrontiamo, insieme ai ranger Call e Augustus, un lungo viaggio che ci porterà dal Texas al Montana di fine ‘800. Tra personaggi indimenticabili e dialoghi cinematografici (non a caso è nato come sceneggiatura), Larry McMurtry ci fa conoscere la dura vita sulla pista. Si sente, tra le sue righe, la polvere delle pianure, il caldo torrido, la tensione dei pericoli, i sogni e le speranze degli uomini. Nonostante la mole e il ritmo lento, questo romanzo scorre senza intoppi tra scene divertenti e altre tristi e dolorose. Ci sono numerose riflessioni sulla vita e la morte, sempre ben inserite nel contesto e alleggerite dalla simpatia di Gus e di altri personaggi bizzarri. La capacità di McMurtry di dare “voci” differenti a ciascun protagonista ha dell’incredibile (non per niente questo romanzo vinse il premio Pulitzer nel 1986). Difficile lasciare i suoi protagonisti al loro destino e infatti esiste un seguito che leggerò sicuramente (anche se mi dicono inferiore), perché questa strana compagnia di cowboy già mi manca. Qui sotto un paio di citazioni che mi sono segnato.

– Dove credi che andrà a finire Jake?
– In una fossa, come me e te.
– Non so perché continuo a farti domande.

– Avete fretta di arrivare da qualche parte. È un grosso errore andare di fretta.
– Perché? – domandò Joe. Quasi tutto ciò che diceva il viaggiatore lo lasciava perplesso.
– Perché la nostra destinazione è la tomba. Chi va di fretta di solito ci arriva prima di chi procede con calma.

Cinque colpi delle dita, ep. 9

Agosto è il mese nel quale faccio un’abbuffata di cinema, guardano film vecchi e nuovi che mi appunto durante l’anno. L’ultimo episodio di questa rubrica però risale a quasi un anno fa perciò comincerò dai film visti dallo scorso settembre per darvi qualche consiglio su cosa vedere (o non vedere).

Tolo Tolo – Anche se non posso dirmi un fan di Checco Zalone, credo di aver visto tutti i suoi film. Questo è il peggiore dei suoi. Demenziale nel senso peggiore del termine. In alcuni momenti ho provato imbarazzo. Pessimo. Voto 4
Dark Water – Film che ricostruisce la storia vera di un avvocato che scava a fondo sulla pericolosità del teflon. Potente e ben congegnato che smaschera l’avidità dell’uomo e il suo potere autodistruttivo. Assolutamente da vedere anche se manca un finale vero e proprio, perché la vicenda si trascina ancora ai giorni nostri. Voto 8
Il primo Natale – La comicità di Ficarra e Picone l’ho sempre trovata intelligente e leggera. Qui si sconfina troppo nella fantasia e nell’assurdo, un territorio che indebolisce il duo comico e il buonismo diffuso non aiuta affatto. Non certo imperdibile. Voto 6
Timecrimes – Vi piacciono i viaggi nel tempo? I loop temporali e i paradossi che generano? Allora questo film spagnolo fa per voi. Niente eroi fighi o donzelle dal salvare ma un uomo comune finito in un bel casino. Forse non proprio impeccabile ma da vedere. Voto 8
L’ufficiale e la spia – Roman Polański porta sul grande schermo il romanzo storico di Robert Harris che narra le vicende dietro al celebre “affare Dreyfus”. Un bel film c’è poco da dire. Tutto perfetto e coinvolgente al punto giusto, peccato per un finale debole. Voto 7
A quiet place Part II – Se la prima parte mi era piaciuta questa seconda parte molto meno. Di fatto è come la prima, non cambia praticamente nulla se non l’ambientazione. Sappiamo già come fare fuori gli alieni cattivi, e quindi? I pochi minuti che fungono da prologo dell’intera vicenda salvano un film piuttosto noioso. Voto 5
Benedetta – Tolta qualche scena che ha sollevato qualche polverone e qualche nudità, questo film, basato su una storia vera, non è affatto male come credevo. Forse un po’ ripiegato su sé stesso ma la presenza di Virgine Efira (anagraficamente fuori contesto) vale un voto in più. Voto 6

Eccoci ai film che ho visto questo mese, alcuni davvero ottimi e l’altri decisamente deludenti.
The Green Knight – Dopo aver letto il poema cavalleresco originale, magistralmente tradotto da Tolkien, questo film da cui è ispirato era un passaggio obbligatorio. In generale il film segue la trama del poema ma né ribalta il senso e lo scopo, rivedendo i ruoli dei personaggi all’interno della storia. A livello visivo è eccezionale e coinvolgente, forte al punto giusto e visionario senza confondere lo spettatore. Mi è piaciuto nonostante le divergenze ma si tratta di un film particolare, non per tutti i palati. Voto 7
The Last Duel – Sentivo odore di filmone da chilometri di distanza e il nome di Ridley Scott dice tutto. Cavalieri, dame, duelli, stupri e vendette sono gli ingredienti di un film impressionante. Non oso immaginare quali mezzi sono serviti per ricostruire queste vicende avvenute nella Francia del XIV secolo. Tre punti di vista diversi raccontano la medesima storia. Forse questo può renderlo ripetitivo e lento ma questo film è puro cinema e non un giocattolone d’intrattenimento. Flop al botteghino ingiustificabile. Voto 9
Dune – Ho letto i primi due romanzi della saga di Frank Herbert e sapevo che, se ben fatto, non sarebbe stato un film di pura azione. Infatti non lo è. Purtroppo si tratta di un prologo di due ore e mezza in cui non succede nulla. Ma proprio nulla. Le immagini spettacolari parlano più degli attori, molti dei quali sono poco più che comparse. Non comprendo molto l’entusiasmo intorno a questo film ma forse meglio aspettare la seconda parte prima di trarre conclusioni affrettate. Voto 7
Red Notice – Mi aspettavo un thriller divertente fatto di inseguimenti, zuffe e colpi di scena, con la fisicità di Dwayne Johnson, la simpatia di Ryan Reynolds e la bellezza di Gal Gadot. Quello che ho visto è un thriller divertente fatto di inseguimenti, zuffe e colpi di scena, con la fisicità di Dwayne Johnson, la simpatia di Ryan Reynolds e la bellezza di Gal Gadot. Direi che è tutto ok. Voto 7
Uncut Gems – Siamo abituati a vedere Adam Sandler in commedie spesso di dubbio gusto. Qui si cala perfettamente in un ruolo drammatico, in un film ansiogeno e senza respiro. Una pietra preziosa metterà a dura prova la vita del protagonista, per colpa di un avido Kevin Garnett (proprio lui). Un film originale pieno di parolacce e violenza che lascia una tristezza infinita quanto la bellezza di quel maledetto opale.
Don’t Look Up – Una commedia satirica piena di grandi nomi. Un meccanismo perfetto che si inceppa solo in poche occasioni. Divertente ma anche profondo nel messaggio che vuole trasmettere. Uno specchio su quello che siamo diventati. Alcune scene surreali alleggeriscono il film che altrimenti sarebbe davvero troppo denso di significati. Voto 8
The Northman – Il visionario Robert Eggers ci racconta una storia di vendetta ai tempi dei vichinghi. Niente di originale ma la forza delle immagini, la violenza brutale e lo spiritismo danno vita ad un film coinvolgente e spettacolare. Qualche colpo di scena rende meno banale la strada verso il finale prevedibile. Non un film per tutti i gusti ma merita una visione. Voto 8
Nightmare Alley – Gulliermo del Toro in genere non mi delude ma in questo remake ho trovato davvero poco da salvare. Ottimi gli attori e le scenografie ma la storia è vecchia, prevedibile fin dall’inizio. Dopo mezzora sarei stato in grado di raccontare il resto del film senza sforzo. Una delusione per me che mi aspettavo un film più complesso e cervellotico. Voto 6
Last Night In Soho – Inizia come una commedia questo film di Edgar Wright per poi diventare un film drammatico e infine un horror sanguinoso e vecchio stile. Le atmosfere anni ’60 sono fenomenali e i colpi di scena ben riusciti. Un buon film che intrattiene fino alla fine senza troppe pretese. Voto 7
Fight Club – Ebbene sì, non avevo mai visto questo film culto del 1999 e in questi 23 anni sono rimasto all’oscuro del principale colpo di scena. Ottimo film, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, con riflessioni piuttosto interessanti sulla nostra società e le nuove generazioni. Il plot twist ad un certo punto si intuisce ma non toglie nulla a questo film invecchiato bene (CGI a parte). Voto 8

Ancora un altro libro, ep. 10

Dopo gli ottimi Imprimatur e Secretum, il terzo capitolo delle avventure di Atto Melani e del “ragazzo” senza nome, intitolato Veritas, si rivela essere un passo indietro rispetto ai precedenti romanzi scritti dalla coppia Monaldi e Sorti. Sempre ottima la ricostruzione storica ma stavolta si eccede con la fantasia e la presunzione. La morte dell’imperatore Giuseppe I è un pretesto debole che costringe gli autori ad aggiungere carne al fuoco per tenere in piedi la storia. In particolare la nave volante, con tanto di autopilota, mette a dura prova la sospensione dell’incredulità che, in un romanzo storico, non dovrebbe essere necessaria (o almeno non quanto un fantasy). Senza contare che resta un mistero la sua utilità all’interno della storia. La serie di omicidi è eccessivamente prevedibile e inutilmente brutale. Il colpevole viene svelato con un colpo di scena copiato pari pari da “I soliti sospetti” (film che all’epoca fu rivoluzionario ma rivisto oggi non più di tanto). Mi è parso inoltre che la prosa sia più moderna che nei precedenti ma forse è solo una mia impressione, così come lo sono le numerose ripetizioni degli stessi concetti. Mi spiace scriverlo ma questa volta Monaldi e Sorti hanno toppato e non di poco. Veritas resta un thriller di pura fantasia, con un intreccio debole, supportato però, come sempre, da un’immensa documentazione.

Sono tornato da Scott Lynch che ci porta per mare nel secondo capitolo dei Bastardi Galantuomini, intitolato I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies). La struttura del romanzo resta la stessa del primo libro Gli inganni di Locke Lamora: Locke e Jean mentre stanno mettendo a segno uno dei loro colpi, rimangono invischiati in affari più grossi di loro. Chi conosce poco o nulla di termini marinareschi si troverà confuso quanto i protagonisti, lo stesso autore ammette poi di aver fatto un po’ confusione e di essersi inventato qualche termine. L’intreccio è il punto di forza di questa serie che, tra truffe, intrighi e tradimenti, tiene incollato il lettore fino al finale che lascia alcune questioni in sospeso per i volumi successivi. Linguaggio forte e violenza, ma anche molta ironia, restano i tratti distintivi di un fantasy fuori dagli schemi. Il mondo creato da Lynch si arricchisce di nuovi particolari e parole (ottima la traduzione), facendoci scoprire le sue regole e sui meccanismi che sovvertono quelli del nostro. Ora non mi resta che il successivo La repubblica dei ladri che finora è l’ultimo pubblicato da Lynch. Il prossimo The Thorn Of Emberlain pare sia di prossima pubblicazione ma è così da qualche anno ormai. Forza Scott ce la puoi fare!

Se con La svastica sul sole, Philip K. Dick non mi aveva pienamente convinto, con Ubik ho capito perché questo autore è così amato. La capacità di Dick nel creare una storia dalla struttura solida ma allo stesso tempo confusa, è il punto di forza di questo libro. Ambientato nel 1992, che all’epoca rappresentava un futuro relativamente lontano, l’umanità ha trovato il modo di mantenere in semivita le persone in punto di morte e avere contatti con loro. Tutto ruota attorno alla vita e alla morte e a questo stato di sospensione innaturale. Nella prima metà del romanzo Dick ci confonde con termini presi in prestito dalla fantascienza dell’epoca per poi, nella seconda, accelerare il ritmo e trovare numerosi colpi di scena. Un romanzo che corre senza sosta, senza passaggi a vuoto, che soffre solo di un immaginario fantascientifico ormai obsoleto ma continua ad offrire spunti di riflessione. Probabilmente leggerò altro di Dick ma l’impressione, leggendo opinioni qua e là, è che Ubik resta il punto più alto della sua produzione.

Ancora un altro libro, ep. 9

Al termine dello scorso anno ho consigliato qui una manciata di libri, ora è arrivato il momento di consigliarne (o sconsigliarne) altri tre, partendo da Il guardiano degli innocenti di Andrzej Sapkowski, primo capitolo della serie di The Witcher. Conoscevo in parte le vicende dello strigo Geralt di Rivia attraverso il videogioco (che non ho mai finito, non sono un abile videogiocatore) e in questa raccolta di racconti ho ritrovato le stesse atmosfere. Sapkowski è un abile narratore che non si perde in lunghe descrizioni del mondo nel quale si muove Geralt ma si concentra piuttosto sull’intreccio e sui personaggi che sono spesso ambigui e ben delineati. Lo stesso Geralt non è il perfetto eroe d’azione e ma preferisce usare prima la testa della spada. Mi hanno sorpreso i numerosi riferimenti alle fiabe classiche, ben nascosti in un’ambientazione decisamente poco fiabesca. Un fantasy nel quale non mancano scene forti, linguaggio volgare e qualche momento divertente. Era quello che cercavo in un fantasy. Credevo in qualcosa di più classico e invece Sapkowski ha saputo mettere su carta un fantasy molto più interessante. Pare che questo libro sia molto diverso dai successivi che per ora dovranno aspettare. Tornerò sulle tracce di Geralt appena ne avrò voglia.

Sono sempre scettico riguardo un certo tipo di letteratura italiana ma le ottime recensioni che avevo letto riguardo Le ripetizioni di Giulio Mozzi. Difficile scrivere qualcosa riguardo questo romanzo. I suoi capitoli sono frammenti di memoria, quasi tutti del protagonista Mario, spesso in bilico tra realtà e fantasia. Mario vive tre vite o almeno così sembra, tutte raccontate senza ordine cronologico e, a volte, nemmeno logico. Al di là di questo, volto a generare una sensazione di smarrimento nel lettore, il romanzo si sofferma troppo sulle vicende morbose dei suoi personaggi. Le pratiche estreme sembrano nascere dal nulla, non hanno una genesi che in qualche modo le giustifichi. L’autore non riesce a creare empatia tra i personaggi, a cominciare proprio da Mario, e il lettore, nonostante l’ottima scrittura. Il suo stile è scorrevole e brillante ma diventa indigesto nel capitolo “Una lettera” e in quelli successivi, con continue ripetizioni (appunto) e un paranoico soffermarsi su dettagli inutili. Non so se Mozzi voleva suscitare disgusto o liberare le sue fantasie perverse ma, questo dubbio è la sola cosa che alla fine mi è rimasta del romanzo. Nient’altro. Non un libro per tutti, questo è certo.

Ho voluto spazzare vie le brutture del precedente libro, gettandomi in qualcosa di decisamente fantasioso, ma per me ignoto, come Tito di Gormenghast di Mervyn Peake. Ebbene, ci sono autori in grado di fare uscire i personaggi dalle pagine in cui sono stati rinchiusi e Peake è uno di questi. Questo primo capitolo della trilogia di Gormenghast è bizzarro, grottesco. La scrittura di Peake è straordinaria, le sue descrizioni dei protagonisti sono incredibili. Il loro aspetto sembra uscito da un cartone animato ma è così minuziosamente riportato, anche più volte ma in modi sempre diversi, da risultare verosimile. Si alternano momenti divertenti ad altri drammatici. Alcuni tesi e scorrevoli (lo scontro finale tra Sugna e Lisca ad esempio) altri lenti e forse un po’ superflui (i capitoli di Keda). Ma il microcosmo di Gormenghast vive nella scrittura di Peake, nella sua prosa ricca ma mai inutilmente prolissa che compensa alcuni passaggi lenti e ridondanti. La nascita Tito sconvolge le abitudini e le tradizioni del castello, scuotendo le sue fondamenta anche per colpa dell’abile Ferraguzzo, uno dei personaggi più enigmatici del romanzo. Una storia senza tempo, una vera sorpresa almeno per me.

Ancora un altro libro, ep. 8

Prima che finisca anche questo anno mi sembra doveroso dare spazio anche alle mie letture. Questa rubrica infatti è ferma dallo scorso maggio e mi sembra il momento adatto per ricapitolare qui tutti i libri che ho letto da allora.

Cominciamo con Il diavolo e l’acqua scura di Stuart Turton che ci porta nel 1634 a bordo della misteriosa Saardam, una nave mercantile diretta ad Amsterdam. Dopo l’ottimo Le sette morti di Evelyn Hardcastle non vedevo l’ora di buttarmi su questo romanzo, il secondo dell’autore. Anche se potrebbe sembrare un giallo storico, la ricostruzione storica è appena accennata, per stessa ammissione dell’autore, in modo da concedere più spazio a trama e personaggi. Turton riesce sempre a creare una tensione costante nei suoi romanzi, disseminando indizi e intrecciando le vite dei vari protagonisti. Tutto molto bello se non fosse che l’impianto narrativo messo in piedi dall’autore si sofferma spesso su alcuni dettagli e lascia tempo al lettore di ragionare troppo sulla soluzione del mistero. Questo smorza la sorpresa finale, che di fatto arriva in anticipo se si escludono man mano i possibili sospettati. Va dato atto però a Turton di non lasciare nulla al caso e sono sicuro che saprà migliorarsi nei prossimi romanzi.

Il filo della spada è quarto capitolo delle avventure di Uhtred durante la nascita del regno d’Inghilterra. Bernard Cornwell è un grande narratore che questa volta lascia più spazio alla fantasia. Un’ambientazione meno vasta rispetto al solito e un obiettivo chiaro, rendono questo romanzo scorrevole e appassionante. Nuovi personaggi e vecchie conoscenze si alternano mantenendo alta la qualità di questa saga. Non vedo l’ora di continuare a seguire le avventure di questo signore della guerra, sempre diviso tra re Alfredo e il richiamo degli dei pagani.

Al mio radar dei classici gotici, per qualche motivo, è sempre sfuggito Il monaco di Matthew Gregory Lewis. Romanzo del 1796, ricco di tutte le caratteristiche del genere gotico. Fantasmi, demoni, tentazioni e cripte ammuffite fanno da sfondo alla torbida storia del monaco Ambrosio. Lewis riserva diversi capitoli agli altri personaggi che girano attorno a Lorenzo, i buoni della storia, e per un attimo ti fa credere che forse stai leggendo il libro sbagliato. Ma poi riprendono le vicende del monaco e tutto torna. Lettura scorrevole, anche grazie alla traduzione, cosa non scontata per un’opera di fine ‘700, con vivide descrizioni degli aspetti più macabri. Ma quando si parla di sesso, molto è lasciato all’immaginazione. Ritmo serrato e ben congegnato che ti tiene incollato fino al diabolico finale. Peccato per le parti in versi che non aggiungono nulla alla storia anzi spezzano inutilmente la narrazione e sembrano più un spot per l’autore che vuole vendersi come poeta.

Prosegue la mia avventura nella saga de La Spada della Verità di Terry Goodkind che vede sempre protagonisti Richard e Kahlan con l’aiuto del mago Zedd. Il tempio dei venti è poco vario nelle ambientazioni e comunque alcune di questa già viste in precedenza e soprattutto piuttosto lento rispetto agli altri. Kahlan a volte va in paranoia e Richard sembra tanto risoluto ma basta poco per fargli cambiare idea. La storia è piuttosto debole ma resta comunque una lettura piacevole. La violenza gratuita rende questo fantasy adulto anche se il linguaggio usato da Goodkind non sconfina mai nel volgare. E non ne capisco sinceramente il perché. Incredibile ma vero nell’edizione italiana manca un intero capitolo ma non preoccupatevi, non si nota nemmeno. Questo è chiaramente un segno che il romanzo ha qualche pagina di troppo comunque.

I Wu Ming con L’armata dei sonnambuli danno il meglio in questo romanzo storico ambientato nei primi anni della rivoluzione francese. Tre protagonisti, le cui storie convergono nei capitoli finali, e un antagonista, si muovono in una Parigi instabile e confusa. Ci sono momenti horror vagamente paranormali, scene d’azione e le immancabili riflessioni sociopolitiche, il tutto intervallato da documenti, articoli di giornale e gazzettini vari. Divertenti i resoconti sgrammaticati ma genuini di chi “in piazza c’è stato davvero”. Forse un’introduzione alla situazione in Francia sarebbe stata d’aiuto per districarsi tra le varie fazioni ma si può porre rimedio comunque per proprio conto. Come al solito i Wu Ming mostrano l’altra faccia della Storia, supportati da una documentazione a volte esile ma ricca di fascino e mistero, senza disdegnare scene di puro intrattenimento.

Primo libro di DeLillo che leggo dopo averlo sentito associare a David Foster Wallace. In Rumore bianco ho notato delle somiglianze tra i due ma DeLillo fa uso dell’ironia più raramente, limitandola alle situazioni più grottesche. Un romanzo raccontato in prima persona, fatto di episodi e salti temporali brevi ma frequenti. L’autore sembra scegliere le parole una per una, senza lasciare nulla al caso. Un romanzo che parla di morte, ne è pervaso dalla prima all’ultima riga. Questo perché il protagonista ne è terrorizzato e non riesce a smettere di pensare ad essa. Più si va avanti nel racconto e meno trovano spazio le battute un po’ nonsense del postmodernismo, a beneficio di un ritmo più serrato. Non un libro semplice da leggere ma sicuramente ricco di spunti di riflessione. Mi sono rivisto spesso nei pensieri e nelle idee del protagonista e un po’ mi ha fatto impressione. Leggerò senza dubbio altro di DeLillo.

Da parecchio tempo non leggevo Deaver e La scimmia di pietra è una delle prime indagini di Lincoln Rhyme che mi ero lasciato indietro. Ne ho letti molti ma questo non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto. Ho intuito il principale colpo di scena con largo anticipo ma la spiegazione di Deaver lascia qualche buco e il resto è poco credibile. La prevedibile imprevedibilità di questo autore non è un meccanismo perfetto e ogni tanto si inceppa. Resta una lettura piacevole e tornerò di nuovo sulla scena del crimine con Linc e Amelia.

Una cosa divertente che non farò mai più è il reportage di David Foster Wallace a bordo un una crociera superlusso ed è irresistibile. Tutto il talento di questo scrittore condensato in poche ma divertenti pagine che raccontano la sua esperienza in modo lucido e dettagliato. Sono molti i passaggi che strappano una risata sincera. La capacità di DFW di scrivere di ogni cosa che gli passa davanti a gli occhi e per la testa con una facilità disarmante ed efficacia, è sorprendente. Difficile comprendere cosa sia stato “romanzato” e cosa no ma la mia idea è che la penna di questo autore sia più vera del vero e anche questa volta, nella sua superficiale leggerezza, sia riuscita a scavare nella profondità dell’animo umano e della cultura americana e occidentale. Consigliato a chi vuole scoprire lo stile di DFW senza impegno.

Con Le creature del buio – Tommyknockers, Stephen King si dà alla fantascienza ma senza rinunciare al suo immaginario horror. Perfetta come sempre la costruzione dei personaggi che popolano Haven, anche se in un paio di occasioni si dilunga troppo e inutilmente. King riesce a rendere verosimile perfino una storia che racconta di dischi volanti, arricchendola di dettagli. Gli alieni ci sono ma non si vedono mai per davvero e l’idea della mutazione è ben congegnata. Lettura scorrevole come di consueto per King anche se lui stesso lo considera il peggiore dei suoi. Il finale un po’ assurdo e sopra le righe toglie un po’ di magia ma poco male, c’è tanto di buono in questo libro.

Ancora un altro libro, ep. 7

Non è passato molto tempo dall’ultima volta che ho pubblicato un post riguardo alle mie letture. Infatti nel frattempo ho letto solo due libri ma entrambi meritano due parole. In particolare il primo di questi ovvero, Gli inganni di Locke Lamora (The lies of Locke Lamora) di Scott Lynch. Primo della serie dei Bastardi Galantuomini, è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 2006 e sono previsti altri sei volumi. La pubblicazione in Italia è stata travagliata ma lo scorso anno la Mondadori ha dato nuova vita ai primi tre capitoli, il quarto sarà pubblicato in lingua originale alla fine di quest’anno. Come potete notare, tra la pubblicazione del primo, Gli inganni di Locke Lamora appunto, e il successivo I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies), passa solo un anno ma ci vorranno ben sei anni prima di poter leggere La repubblica dei ladri (The Republic of Thieves). Scott Lynch ha dovuto affrontare diversi problemi personali che hanno rallentato la realizzazione delle opere, compreso l’ultimo romanzo The Thorn of Emberlain che uscirà a quattro anni di distanza dal precedente.
Vi starete chiedendo quindi come è questo Gli inganni di Locke Lamora. Innanzi tutto si potrebbe definire un fantasy. Ma è finalmente un fantasy dove il protagonista, Locke Lamora, non è un eroe che deve salvare il mondo, dove non c’è una netta distinzione tra male e bene e dove la magia non è onnipresente. Ci sono maghi ma un po’ diversi dal solito. Molto permalosi, vendicativi e anche parecchio costosi. La particolarità dello stile di Lynch è l’uso di toni adulti, con un linguaggio carico di parolacce, con un uso frequente di violenza fisica e verbale, ma sempre con una vena di ironia nera. Tutto ciò può piacere a molti e dare fastidio ad altri. Per certi versi può ricordare un po’ lo stile tarantiniano, per intenderci. Lo stesso Locke non è un personaggio per bene e, anche se appare simpatico e affabile, è disposto a tutto pur di salvarsi la pelle e guadagnarci sopra qualche moneta. Perché Locke è prima di tutto un abile ladro e truffatore e insieme ai suoi Bastardi Galantuomini mette a segno colpi mirabolanti. Jean Tannen è abile con le armi (ma anche senza), i gemelli Calo e Galdo Sanza sono ottimi in tutto e il giovane Cimice deve imparare ancora molto ma non gli manca certo il coraggio.
All’inizio va tutto per il verso giusto al nostro Locke Lamora e ai suoi compagni. La truffa al ricco Don Lorenzo Salvara inizia nel modo migliore ma la presenza nella città di Camorr del misterioso Re Grigio rovina i piani della banda. Camorr, appunto. Lynch pone i protagonisti in una simil Venezia settecentesca, dove si trovano tracce di una civiltà antica che costruiva tutto con un vetro indistruttibile. Gli uomini che la abitano hanno perso ogni conoscenza di quel periodo e vivono in un mondo più simile al nostro. L’autore crea tutta una mitologia, una religione originale e curiosa, fatta di numerose divinità. Spesso ci sono brevi digressioni che spiegano il contesto sociopolitico nel quale si muovono i personaggi senza mai approfondire troppo per non risultare noioso. I capitoli che raccontano la storia principale sono intervallati da flashback sulla gioventù di Locke Lamora e dei suoi colleghi e spesso influenzano la trama successivamente.
Quando iniziano i problemi e troppe cose mettono i bastoni tra le ruote alla Spina di Camorr (così è soprannominato Locke) si fa fatica a staccarsi dalle pagine grazie a colpi di scena del tutto inaspettati. Preparatevi perché succede di tutto. Non aggiungo altro per non rovinarvi il piacere della lettura, se non che la scrittura di Lynch, supportata da una traduzione più che ottima, è moderna e scorrevole, infarcita di parole desuete e altre del tutto inventate. Non vedo l’ora di leggere il secondo libro e scoprire qualcosa di più sui personaggi rimasti in secondo piano.

L’altro libro è La lunga marcia di Richard Bachman ovvero niente di meno che Stephen King. Lo pseudonimo fu creato da King nel tentativo di vedere se il suo successo era legato alle sue storie o semplicemente al suo nome. Non riuscì mai a scoprirlo dato che fu smascherato troppo presto (colpa dei diritti d’autore a suo nome) ma i numeri, piuttosto scarsi per Bachman sono a sostegno più della seconda ipotesi. Questo è il secondo romanzo a nome Bachman, il primo Ossessione, è stato ritirato dal mercato per volontà dello stesso King a seguito di alcuni episodi di violenza forse legato ad esso o forse no. La lunga marcia è stato pubblicato per la prima volta nel 1979 ma è stato scritto tra il 1966 e il 1967, otto anni prima dell’esordio di King con Carrie.
Cento ragazzi partecipano ad una logorante marcia che parte dal confine del Maine con il Canada per arrivare fino a Boston, a meno che non rimanga un solo concorrente. Sì perché chi rallenta, commette infrazioni previste dal regolamento viene prima ammonito tre volte, poi “congedato” ovvero fucilato sul posto da inflessibili soldati. Alla fine il vincitore avrà un sacco di soldi e un imprecisato Premio. Ovviamente ci troviamo negli Stati Uniti ma diversi da come li conosciamo. Sembra esserci un regime militare che non viene mai approfondito dall’autore. In realtà sono tanti i punti oscuri di questo romanzo. Quello che conta è la marcia. La scelta di King di raccontarla dal punto di vista di Ray Garraty, un giovane concorrente, lascia pochi dubbi su come vada a finire.
King riesce a dare forma ad un vero proprio incubo al quale prendono parte dei ragazzi incoscienti della loro scelta. La tensione è sempre alta e sembra di partecipare con loro a questa logorante “passeggiata” che porterà i concorrenti a reagire in modi diversi. Chi si arrende e accetta la morte, chi non vuole mollare e in un certo senso “muore”, annullando sé stesso, spegnendosi lentamente. Non c’è alternativa, o cammini e vinci o muori. Ottima quest’idea di base e la scelta di non approfondire il contesto nel quale si svolge la competizione, lasciando al lettore la libertà di immaginarsi questi Stati Uniti distopici e la natura del Premio. Ma si tratta pur sempre di un King acerbo, che perde la bussola nel capitolo finale, accelerando troppo e senza motivo. Tutti sanno che il Re ha qualche problema con i finali e questo è il più enigmatico dei suoi letti finora. Ho girato l’ultima pagina credendo di trovare il resto ma era completamente bianca. Forse una vera conclusione avrebbe deluso comunque ma vale lo stesso la pena di leggerlo, consapevoli che King ha scritto di meglio. Conta di più il viaggio che la meta.

Ancora un altro libro, ep. 5

Nello scorso episodio mi sono dilungato riguardo al romanzo Il Signore delle Mosche di William Golding, analizzando quello che, secondo me, era poco convincente. In seguito ho letto altri libri che mi hanno decisamente più soddisfatto. Partiamo dal Beowulf tradotto in prosa nientemeno che dal professor John R.R. Tolkien. Il poema originale, in inglese antico, è stato scritto, probabilmente, intorno al 700 da un poeta tuttora anonimo. Solo una copia è giunta fino a noi ed è all’incirca dell’anno 1000. Sono diverse le difficoltà per chi si volesse cimentare nella traduzione di questo poema epico che sfrutta l’allitterazione e non le rime, come si potrebbe pensare. Uno: l’inglese antico è una lingua piuttosto oscura perché sono rimasti davvero pochi testi scritti. Tolkien ovviamente è un esperto ma anche lui ha avuto non poche difficoltà con la traduzione. Due: l’unica copia manoscritta al mondo è stata gravemente danneggiata dall’incendio della Cottonian Library che la conservava nel 1731. Alcune pagine sono pressoché illeggibili. Tre: Nel corso dei secoli chissà quante volte il Beowulf (titolo assegnato solo in tempi recenti) è stato copiato, passando di amanuense in amanuense. Qualcuno, su consiglio di qualche poeta successivo all’originale, ha aggiunto o modificato qualcosa, credendo di fare cosa gradita. Inoltre alcuni copisti è probabile che non comprendessero appieno l’inglese antico e si sono presi la libertà di correggere quelli che secondo loro erano errori. Dunque il buon Tolkien affronta un’impresa che non a tutti è riuscita appieno e non manca certo di farlo notare ai colleghi che lo hanno preceduto. Questo libro non nasce come tale ma è opera del figlio Christopher che ha raccolto tutto il materiale del padre che riguardava il poema. Lezioni, appunti, disegni e ovviamente la traduzione divisa in tre documenti che a volte si contraddicono tra loro. Christopher Tolkien però fa un ottimo lavoro regalandoci una versione in prosa scorrevole. Le note al testo sono molto interessanti e curiose anche se a volte un po’ troppo tecniche. In aggiunta c’è anche il Racconto Meraviglioso, una riscrittura della storia di questo eroe fatta da J.R.R. Tolkien e ricavata dalle informazioni estrapolate dal testo ed epurata dalle numerose leggende storiche che la pervadono. Lettura consigliata ma non per tutti. Alcuni passaggi del poema risultano confusi, quasi incomprensibili. Non per colpa delle difficoltà di traduzione ma perché il nostro Beowulf fa parte di una più ampia tradizione leggendaria che è andata perduta. L’autore del poema fa accenni a personaggi e ad eventi che per noi oggi sono del tutto sconosciuti ma allora dovevano essere ben noti. Non preoccupatevi quindi se qualche passaggio non vi sarà chiaro, anche per Tolkien è stato così.

Poi sono passato ad una lettura più leggera, ovvero La stirpe dei fedeli di Terry Goodkind, terzo volume della saga fantasy de La spada della verità. Come nei due capitoli precedenti questo autore mette in scena una storia scorrevole e ricca di fantasia. Non ci si annoia mai. Non ci sono lungaggini o descrizioni minuziose ma tanti dialoghi e azione. Questa volta Richard deve affrontare la duplice minaccia della Stirpe dei Fedeli e dell’Ordine Imperiale guidato dal temibile Jagang. Ovviamente non mancano la Madre Depositaria Kahlan e il mago Zedd, sempre coinvolti in situazioni complicate con poche vie d’uscita. Devo però ammettere che questa volta ho trovato un po’ confusi alcuni passaggi temporali e qualche contraddizione. All’interno del Palazzo di Profeti il tempo scorre più lentamente ma non sempre questa cosa viene presa in considerazione né sfruttata a dovere dal buon Goodkind. Inoltre la distanza dalle Terre Centrali al Vecchio Mondo richiede a volte un lungo viaggio altre volte no (espedienti magici a parte). L’intreccio è più debole rispetto ai due libri precedenti ma introduce nuovi sviluppi per i successivi volumi, lasciando diverse questioni in sospeso. Non sono un fanatico dei fantasy ma non posso nascondere che la pagine volano via una dopo l’altra con sorprendete facilità.

Infine è stato il turno di David Foster Wallace e il suo romanzo d’esordio intitolato La scopa del sistema. L’autore americano anticipa molte delle particolarità che caratterizzeranno il suo capolavoro Infinite Jest, che ho letto un paio di anni fa. Le situazioni assurde, i personaggi bizzarri e complessati, i dialoghi fiume, le storie nella storia, i capitoli slegati dalla trama principale ecc. Lenore Beadsman è una protagonista che subisce l’iniziativa degli altri e viene risucchiata dagli eventi senza riuscire a fare nulla per impedirlo. Il finale in questo senso è emblematico. La fantasia di DFW è senza freni e ti incanta con le parole (notevole la traduzione) e il potere della parola è al centro romanzo, così come la scomparsa della bisnonna di Lenore, anch’essa Lenore di nome. Una figura curiosa che non compare mai direttamente del romanzo ma sembra essere l’artefice di tutto ciò che accade (o forse no). I dialoghi tra Lenore (nipote) e il suo quasi findanzato Rick Vigorous sono incredibilmente brillanti, così come le trascrizioni delle sedute di entrambi con lo psicoterapeuta Dr. Jay Curtis (e le sue brecce e membrane). Sono decine i personaggi che si alternano in questo romanzo e tutti hanno qualcosa di strano, nel loro comportamento e del loro aspetto, e tutti indimenticabili. I dialoghi sono semplicemente perfetti, cinematografici, scorrevoli. Un viaggio che si rivela senza meta ma un gran bel viaggio. Consigliato a chi vuole affrontare David Foster Wallace per la prima volta, evitando così il ben più folle (e lungo) Infinite Jest.