Cinque colpi delle dita, ep. 10

Dopo una breve pausa riprendo a scrivere su questo blog. E lo faccio riprendendo una rubrica che giace in attesa da un anno. Qui di seguito qualche breve consiglio cinematografico sui film che ho visto negli ultimi dodici mesi.

Richard Jewell – Una storia vera di un responsabile della sicurezza che sventa un attentato, scoprendo una bomba in uno zaino. Qualcosa non torna però e lui stesso viene accusato di aver piazzato l’esplosivo. Eastwood espone i fatti e lascia aperta la questione con maestria. Un ottimo film che ha dell’incredibile. Voto 8
Il ritorno dell’eroe – Commedia degli equivoci belga/francese in costume. Questo genere di film mi piace e il cast è ottimo, anche troppo. Perfetto per farsi due risate senza pensieri. Voto 7
Il silenzio degli innocenti – Classicone che non avevo mai visto. Che dire, non mi ha impressionato come avrebbe dovuto. Ammetto che all’epoca dovesse essere stato qualcosa di eccezionale ma oggi risulta un po’ prevedibile e, francamente, anche un po’ improbabile, soprattutto in alcune scene. Voto 7
Il domani tra noi – Una coppia di sconosciuti rimane vittima di un incidente aereo sulle montagne innevate. Il resto potete immaginarlo come pure il finale. Idris Elba e Kate Winslet sono male assortiti e il film non gira come dovrebbe. Voto 6
Una notte in giallo – Commedia leggera anzi leggerissima con Elizabeth Banks. Credevo peggio, una di quelle cose demenziali made in USA. Invece di lascia guardare e a tratti diverte ma niente di memorabile. Non lo rivedrei. Voto 6
Maria regina di Scozia – Saoirse Ronan e Margot Robbie tengono in piedi un film altrimenti poco accurato e affetto da qualche intrusione del politicamente corretto. In generale non è malvagio, soprattutto per i costumi e le scenografie. Voto 7
Ghostbusters: Legacy – Non è mai facile fare un seguito ai film di culto, entrati a far parte dell’immaginario collettivo. Ma qui in qualche modo ci sono riusciti, dando anche il giusto collocamento agli attori originali, perfino allo scomparso Harold Ramis. Un film che fa leva sull’effetto nostalgia ma che funziona bene e diverte. Voto 8
L’uomo sul treno – C’è Liam Neeson e quindi è già chiaro cosa succederà. Questa volta è su un treno di pendolari che vedranno la loro routine sconvolta. Insomma c’è Neeson. Serve altro? Voto 6
Jungle Cruise – Prendete Dwayne Johnson ed Emily Blunt e una vagonata di CGI. Piazzateli nella foresta Amazzonica alla ricerca di un fiore miracoloso. Aggiungete un po’ di idee dai Pirati dei Caraibi, qualche colpo di scena e il film è servito. Ci si diverte, tutto funziona a dovere, basta non farsi troppe domande. Voto 7
Don’t Worry Darling – Ero curioso di vedere questo film per il mistero che la storia sembrava riservare. Ma qualcosa non funziona. Tutto inizia ad andare a rotoli troppo presto e lo spettatore, che vuole il colpo di scena, deve aspettare troppo a lungo per avere ciò che vuole. Sì, c’è un idea interessante ma resa con fin troppi buchi di sceneggiatura e una massiccia dose di moralismo. Florence Pugh prova a colmare il vuoto ma non può fare tutto da sola. Voto 5
Babylon – Quando un film fa discutere, lo devo vedere. Questo è cinema, punto. Un cast stellare, scenografie e musiche impressionanti. Un’opera mastodontica che ci racconta l’ascesa del sonoro nel cinema e il declino dei film muti. Qualche eccesso di troppo ma è quel tipo di eccesso che è pura meraviglia. Forse un capolavoro incompreso? Voto 9
Blonde – L’altro film discusso e discutibile è proprio questo che racconta la vita di Marylin Monroe, che io conoscevo poco. Togliamo per un momento le scene più scandalose, i nudi frequenti e la dubbia aderenza ai fatti reali. Resta un film di grande impatto, sia artistico che emotivo. In un certo senso mi ha sorpreso positivamente. Ana De Armas è forse la Monroe più somigliate all’originale mai vista su uno schermo. Voto 7
Everything Everywhere All at Once – Avevo grandi aspettative per questo film. La mia curiosità era alle stelle. In parte è stato quello che immaginavo, un tripudio di visioni fantastiche e folli. Il problema è che tutto è rigidamente inserito in un contesto famigliare che porta ad un finale già visto e che poco ha a che fare con il resto del film. Non mi spiego come possa aver dominato agli Oscar. Non è male ma non lo rivedrei. Anche perché se lo rivedessi noterei ancora di più le incongruenze e i buchi di sceneggiatura. Voto 7
La mosca – Ho visto o forse rivisto questo classico di Cronenberg, di un epoca nella quale i film duravano ancora 90 minuti. Ispirato ad un fumetto ed ad altri adattamenti, racconta la storia di uno scienziato che accidentalmente fonde il suo DNA con quello di una mosca. Trasformazioni corporali, deformazioni e disgusto sono il sale dei film di questo regista. Un applauso per gli effetti speciali “reali”. Voto 7
Amsterdam – Un perfetto esempio dove sono ancora gli attori protagonisti a tenere in piedi una sceneggiatura traballante e noiosetta. Si vuol far ridere o quanto meno sorridere ma qualcosa non va. Troppo lungo, denso e verboso. Ci si perde anche un po’. Un peccato davvero. Aveva il potenziale per essere un gran bel film. Voto 6
X – Quasi un horror, quasi una parodia di un film horror. Insomma non un granché. Tutto prevedibile, a tratti divertente ma un po’ spinto, ma è tutto qui. Credevo in qualcosa di più originale. Voto 6
Nope – Ogni film di Jordan Peele è un enigma. Qui un po’ meno. Il film regge bene lungo tutta la sua durata, inserendo anche una vicenda parallela collegata solo in parte alla storia originale. Mi è piaciuto ma non è per tutti gusti. Voto 8
Triangle Of Sadness – Una crociera per ricchi si rivela un totale disastro. Non c’è occasione migliore per fare un po’ satira e mettere alla berlina la borghesia moderna. Un film interessante dal finale inaspettato e che fa riflettere. La durata di due ore e mezza non si fa sentire troppo. Voto 8
Titane – Dunque, c’è una donna con una piastra di titanio in testa. Uccide per chissà quale motivo. Ad un certo punto rimane incinta di un’automobile. Sì, avete letto bene. Braccata dalla polizia decide di fingersi un ragazzo. Da qui in poi è un susseguirsi di vicende poco credibili (come nascondere completamente una gravidanza di nove mesi con una fascia). Ah ma ha fatto sesso con un auto! Allora vale tutto. Voto 5
Glass Onion – Quasi meglio del primo film. Credevo di trovarmi di fronte ad un giallo cervellotico e invece no. Ben congegnato e divertente. Un altro cast stellare che rende tutto molto godibile e colorato. Un film leggero che ti fa passare una serata insieme al geniale Beniot Blanc. Voto 7
Omicidio nel West End – Molto meglio il titolo originale See How They Run che richiama il tema del film. Ovvero visto un giallo, li hai visti tutti. Da qui l’idea di un giallo divertente che rompe gli schemi con la coppia Sam Rockell e Saoise Ronan in perfetta sintonia. Nel finale ho creduto che si sarebbe ribaltato tutto ma fortunatamente non è stato così ed è un bene. Sarebbe stato troppo geniale ma difficile da tenere in piedi. Lo rivedrei oggi stesso. Voto 8

Ancora un altro libro, ep. 14

Mi sono accorto che l’ultimo episodio di questa rubrica risale addirittura allo scorso febbraio. Credo sia arrivato il momento di riassumere qui le mie letture più recenti.

Cominciamo con La ragazza dai capelli strani, breve raccolta di racconti in cui possiamo ammirare il talento, ancora acerbo, di David Foster Wallace e la sua capacità di analisi della società moderna. Ogni racconto ha un tono e uno stile diversi, spesso con una struttura frammentata, con continui cambiamenti nel punto di vista e persino della forma. Nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, lo stile di questo autore continua ad essere innovativo e sorprendente. I periodi lunghissimi, le continue associazioni mentali e le situazioni assurde e geniali sono le caratteristiche che più emergono dalla sua lettura. Sotto la superficie c’è la volontà di Wallace di dare forma ai pensieri più complessi senza rinunciare alla sua visione lucida del mondo nel quale viviamo, una visione che è ha anticipato i tempi. Se cercate racconti con una trama ed un finale, in questa raccolta, non ne troverete nemmeno uno.

Decisamente una lettura più leggera quella de La spada del destino, ovvero il secondo volume della saga dello strigo Geralt di Rivia. Si tratta ancora una raccolta di racconti ma a differenza del primo, ho trovato questo un po’ meno avvincente. Nei tre primi racconti lo strigo non ha un ruolo attivo all’interno della storia, è uno spettatore al pari di alcuni personaggi secondari, pure poco caratterizzati. Nei successivi tre invece, Geralt mette finalmente mano alla spada e rende giustizia al suo ruolo. Una raccolta divisa in due metà, una trascurabile e un po’ lenta, e l’altra più convincente e in linea con lo spirito della saga mostrato finora. Indubbiamente Andrzej Sapkowskici sa fare, il suo stile è diretto e asciutto, con una particolare attenzione ai dialoghi. Forse solo le vicende amorose tra Yennefer e Geralt risultano, a volte, un po’ stucchevoli e fuori luogo. Non mi resta che scoprire cosa riserva il primo romanzo della saga.

Solo Stephen King poteva scrivere un romanzo su di un’automobile assassina senza essere banale e grottesco. Non sapevo cosa aspettarmi da Christine ma ha saputo sorprendermi anche questa volta. Nella prima parte King definisce i personaggi, i rapporti che li legano e il contesto nel quale vivono la loro vita serena. Finché il giovane Arnie non sceglie Christine. Nella seconda parte tutto cambia e si entra in un susseguirsi di eventi che sembra impossibile da fermare. Il male che continua oltre la vita e non conosce riposo. Il passato che apre vecchie ferite e il futuro incerto dei giovani protagonisti. Il finale riserva delle sorprese nel perfetto stile di questo autore, evitando spettacolari colpi di scena. Senza dubbio tra i migliori romanzi di questo autore che ho letto finora e consigliato anche a chi vuole iniziare a scoprire il Re.

La repubblica dei ladri è terzo capitolo della saga dei Bastardi Galantuomini e quello nel quale facciamo finalmente la conoscenza di Sabetha, personaggio fin qui solo nominato. Scott Lynch ci racconta anche di più sul passato di questa banda di ladri, svelandoci l’episodio del teatro già citato nei libri precedenti. Nel frattempo ritroviamo Locke e Jean impegnati nelle elezioni nella città dei maghi. Forse queste elezioni sono un pretesto un po’ debole per portare avanti la storia, soprattutto perché non è chiarissimo il ruolo dei due protagonisti, ma alla fine si spiega tutto o quasi. Questo romanzo appare più come un prologo per quello che seguirà. Il colpo di scena finale, infatti, apre a nuovi e inquietanti sviluppi. L’unico modo per scoprire quali saranno è leggere il prossimo The Thorn of Emberlain che però è in attesa di pubblicazione da dieci anni.

La battaglia di Ravenspur, il finale della quadrilogia della Guerra delle Due Rose, è quanto ci si poteva aspettare dopo il deludente terzo volume. Conn Iggulden non riesce a dare forma al romanzo che diventa così in una sorta di docufilm, dove alcune parti sono caratterizzate da dialoghi e azione, altre, più frequenti, non sono altro che una voce fuori campo che riassume velocemente i fatti più salienti. La sensazione è che l’autore non avesse le idee ben chiare e questo a portato all’assenza di una struttura, con personaggi poco caratterizzati e approfonditi. Le riflessioni dei protagonisti sono spesso ripetitive e alla lunga annoiano, dando l’impressione che servano solo ad riempire qualche pagina in più. La gran quantità di personaggi che hanno preso parte a questo conflitto, durato trent’anni, forse avrebbe meritato ben più di quattro libri o, in alternativa, un solo libro meno dettagliato ma più chiaro di quello che ha realizzato Iggulden. Questa serie di libri si è rivelata una delusione, soprattutto dopo i primi due buoni volumi. Non entro nel merito della fedeltà ai fatti storici che sono esposti nella nota storica in chiusura ma, a ben vedere, riassume, in una decina di pagine e in modo più chiaro, le altre centinaia appena concluse. Nota a margine: il titolo italiano è fuorviante. Non c’è stata nessuna battaglia a Ravenspur, anche se ha un ruolo centrale nelle vicende. Molto meglio il titolo originale: Wars of the Roses. Ravenspur: Rise of the Tudors.

Ancora un altro libro, ep. 13

Ecco il consueto appuntamento con una veloce recensione dei libri che ho letto negli ultimi mesi. Alcuni ottimi e altri un po’ meno.

Black Jesus. The anthology di Federico Buffa è una raccolta di aneddoti sul mondo della pallacanestro USA infarciti di termini gergali, nomi noti, altri meno, soprannomi e curiosità varie. Incomprensibile per chi non mastica un po’ di basketball. Fortunatamente non è il mio caso, altrimenti mi sarei trovato ancora più spaesato. Lo stile di Buffa è difficile da seguire su carta, spesso e volentieri si perde il filo. Mi sono ritrovato a rileggere più volte le stesse righe nel tentativo di capirne il significato. A tutto questo si aggiungono numerosi refusi (mai visti così tanti in un libro solo!) e ripetizioni inutili. Sarebbe bastato un minimo di editing, indicare almeno l’anno in cui è stato scritto ciascun capitolo e rivedere lo stile di scrittura per ottenere un libro tutto sommato godibile e interessante. Invece, così com’è, è francamente illeggibile.

Con la raccolta di racconti Scheletri, King si conferma essere un abile narratore anche quando lo spunto per una storia si dimostra un po’ debole. Quando questo autore sceglie di condensare la sua fantasia in poche pagine, viene a mancare la profonda caratterizzazione dei personaggi, caratteristica fondamentale dei suoi romanzi. Inoltre è in raccolte come questa che emergono, in maniera più evidente, le influenze di autori come Lovecraft (La nebbia, La scorciatoia della signora Todd, La nonna) e Poe (L’uomo che non voleva stringere la mano, L’immagine della falciatrice, Nona). Alcuni racconti sono stati inseriti più per “beneficio di inventario” che per altro ma altri sono dei piccoli capolavori (L’arte di sopravvivere, su tutti). Un’ottima raccolta che offre un’ampia panoramica sullo stile e l’immaginario di Stephen King.

Frank Herbert ha avuto il merito di aver creato un mondo complesso, un vero e proprio universo. Eppure anche in questo terzo volume della saga, intitolato I Figli di Dune, tutto si riduce ad una questione di famiglia. Leto II ripercorre i passi del padre Paul, affrontando pari pari le stesse visioni e facendo le medesime riflessioni anche se con esiti differenti. Gli altri personaggi sono gli stessi di sempre e mettono in piedi complotti e contro-complotti che sono difficili da seguire. Herbert, con il suo stile dico/non dico, non aiuta affatto il lettore nel districarsi tra di essi. Manca empatia con i protagonisti, in particolare con Leto che sa sempre cosa succederà (ma non lo dice a nessuno, anche perché se lo facesse sarebbe inutile continuare a leggere il resto del romanzo). La cerchia ristretta di personaggi rende vani alcuni colpi di scena ed è un peccato, soprattutto quando si ha a disposizione un intero universo. Il ritmo è lento e un buon centinaio di pagine sono di troppo. In definitiva un capitolo che porta avanti le incredibili vicende di Arrakis, appoggiandosi su di un intreccio complesso ma frastagliato, con dinamiche per larga parte prevedibili, salvandosi in un finale che lascia presagire importanti cambiamenti ma non soddisfa appieno.

Se nel primo volume di questa trilogia Mervyn Peake ha costruito il microcosmo di Gormenghast, in questo seguito, intitolato per l’appunto Gormenghast, lo distrugge pezzo dopo pezzo. Dopo una prima parte che ricalca le atmosfere grottesche e bizzarre del suo predecessore, il romanzo prosegue poi su un binario differente, più cupo e malvagio. Il personaggio chiave è Ferraguzzo sempre più disposto a tutto per ottenere il potere. Il giovane conte Tito è un ribelle che mina dall’interno le fondamenta del castello di Gormenghast mettendo a dura prova le solide mura di pietra e i suoi immemorabili rituali. Lo stile di Peake è unico, fatto di descrizioni dettagliate ma mai noiose, dialoghi scorrevoli (sempre divertenti gli scambi di battute tra il dottor Floristrazio e la sorella Irma) e colpi di scena spiazzanti. Non so sinceramente cosa aspettarmi dal terzo capitolo ma anche se non dovesse essere all’altezza di questi primi due, sono contento di essermi perso ancora una volta per gli immensi corridoi e le infinite stanze di Gormenghast.

Cinque colpi delle dita, ep. 9

Agosto è il mese nel quale faccio un’abbuffata di cinema, guardano film vecchi e nuovi che mi appunto durante l’anno. L’ultimo episodio di questa rubrica però risale a quasi un anno fa perciò comincerò dai film visti dallo scorso settembre per darvi qualche consiglio su cosa vedere (o non vedere).

Tolo Tolo – Anche se non posso dirmi un fan di Checco Zalone, credo di aver visto tutti i suoi film. Questo è il peggiore dei suoi. Demenziale nel senso peggiore del termine. In alcuni momenti ho provato imbarazzo. Pessimo. Voto 4
Dark Water – Film che ricostruisce la storia vera di un avvocato che scava a fondo sulla pericolosità del teflon. Potente e ben congegnato che smaschera l’avidità dell’uomo e il suo potere autodistruttivo. Assolutamente da vedere anche se manca un finale vero e proprio, perché la vicenda si trascina ancora ai giorni nostri. Voto 8
Il primo Natale – La comicità di Ficarra e Picone l’ho sempre trovata intelligente e leggera. Qui si sconfina troppo nella fantasia e nell’assurdo, un territorio che indebolisce il duo comico e il buonismo diffuso non aiuta affatto. Non certo imperdibile. Voto 6
Timecrimes – Vi piacciono i viaggi nel tempo? I loop temporali e i paradossi che generano? Allora questo film spagnolo fa per voi. Niente eroi fighi o donzelle dal salvare ma un uomo comune finito in un bel casino. Forse non proprio impeccabile ma da vedere. Voto 8
L’ufficiale e la spia – Roman Polański porta sul grande schermo il romanzo storico di Robert Harris che narra le vicende dietro al celebre “affare Dreyfus”. Un bel film c’è poco da dire. Tutto perfetto e coinvolgente al punto giusto, peccato per un finale debole. Voto 7
A quiet place Part II – Se la prima parte mi era piaciuta questa seconda parte molto meno. Di fatto è come la prima, non cambia praticamente nulla se non l’ambientazione. Sappiamo già come fare fuori gli alieni cattivi, e quindi? I pochi minuti che fungono da prologo dell’intera vicenda salvano un film piuttosto noioso. Voto 5
Benedetta – Tolta qualche scena che ha sollevato qualche polverone e qualche nudità, questo film, basato su una storia vera, non è affatto male come credevo. Forse un po’ ripiegato su sé stesso ma la presenza di Virgine Efira (anagraficamente fuori contesto) vale un voto in più. Voto 6

Eccoci ai film che ho visto questo mese, alcuni davvero ottimi e l’altri decisamente deludenti.
The Green Knight – Dopo aver letto il poema cavalleresco originale, magistralmente tradotto da Tolkien, questo film da cui è ispirato era un passaggio obbligatorio. In generale il film segue la trama del poema ma né ribalta il senso e lo scopo, rivedendo i ruoli dei personaggi all’interno della storia. A livello visivo è eccezionale e coinvolgente, forte al punto giusto e visionario senza confondere lo spettatore. Mi è piaciuto nonostante le divergenze ma si tratta di un film particolare, non per tutti i palati. Voto 7
The Last Duel – Sentivo odore di filmone da chilometri di distanza e il nome di Ridley Scott dice tutto. Cavalieri, dame, duelli, stupri e vendette sono gli ingredienti di un film impressionante. Non oso immaginare quali mezzi sono serviti per ricostruire queste vicende avvenute nella Francia del XIV secolo. Tre punti di vista diversi raccontano la medesima storia. Forse questo può renderlo ripetitivo e lento ma questo film è puro cinema e non un giocattolone d’intrattenimento. Flop al botteghino ingiustificabile. Voto 9
Dune – Ho letto i primi due romanzi della saga di Frank Herbert e sapevo che, se ben fatto, non sarebbe stato un film di pura azione. Infatti non lo è. Purtroppo si tratta di un prologo di due ore e mezza in cui non succede nulla. Ma proprio nulla. Le immagini spettacolari parlano più degli attori, molti dei quali sono poco più che comparse. Non comprendo molto l’entusiasmo intorno a questo film ma forse meglio aspettare la seconda parte prima di trarre conclusioni affrettate. Voto 7
Red Notice – Mi aspettavo un thriller divertente fatto di inseguimenti, zuffe e colpi di scena, con la fisicità di Dwayne Johnson, la simpatia di Ryan Reynolds e la bellezza di Gal Gadot. Quello che ho visto è un thriller divertente fatto di inseguimenti, zuffe e colpi di scena, con la fisicità di Dwayne Johnson, la simpatia di Ryan Reynolds e la bellezza di Gal Gadot. Direi che è tutto ok. Voto 7
Uncut Gems – Siamo abituati a vedere Adam Sandler in commedie spesso di dubbio gusto. Qui si cala perfettamente in un ruolo drammatico, in un film ansiogeno e senza respiro. Una pietra preziosa metterà a dura prova la vita del protagonista, per colpa di un avido Kevin Garnett (proprio lui). Un film originale pieno di parolacce e violenza che lascia una tristezza infinita quanto la bellezza di quel maledetto opale.
Don’t Look Up – Una commedia satirica piena di grandi nomi. Un meccanismo perfetto che si inceppa solo in poche occasioni. Divertente ma anche profondo nel messaggio che vuole trasmettere. Uno specchio su quello che siamo diventati. Alcune scene surreali alleggeriscono il film che altrimenti sarebbe davvero troppo denso di significati. Voto 8
The Northman – Il visionario Robert Eggers ci racconta una storia di vendetta ai tempi dei vichinghi. Niente di originale ma la forza delle immagini, la violenza brutale e lo spiritismo danno vita ad un film coinvolgente e spettacolare. Qualche colpo di scena rende meno banale la strada verso il finale prevedibile. Non un film per tutti i gusti ma merita una visione. Voto 8
Nightmare Alley – Gulliermo del Toro in genere non mi delude ma in questo remake ho trovato davvero poco da salvare. Ottimi gli attori e le scenografie ma la storia è vecchia, prevedibile fin dall’inizio. Dopo mezzora sarei stato in grado di raccontare il resto del film senza sforzo. Una delusione per me che mi aspettavo un film più complesso e cervellotico. Voto 6
Last Night In Soho – Inizia come una commedia questo film di Edgar Wright per poi diventare un film drammatico e infine un horror sanguinoso e vecchio stile. Le atmosfere anni ’60 sono fenomenali e i colpi di scena ben riusciti. Un buon film che intrattiene fino alla fine senza troppe pretese. Voto 7
Fight Club – Ebbene sì, non avevo mai visto questo film culto del 1999 e in questi 23 anni sono rimasto all’oscuro del principale colpo di scena. Ottimo film, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, con riflessioni piuttosto interessanti sulla nostra società e le nuove generazioni. Il plot twist ad un certo punto si intuisce ma non toglie nulla a questo film invecchiato bene (CGI a parte). Voto 8

Cinque colpi delle dita, ep. 8

Durante l’estate ho dedicato un po’ di tempo per recuperare qualche film che negli ultimi anni mi sono appuntato ma non sono riuscito vedere. Qualcuno non è nuovo ma per chi come me non l’aveva mai visto, si tratta pur sempre di un nuovo film.

Per cominciare mi sono buttato su Hustlers – Le ragazze di Wall Street come si fa con gli antipasti. Per farla breve, un gruppo di spogliarelliste si accorda per derubare i vari affaristi che a loro volta derubano la povera gente con le loro manovre finanziarie. Un film ispirato ad una storia vera ma a quanto ho letto anche epurato delle vicende più torbide delle protagoniste. Scelta opinabile ma poco importa. Jennifer Lopez cattura l’attenzione ogni volta che entra in scena (non solo per l’interpretazione più che riuscita.. ehm) e un’ottima Constance Wu le fa da spalla. Passano i minuti e la storia non va da nessuna parte. Non si capisce se c’è una morale di fondo oppure no. Non una commedia, non un thriller, non un film drammatico. Insomma è un film che fa un gran baccano ma si spegne subito. Voto 6

Un piccolo favore invece se l’è cavata decisamente meglio. Commedia thriller molto particolare con protagoniste una carismatica e stilosa Blake Lively e una simpatica ma terribile Anna Kendrick. Due donne diametralmente opposte fanno amicizia ma le cose non sono esattamente come sembrano. Il personaggio della Lively a volte è un po’ troppo sopra le righe ma a lei si può perdonare tutto. Il ritmo è serrato finché la trama non si svela, forse anche troppo presto, lasciando spazio ad un finale un po’ surreale ma godibile. Un film piacevole, un bel mix tra commedia e thriller come non è facile trovarne. Voto 7

Non sono un grande appassionato di film horror, anzi proprio per nulla. Però Hereditary – Le radici del male mi ha incuriosito. Se poi ci aggiungete che si tratta del debutto del regista Ari Aster allora l’interesse è balzato alle stelle. Fotografia impressionante. Questo è quello che colpisce di più. Pochi jumpscare e molte sequenze lente ma tese. La prima metà è un dramma familiare piuttosto inquietante. Poi succede qualcosa di inatteso e tutto precipita. Toni Collette è formidabile, da brividi. Le scene più macabre sono esplicite senza sconfinare mai in un spudorato splatter. Un film inquietante davvero ma non disturbante, fatto di piccoli indizi disseminati qua e là che trovano posto solo ripensando a quanto visto. Il finale, seppur ben fatto, è un po’ una soluzione all’americana per intenderci. Si avvicina pericolosamente al grottesco ma nulla toglie a ciò che viene prima. Voto 8

Prima di buttarmi a capofitto in Tenet volevo recuperare il suo antesignano, ovvero Memento, sempre di Christopher Nolan. Un uomo, a causa di un’aggressione, che costerà la vita alla moglie, perde la capacità di sfruttare la memoria a breve termine. Nonostante ciò decide di indagare per proprio conto e trovare l’assassino. Come fare a rendere l’idea di queste amnesie e trasmetterle allo spettatore? Semplice: raccontare la storia dalla fine, dal ricordo più recente a quello più lontano nel tempo. Il film è suddiviso in una ventina di scene che finiscono laddove cominciava quella precedente. Chi guarda in pratica sa come finirà quella scena ma come comincia. Fenomenale l’idea, tutta basata sul montaggio. Nel mezzo ci sono ulteriori scene in bianco e nero che sono un prologo alle vicende a colori. Alla fine vedremo tutto più chiaramente. O forse no? Mille dubbi vi assaliranno e non sarete più sicuri di nulla. Sarebbe un film da 10 ma i tatuaggi perfetti fatti con un ago e l’inchiostro di una penna bic mi hanno lasciato perplesso. Da vedere assolutamente se non l’avete mai fatto. Voto 9

Altro filmone d’altri tempi che mi ero perso è L’esercito delle 12 scimmie. Bruce Willis, viaggi nel tempo, un virus letale (ugh!) tutto in un solo film. Mi aspettavo chissà quale trip temporale e invece si è rivelato un film piuttosto lineare. Anzi fin troppo. Tante, troppe coincidenze, ricordi che non sono ricordi e scene inutili e ripetitive smorzano un po’ la tensione. Perché portare il protagonista nelle trincee della Prima Guerra Mondiale? Solo per l’indizio del proiettile? Perché futuro e passato si sovrappongono così tanto da risultare quasi irreale il primo? Tutto molto bello se non fosse per tanti piccoli difetti. Credevo fosse un filmone cult da vedere e rivedere e invece l’ho trovato un bel thriller (invecchiato bene) e poco altro. Voto 7

Il buon M. Night Shyamalan bussa sempre alla mia porta e io l’apro consapevole che rimarrò deluso un’altra volta. Split non era uno di quei film che bramavo di vedere ma volevo togliermi definitivamente il dente dolente. Un uomo ha 23 personalità diverse che più o meno convivono tra loro. Alcune di queste non sono affatto buone e hanno intenzione di risvegliare la personalità numero 24, la Bestia. Ora, perché dare così tante personalità e mostrane poi solo 5 o 6? Non era meglio fare, che ne so 6 personalità, più una? Si arrivava a 7 che ci stava bene quando entrava in gioco l’aspetto paranormale. E sì perché quando si inizia a parlare di entità superiori e compagnia bella si inizia a sentire anche puzza di bruciato. Quando poi finalmente arriva la Bestia tutto deraglia e va a farsi benedire. Occasione sprecata, così come è sprecata l’interpretazione di James McAvoy ed è solo merito suo se il film raggiunge la sufficienza. Voto 6

Finalmente Tenet. Si è letto di tutto su questo film: è una storia palindroma, è cervellotico, un trip temporale senza precedenti eccetera eccetera. Ora che l’ho visto mi sono fatto la mia idea, ed è questa: non ho capito nulla. Ma attenzione, non è colpa dell’inversione temporale o dell’entropia inversa. No, no. Alla fine tutto questo invertire si traduce in un viaggio nel tempo con tanto di paradosso del nonno. Già visto in numerosi altri film, niente di nuovo. Il problema è la storia. Il Protagonista (si chiama proprio così, neanche lo sforzo di trovargli un nome) fa cose, insieme ad altri che fanno altre cose fin dal primo minuto. Americani, russi, ucraini, spie, contro-spie. Lo spettatore è catapultato in uno scenario complesso nel quale è difficile se non impossibile districarsi. Il cattivone russo in ciabatte che vuole distruggere il mondo poi è davvero troppo. Mentre voi sarete lì a cercare di tenere il filo delle vicende senza riuscirci, il Protagonista continua a fare cose viaggiando per il mondo, un po’ in avanti e un po’ all’indietro ma sempre cose fa. Quasi tre ore, tutte così. Lo scontro finale è l’apoteosi di Tenet in tutti i sensi. Fracassone come tutto il resto del film, esplosioni a caso che vanno al contrario anzichenò, soldati che corrono di qua e di là, un po’ in avanti e un po’ all’indietro. Degna conclusione incomprensibile per un film freddo, senza approfondimenti ma con numerosi spiegoni, decisamente troppi, che denotano la scarsa efficacia della sceneggiatura. Se devi spiegare il film nel film vuol dire che hai sbagliato qualcosa, caro Nolan. Gli effetti speciali, le ambientazioni, la poca CGI presente mi spingono alla sufficienza. Tutto il resto è noia. Delusione. Voto 6

Dovevo in qualche modo correre ai ripari. Perché non vedere un altro film di Ari Aster? Midsommar – Il villaggio dei dannati è il suo secondo lungometraggio. Ancora una volta un horror del tutto particolare. Un gruppo di ragazzi americani, tra cui Dani interpretata da un’ottima Florence Pugh, viene invitata da un amico in Svezia in una comunità locale per celebrare la festa di mezza estate, un rito con origini pagane. Il resto potete immaginarlo. La particolarità di questo film è che è un horror alla luce del sole, infatti è ambientato nei mesi di luce che caratterizzano il Nord Europa. Tutto è sempre illuminato, colorato, ricco di fiori e allegria. Ma c’è sotto qualcosa. Il regista ce lo svela un po’ alla volta, indugiando sulle difficoltà della coppia Dani-Christian. Come per il precedente, Aster si diverte a disseminare indizi comprensibili solo alla fine, così come i numerosi riferenti alla cultura pagana e la numerologia. Il film si apre con una sorta di dipinto che riassume tutte le vicende in chiave allegorica. Non possiamo comprenderlo se non giunti alla fine. Bello davvero, uno di quei film che ti lascia qualcosa dentro. Sarebbe un 9 pieno ma qualche scena grottesca che fa sorridere si poteva evitare. Voto 8

Infine The Hunt. Sinceramente non sapevo cosa aspettarmi da questo film. Mi sono ritrovato un pazzo film d’azione un po’ splatter misto a commedia. Un élite di ricchi signori benpensanti e politically correct organizza una caccia all’uomo. Le prede sono i leoni da tastiera di vario genere soprattutto complottosti. Ma tra questi c’è un cazzuttissima donna, Crystal, interpretata da un’irresistibile Betty Gilpin, che crea qualche problema di troppo. Divertente e per certi versi piuttosto originale soprattutto all’inizio. Novanta minuti che filano via spensierati, che a volte offrono anche qualche spunto di riflessione. Curiosa la partecipazione di Sturgill Simpson. Mi ha divertito. Voto 7

Ancora un altro libro, ep. 7

Non è passato molto tempo dall’ultima volta che ho pubblicato un post riguardo alle mie letture. Infatti nel frattempo ho letto solo due libri ma entrambi meritano due parole. In particolare il primo di questi ovvero, Gli inganni di Locke Lamora (The lies of Locke Lamora) di Scott Lynch. Primo della serie dei Bastardi Galantuomini, è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 2006 e sono previsti altri sei volumi. La pubblicazione in Italia è stata travagliata ma lo scorso anno la Mondadori ha dato nuova vita ai primi tre capitoli, il quarto sarà pubblicato in lingua originale alla fine di quest’anno. Come potete notare, tra la pubblicazione del primo, Gli inganni di Locke Lamora appunto, e il successivo I pirati dell’oceano rosso (Red Seas Under Red Skies), passa solo un anno ma ci vorranno ben sei anni prima di poter leggere La repubblica dei ladri (The Republic of Thieves). Scott Lynch ha dovuto affrontare diversi problemi personali che hanno rallentato la realizzazione delle opere, compreso l’ultimo romanzo The Thorn of Emberlain che uscirà a quattro anni di distanza dal precedente.
Vi starete chiedendo quindi come è questo Gli inganni di Locke Lamora. Innanzi tutto si potrebbe definire un fantasy. Ma è finalmente un fantasy dove il protagonista, Locke Lamora, non è un eroe che deve salvare il mondo, dove non c’è una netta distinzione tra male e bene e dove la magia non è onnipresente. Ci sono maghi ma un po’ diversi dal solito. Molto permalosi, vendicativi e anche parecchio costosi. La particolarità dello stile di Lynch è l’uso di toni adulti, con un linguaggio carico di parolacce, con un uso frequente di violenza fisica e verbale, ma sempre con una vena di ironia nera. Tutto ciò può piacere a molti e dare fastidio ad altri. Per certi versi può ricordare un po’ lo stile tarantiniano, per intenderci. Lo stesso Locke non è un personaggio per bene e, anche se appare simpatico e affabile, è disposto a tutto pur di salvarsi la pelle e guadagnarci sopra qualche moneta. Perché Locke è prima di tutto un abile ladro e truffatore e insieme ai suoi Bastardi Galantuomini mette a segno colpi mirabolanti. Jean Tannen è abile con le armi (ma anche senza), i gemelli Calo e Galdo Sanza sono ottimi in tutto e il giovane Cimice deve imparare ancora molto ma non gli manca certo il coraggio.
All’inizio va tutto per il verso giusto al nostro Locke Lamora e ai suoi compagni. La truffa al ricco Don Lorenzo Salvara inizia nel modo migliore ma la presenza nella città di Camorr del misterioso Re Grigio rovina i piani della banda. Camorr, appunto. Lynch pone i protagonisti in una simil Venezia settecentesca, dove si trovano tracce di una civiltà antica che costruiva tutto con un vetro indistruttibile. Gli uomini che la abitano hanno perso ogni conoscenza di quel periodo e vivono in un mondo più simile al nostro. L’autore crea tutta una mitologia, una religione originale e curiosa, fatta di numerose divinità. Spesso ci sono brevi digressioni che spiegano il contesto sociopolitico nel quale si muovono i personaggi senza mai approfondire troppo per non risultare noioso. I capitoli che raccontano la storia principale sono intervallati da flashback sulla gioventù di Locke Lamora e dei suoi colleghi e spesso influenzano la trama successivamente.
Quando iniziano i problemi e troppe cose mettono i bastoni tra le ruote alla Spina di Camorr (così è soprannominato Locke) si fa fatica a staccarsi dalle pagine grazie a colpi di scena del tutto inaspettati. Preparatevi perché succede di tutto. Non aggiungo altro per non rovinarvi il piacere della lettura, se non che la scrittura di Lynch, supportata da una traduzione più che ottima, è moderna e scorrevole, infarcita di parole desuete e altre del tutto inventate. Non vedo l’ora di leggere il secondo libro e scoprire qualcosa di più sui personaggi rimasti in secondo piano.

L’altro libro è La lunga marcia di Richard Bachman ovvero niente di meno che Stephen King. Lo pseudonimo fu creato da King nel tentativo di vedere se il suo successo era legato alle sue storie o semplicemente al suo nome. Non riuscì mai a scoprirlo dato che fu smascherato troppo presto (colpa dei diritti d’autore a suo nome) ma i numeri, piuttosto scarsi per Bachman sono a sostegno più della seconda ipotesi. Questo è il secondo romanzo a nome Bachman, il primo Ossessione, è stato ritirato dal mercato per volontà dello stesso King a seguito di alcuni episodi di violenza forse legato ad esso o forse no. La lunga marcia è stato pubblicato per la prima volta nel 1979 ma è stato scritto tra il 1966 e il 1967, otto anni prima dell’esordio di King con Carrie.
Cento ragazzi partecipano ad una logorante marcia che parte dal confine del Maine con il Canada per arrivare fino a Boston, a meno che non rimanga un solo concorrente. Sì perché chi rallenta, commette infrazioni previste dal regolamento viene prima ammonito tre volte, poi “congedato” ovvero fucilato sul posto da inflessibili soldati. Alla fine il vincitore avrà un sacco di soldi e un imprecisato Premio. Ovviamente ci troviamo negli Stati Uniti ma diversi da come li conosciamo. Sembra esserci un regime militare che non viene mai approfondito dall’autore. In realtà sono tanti i punti oscuri di questo romanzo. Quello che conta è la marcia. La scelta di King di raccontarla dal punto di vista di Ray Garraty, un giovane concorrente, lascia pochi dubbi su come vada a finire.
King riesce a dare forma ad un vero proprio incubo al quale prendono parte dei ragazzi incoscienti della loro scelta. La tensione è sempre alta e sembra di partecipare con loro a questa logorante “passeggiata” che porterà i concorrenti a reagire in modi diversi. Chi si arrende e accetta la morte, chi non vuole mollare e in un certo senso “muore”, annullando sé stesso, spegnendosi lentamente. Non c’è alternativa, o cammini e vinci o muori. Ottima quest’idea di base e la scelta di non approfondire il contesto nel quale si svolge la competizione, lasciando al lettore la libertà di immaginarsi questi Stati Uniti distopici e la natura del Premio. Ma si tratta pur sempre di un King acerbo, che perde la bussola nel capitolo finale, accelerando troppo e senza motivo. Tutti sanno che il Re ha qualche problema con i finali e questo è il più enigmatico dei suoi letti finora. Ho girato l’ultima pagina credendo di trovare il resto ma era completamente bianca. Forse una vera conclusione avrebbe deluso comunque ma vale lo stesso la pena di leggerlo, consapevoli che King ha scritto di meglio. Conta di più il viaggio che la meta.

Ancora un altro libro, ep. 6

L’ultimo episodio di questa rubrica risale a gennaio e quindi è arrivato il momento di raccogliere qui le impressioni sulle letture che ho affrontato in questi mesi. Dopo aver salutato, solo temporaneamente, il buon David Forster Wallace, mi sono dedicato al secondo capitolo della saga di Dune, scritta da Frank Herbert, intitolato Il Messia di Dune. Questo capitolo della saga fantascientifica di Dune è più breve del precedente ma decisamente più lento. Non che il primo sia tutto azione e dialoghi ma questa volta è la trama a non essere particolarmente brillante. Herbert indugia troppo sulle visioni di Paul e Alia, non sfruttando appieno gli intrighi del complotto, lasciando che tutto si risolva da sé o quasi. Paul Atreides, conosciuto anche come Muad’dib, il Kwisatz Haderach, è dotato, più di altri, del potere di avere visioni del suo futuro che si confondono e si sovrappongono, rendendole di difficile interpretazione. Arrakis passa in secondo piano, dando più spazio all’Imperatore, sacrificando così il fascino di questo pianeta che ha reso speciale il primo capitolo. Ci sono anche molti aspetti interessanti ne Il Messia di Dune, ad esempio l’introduzione del personaggio di Hayt, il ghola creato dal Bene Tleilaxu, ovvero un clone di Duncan Idaho, uno dei protagonisti del primo Dune. Anche la presenza di nuove razze e creature dimostrano la vivace fantasia di Herbert. In definitiva, questo libro mi ha dato l’impressione di essere un’introduzione ai futuri sviluppi della saga che non abbandonerò certo ora.

Stephen King trova sempre spazio tra le mie letture e questa volta lo fa con la raccolta di racconti brevi, A volte ritornano. Il Re mette in mostra tutte le sue doti tecniche e la sua vivida immaginazione in questi venti racconti. Alcuni sarebbero poca cosa in mano ad altri autori ma non nella sua. Altri invece sono dei piccoli capolavori, ad esempio Jerusalem’s Lot (che anticipa Le notti di Salem), A volte ritornano, Il compressore, Camion o Il cornicione, solo per citarne alcuni. Quest’ultimo mi ha fatto sudare freddo, letteralmente. Come non citare Risacca notturna che getta le basi per un capolavoro come L’ombra dello scorpione. I figli del grano è un altro di quelle storie che solo King sa imbastire, così come il commovente L’ultimo piolo. Nonostante sia stata prima volta che leggevo questa raccolta, leggendo Il bicchiere della staffa (collegato sempre alla vicende di Jerusalm’s Lot) ho avuto l’impressione, molto forte, di conoscere già la storia. A meno che lo zio Steve non sia venuto a farmi visita nel sonno, sussurrandomela all’orecchio (ne dubito ma non lo escluderei), è probile che l’abbia letta in qualche libro di antologia che si leggono a scuola. Cos’altro aggiungere? A King basta una semplice idea per imbastire una storia fatta di personaggi credibili che si muovono in un mondo fatto di dettagli che lasciano il lettore senza fiato.

In seguito sono tornato sulla saga storica che racconta della Guerra delle Due Rose, scritta da Conn Iggulden e in particolare il suo secondo libro intitolato Trinity. Questo capitolo è più ricco di battaglie e azione rispetto al precedente, oltre al fatto che ci sono meno personaggi e ciò rende la storia più lineare e più coinvolgente. L’autore riesce nella non scontata impresa di rimanere imparziale quando narra le vicende tra le due fazioni dei Lancaster e degli York. Non ci sono buoni o cattivi, entrambi hanno le loro buone ragioni per combatte contro ciò che ritengono ingiusto. Spesso mi sono trovato in d’accordo con York per poi subito dopo fare lo stesso con la regina Margherita, sposa di re Enrico VI dei Lancaster. Come succede spesso nei romanzi storici, dove protagonisti sono persone realmente esistite, la loro fine non è dettata dal sentimento dell’autore ma dal corso della Storia. E questa riserva dei colpi di scena. Una lettura scorrevole che trasporta il lettore in un altro mondo dove tutto sembrava avere più valore e il tempo scorreva più lento ma inesorabile, in un’Inghilterra ancora alle prese con le ferite della Guerra dei Cent’anni.

Infine ho letto AIR: La storia di Michael Jordan scritto dal giornalista americano David Halberstam. Non è il genere di libro che leggo di solito, perché le biografie, soprattutto di personaggi contemporanei, non fanno per me. Ma mi è stato regalato in quanto sono un appassionato di pallacanestro, o di basket come diciamo erroneamente noi italiani, e quindi è per questo che si trova nella mia libreria. Il titolo originale, Playing for Keeps: Michael Jordan and the World He Made, rende meglio l’idea del suo contenuto rispetto alla versione italiana. Non racconta infatti la vita di Michael Jordan, anche se copre il periodo che va dall’università al secondo ritiro, ma piuttosto la sua ascesa sportiva e dei cambiamenti che ha portato, non solo nella pallacanestro, ma in tutto lo sport. L’autore si sofferma sulla forza di volontà si quest’uomo di vincere, di eccellere, in qualsiasi cosa che fosse una finale NBA o una partita a carte. Per buona parte del libro il giornalista salta avanti e indietro nel tempo senza un apparente motivo. Infatti la lettura è più scorrevole e appassionante quando poi i fatti vengono raccontati in ordine cronologico. Le parentesi sulle altre squadre, oltre ai Bulls, sono interessanti e curiose e danno una panoramica più ampia della NBA degli di fine anni ’80 e ’90. L’unico grosso difetto sono le numerose ripetizioni e la tendenza ad insistere su concetti già espressi in precedenza, oltre ad una traduzione non sempre perfetta, a mio parere. Mi sarebbe piaciuto anche un inserto fotografico, come spesso accade in questo genere di libri, e un albo d’oro che riassumesse la carriere di MJ ma non c’è niente di tutto questo. Un libro per appassionati insomma, se non si basket, di sport in generale.

Ancora un altro libro, ep. 3

Non c’è solo musica in questo blog e chi mi segue da qualche tempo lo sa. Ho sempre dedicato un po’ di spazio anche alle mie letture. Ultimamente cerco di riassumere in un solo post le mie impressioni sui libri che ho terminato di recente. Non sono un avido lettore, non divoro libri come se non ci fosse un domani ma mi prendo il mio tempo cercando di non spezzettare troppo la lettura. Per la verità accumulo titoli più di quanto riesca a leggerne, soprattutto ora che mi sono dotato di un lettore di ebook.
Ma veniamo al dunque e partiamo dal libro che ho iniziato successivamente alla pubblicazione dell’ultimo episodio di questa rubrica, ovvero Manituana di Wu Ming. Si tratta del terzo libro che leggo del collettivo italiano, celebre per il bestseller Q, e devo dire che non mi ha entusiasmato molto. Racconta, da un punto di vista insolito, le origini dell’indipendenza americana, ovvero quello dei nativi americani e gli alleati inglesi. La prima parte e piuttosto lenta, non è una novità per i Wu Ming, ma la storia non decolla mai davvero. Alcuni personaggi sono un po’ piatti, poco caratterizzati e alcuni di loro realmente esistiti. Molto bella la parte ambientata a Londra, ricca e divertente anche se fine a sé stessa. Ciò che segue questo intermezzo oltreoceano manca però di ritmo. Il finale è tirato per le lunghe e non aggiunge nulla. Un romanzo che fa riflettere su chi siano stati i buoni e chi i cattivi nella storia americana ma non uno dei migliori Wu Ming.
Probabilmente Le sette morti di Evelyn Hardcastle dell’esordiente Stuart Turton è il libro che più mi ha tenuto incollato alle sue pagine da un paio d’anni a questa parte. Un ottimo giallo dai toni classici ma decisamente originale nella forma. Il protagonista rivive per sette volte, incarnandosi ogni volta in un diverso personaggio, la giornata che porta alla morte della giovane Evelyn Hardcastle. L’obiettivo è scoprire il colpevole prima che le sette vite siano terminate. Nonostante sia complesso l’intreccio delle reincarnazioni, Turton riesce a renderlo solido, a prova di errore. L’ho letteralmente divorato, grazie alla sua tensione costante e la scrittura scorrevole. Davvero un debutto notevole. Da leggere senza distrazioni però, perché le azioni dei vari personaggi si intrecciano e si sovrappongono più volte e potrebbe essere difficile seguirle.
Spinto dai consigli di Stephen King, ho letto L’incubo di Hill House di Shirley Jackson. Non è il primo romanzo di questa autrice che leggo e sapevo che cosa aspettarmi. Infatti non ci sono state sorprese. Un buon romanzo, breve e scorrevole, forse invecchiato non proprio benissimo. La Jackson è brava a dare voce ai pensieri e alle ansie della protagonista ma spesso si dilunga troppo sulle conversazioni tra gli ospiti della casa. Il finale riserva qualche colpo di scena ma, a mio parere, la situazione precipita troppo velocemente. Consigliato ma non aspettatevi un horror di azione o indagine.
Ultimo ma non ultimo, L’incendiaria di Stephen King. Sto procedendo in ordine cronologico con le opere del Re e questo era il turno della bambina dai poteri pirocinetici. Non tra i migliori libri di King che ho letto finora ma pur sempre un ottimo libro. Bello il legame tra padre e figlia, reso ancor più bello dalla capacità di questo scrittore di descrivere il mondo dei bambini. In generale ho trovato la storia un po’ debole e prevedibile ma King con il suo talento salva tutto, caratterizzando come sa fare solo lui i pochi personaggi di questo libro. L’idea della Bottega, una agenzia governativa segreta che indaga sul paranormale, mi è sembrata un po’ abbozzata e il Re poteva sfruttarla meglio. Ma chi sono io per criticarlo?

Cinque colpi delle dita, ep. 5

Visto che molti di noi hanno più tempo per vedere film, lasciatemi dare qualche consiglio su cosa vedere (e cosa no). Qui sotto troverete delle brevi opinioni riguardo ai film che ho visto negli ultimi mesi, soprattutto in quest’ultimo, per ovvi motivi.
Comincio partendo da Il Cigno Nero del 2010 di Darren Aronofsky con Natalie Portman. In realtà lo avevo già visto in occasione di un passaggio in televisione ma ne ricordavo ben poco. Un film nel quale seguiremo la ballerina Nina Sayers mentre cerca di essere perfetta per la parte del cigno nero per un balletto molto importante. Una tensione abbraccia lo spettatore fin dal primo minuto senza mai abbandonarlo. Non ci sono prologhi o momenti per capire, qui tutto succede e basta. Una ricerca ossessiva della perfezione, visionaria ed intrigante.
Attratto dalle recensioni positive mi sono buttato su A Quiet Place credendo si trattasse di un horror dai risvolti originali. Mi sono reso conto poi, di essere di fronte ad un film fantascientifico ambientato in un mondo desolato e silenzioso. John Krasinski e Emily Blunt fanno un ottimo lavoro per non rendere scontato un film che poteva rivelarsi difficile da tenere in piedi. Non male davvero, sufficiente breve da non stancare e dal finale aperto per il suo seguito in uscita quest’anno.
Molto bello invece Her – Lei di Spike Jonze. Film del 2013 con Joaquin Phoenix e la voce di Scarlett Johansson (nella versione italiana un’azzeccatissima Micaela Ramazzotti). Una love story tra un uomo e l’intelligenza artificiale di un sistema operativo, molto toccante e che fa riflettere. Allora era considerato un film fantascientifico, oggi invece è pericolosamente vicino alla realtà. Da vedere per comprendere fino a che punto la tecnologia può giocare con i sentimenti.
Bello anche Still Life di Uberto Pasolini, uscito nel 2013. Le vicende girano intorno a John May, interpretato da Eddie Marsan, che si occupa di organizzare i funerali alle persone che muoiono sole. Lo sfondo è una cittadina inglese nelle quale le cose stanno cambiando velocemente. Si troverà così ad organizzare l’ultimo funerale prima di essere licenziato. Film semplice e commovente.
Non conoscevo la storia della pattinatrice Tonya Harding prima dell’uscita di Tonya. Film del 2017 di Craig Gillespie, interpretato da una bravissima Margot Robbie, ne racconta le vicende tragicomiche, vere o presunte, che hanno sconvolto nel 1994 il mondo sportivo e non solo, con l’aggressione alla rivale Nancy Kerrigan. Un film divertente e ben congegnato.
Big Eyes è un’altra incredibile storia vera, raccontata nel 2014 da Tim Burton. Amy Adams e Christoph Waltz sono rispettivamente Margaret e Water Keane. Lui sfrutta le abilità artistiche della moglie per costruire un impero, prendendosi però tutto il merito delle opere. Davvero un bel film di rivincita e giustizia.
Altra storia vera ed incredibile, altro film. Questa volta è Spike Lee ha raccontarci di un poliziotto nero che riesce ad infiltrarsi nel KKK con il suo BlacKkKlansman (2018). A tratti divertente, in altri drammatico e un po’ tarantiniano ma molto ben fatto. Una tensione costante tiene incollato lo spettatore verso un finale di protesta che stride un po’ con il resto del film.
Che dire di Knives Out – Cena con delitto? Un giallo come si deve diretto da Rian Johnson e uscito lo scorso anno. Trama ingarbugliata e un cast d’eccezione, dove spiccano Daniel Craig, Chris Evans e Ana de Armas. Divertente e coinvolgente, un giallo classico ma con elementi davvero innovativi. Da non perdere.
Eh sì, non avevo mai visto La Cosa, film cult di John Carpenter del 1982. Un giovane Kurt Russell ci porta in una base scientifica in Antartide che viene infettata da un misterioso organismo alieno, risvegliatosi dai ghiacci. Può assumere le sembianze di qualsiasi essere vivente e imitarlo alla perfezione. Il resto ve lo lascio immaginare. A parte gli effetti speciali, un po’ datati ma comunque sorprendenti, è un film invecchiato molto bene.
Infine sono riuscito finalmente a vedere The Martian – Il Sopravvissuto, diretto da Ridley Scott del 2015 con Matt Damon e Jessica Chastain tra i protagonisti principali. Un film come si deve, teso dall’inizio alla fine senza momenti morti ed un finale da brividi. Sì è vero si sa già come andrà a finire ma in questo caso è il viaggio che conta.

Mi ha deluso un po’ Ready Player One di Steven Spilberg, uscito nel 2018. Tratto da un libro è una specie di kolossal dei videogiochi. In un futuro tutti potranno vivere in un mondo virtuale, mentre quello reale va a pezzi. Qualcuno però vuole rovinarlo e tocca all’insospettabile protagonista impedirlo. Tanti effetti speciali, con scende davvero spettacolari. Una su tutte la gara automobilistica che apre la competizione che è il fulcro del film. Per il resto tante citazioni della cultura pop anni ’80, inspiegabili dato che ambientato del futuro, che non credo di averle colte tutte.
Anche Suburbicon del 2017, diretto da George Clooney, con Matt Damon e Julianne Moore ha deluso le mie aspettative. L’humor nero funziona a tratti e il tema del razzismo è un po’ didascalico. L’alone di mistero attorno al malcapitato bambino protagonista di dissolve troppo presto. Da salvare per le ottime performance di tutto il cast.
Mi ha lasciato indifferente Il Grinta, remake del 2010 dei fratelli Coen di un classico western. Jeff Bridges, Matt Damon e la giovane Heilee Steinfeld sono i protagonisti di caccia all’uomo che manca un po’ di ritmo ma l’interpretazione, i costumi e le ambientazioni sono ottime.
Più godibile ma niente di eccezionale Allied del 2016 di Robert Zemeckis. Brad Pitt e Marion Cotillard sono due spie che incrociano le loro vite durante la seconda guerra mondiale. Un film di spionaggio, intrighi internazionali e d’amore. Forse con una mezzora in meno di scene totalmente inutili all’economia del film avrebbe giovato.
Devo essere sincero ma avevo delle grandi aspettative per Super 8. Il nome di J. J. Abrams è una garanzia ma il film non decolla mai davvero. A volte è un po’ confuso, soprattutto sulla parte fantascientifica della vicenda. Le scene con i ragazzini sono invece più coinvolgenti.
Avevo rimosso dalla mia memoria Mars Attacks! di Tim Burton del 1996 e ho voluto rivederlo. Lasciando stare la computer grafica, che rivista oggi è agghiacciante, il film non ha un senso logico e manca di ritmo. Davvero noioso nonostante un cast stellare.
Anche il cast di Assassinio sull’Orient Express (2017) di e con Kenneth Branagh, è stellare. Il risultato è migliore ma per me Poirot ha il volto e il portamento David Suchet. Troppa azione e poca indagine, non riesce davvero a tenerti sulle spine.

Ancora un altro libro

Mi ero ripromesso, all’inizio dell’anno, di scrivere di più riguardo ai libri letti. In parte ho mantenuto la promessa ma prima che finisca questo 2019 vi consiglierò ancora qualche libro. Prima di addentrarmi nei dettagli di alcuni libri in particolare vi consiglio le divertenti avventure di Tre Uomini In Barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome. Un libretto carico di scene comiche e a volte paradossali, in bilico tra fantasia e realtà, che vede protagonisti tre amici in gita sul Tamigi con il cane Montmorency. Scritto nel 1889, strappa ancora qualche sorriso e anche qualcosa di più. Il suo seguito Tre Uomini a Zonzo ambientato in Germania è meno comico ma è incredibilmente profetico sulla diffusione della lingua inglese e l’avvento di Hitler, oltre ad essere infarcito di contraddizioni e assurdità del popolo tedesco. Se vi piacciono i libri più seri, vi consiglio Altai del collettivo Wu Ming, romanzo storico che fa da seguito (o quasi) di Q, che ho letto tempo fa. Meno complesso e più lineare del predecessore è comunque un buon romanzo, ben scritto e pensato.

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Scegliere cosa leggere nella sconfinata bibliografia di Stephen King, era un problema che non volevo più affrontare. Perciò non mi restava altro che procedere in ordine cronologico. Avendo già letto Carrie (1974) e i successivi Shining (1977) e L’ombra dello scorpione (1978) mi restava solo Le notti di Salem (1975), per completare i suoi primi quattro libri. Sapevo già di dover affrontare una storia di vampiri e che avrei incontrato padre Donald Callahan, protagonista di alcuni episodi della Torre Nera. Le intenzioni del giovane King erano quelle di scrivere un libro che fosse una pietra miliare dei libri dei vampiri e dell’horror in genere. Lo stesso King ammetterà di essere stato un po’ presuntuoso ma Le notti di Salem resta comunque un eccezionale esempio del suo talento. Questo romanzo ha contribuito in modo significativo a etichettarlo come il “re del’horror”, definizione che gli è sempre andata stretta ma che non ha mai rifiutato.
L’idea alla base del romanzo è semplice, come nella maggior parte dei romanzi di King: un vampiro decide di stabilirsi nella sonnolenta cittadina di Jerusalem’s Lot nel Maine, scegliendo una casa nota per la sua cattiva reputazione. Il resto lo potete immaginare, tutti sappiamo cosa fanno i vampiri ma ciò che sorprende di questo libro è il contesto nel quale si svolgono i fatti. Il male, rappresentato dal vampiro Kurt Barlow, si muove senza sosta nella quotidianità delle notti di Salem’s Lot. Durante il giorno solo pochi cittadini notano che qualcosa sta succedendo ma fingono di non vedere (anticipando il sentimento della città di Derry in It). Lo scrittore Ben Mears, torna a Sales’s Lot, dopo averla lasciata da bambino e più di tutti nota le terribili azioni dello straniero Barlow e del suo aiutante R.T. Straker. Troverà la collaborazione del professore Matt Burke e l’appoggio di Susan Norton, una giovane ragazza che Ben ha conosciuto proprio a Salem’s Lot. Si aggiungerà ben presto alla compagnia anche Mark Petrie, un ragazzino senza paura, appassionato di mostri e vampiri. La lotta contro Barlow risulterà subito impari e King si rivela spietato e senza nessun rispetto per il lettore, soprattutto per quello che si affeziona facilmente ai personaggi.
Nonostante si noti un King un po’ acerbo sotto alcuni aspetti, si può già apprezzare la sua capacità nel dettagliare e dare profondità ai personaggi secondari (o perfino semplici comparse). Praticamente ognuno di essi ha nome e cognome, un lavoro, un passato anche se il suo passaggio nel romanzo è molto breve. Che King si sia ispirato a Dracula di Bram Stoker è cosa nota, anzi lui stesso lo sottolinea più volte. L’impostazione stessa della trama è molto simile. L’unica differenza è che quello di Stoker era una sorta di romanzo epistolare, quello di King è in questa forma solo nel capitolo finale. Un romanzo che non si può non definire horror e quindi si discosta un po’ dalle successive produzioni del Re, meno focalizzate su mostri e sangue. Un romanzo d’azione con pochi momenti riflessivi. In definitiva Le notti di Salem è un romanzo assolutamente da non perdere per conoscere Stephen King e le sue influenze letterarie, oltre a quelle che avrà sulla successiva produzione del Re.
In seguito ho anche letto La Zona Morta (1979). Avevo visto, diversi anni fa, il film del 1983 di David Cronenberg con Christopher Walken ma del quale ricordavo davvero poco. In questo romanzo King mette da parte mostri e il suo immaginario horror per confezionare un thriller dal ritmo incalzante e dall’immancabile componente sovrannaturale. Il giovane Johnny Smith, capace di avere delle premonizioni, rimane in coma per cinque anni in seguito ad un grave incidente automobilistico. Al suo risveglio trova un mondo diverso e le sue capacità più sviluppate ed invadenti. Una serie di eventi lo porterà a decidere le sorti degli Stati Uniti d’America. Stephen King ci racconta un’istantanea di quegli anni, tra mito e realtà, di un sogno americano corrotto e, purtroppo, profetico. Un ottimo libro per chi vuole iniziare ad affrontare il mondo di King.

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Non sono un appassionato del genere fantasy. Ho letto solo Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion e Lo Hobbit e dunque la mia cultura fantasy è limitata a questo noto scrittore inglese. Ma questa estate, non ricordo come, sono incappato nella saga fantasy de La Spada della Verità. Avevo visto, diversi anni fa, la serie tv della quale, a parte una splendida Bridget Regan nella parte di Kahlan Amnell, ricordavo poco o niente. Ho saputo che la serie era tratta dai libri di Terry Gooking, un autore americano che ha praticamente scritto solo romanzi che riguardano le avventure del Cercatore e della Depositaria. Sono partito ovviamente dal primo volume della quale è composta la saga. L’edizione italiana ha attraversato una serie di pubblicazioni un po’ confuse rispetto all’originale e l’attuale è composta di undici volumi che vanno a coprire il primo arco letterario della saga. Il primo volume racchiude i primi due episodi della saga e supera le 700 pagine. Prima di intraprendere questa avventura ho cercato di informarmi un po’ a riguardo. Ho capito essere una saga più per adulti che per ragazzi, contrariamente a come accade spesso nella letteratura fantasy, e che l’autore non deve essere un gran simpaticone ed è un po’ fissato con la dottrina filosofica dell’oggettivismo. Questa ultima caratteristica è particolarmente evidente in alcuni passaggi del libro e se devo essere sincero è una visione delle cose piuttosto condivisibile. In sostanza, anche i cattivi fanno i cattivi per una buona ragione e credono di essere nel giusto tanto quanto i buoni. Ho semplificato troppo, Wikipedia saprà essere più esaustiva se vi interessa. Comunque, la Spada della Verità mi aveva convinto e pur non aspettandomi chissà quale capolavoro, ho iniziato la lettura. Soprattutto nei primi capitoli si intuisce, forse anche per colpa di una traduzione non eccezionale, che Goodking non è uno scrittore nato. Anche se la lettura è estremamente scorrevole e senza particolari momenti morti, si può trovare qualche dialogo è un po’ infantile e il protagonista Richard Chyper a volte appare un po’ troppo ingenuo. Le idee però non mancano al buon Terry, anche se qualcuno lo accusa di aver scopiazzato qua e là nella letteratura fantasy (ma chi non l’ha mai fatto dopotutto). Fin da subito il mondo di Goodkind si delinea chiaramente, le Terre dell’Ovest prive di magia da una parte e dall’altra le Terre Centrali e il D’Hara, dove imperversa la magia. I tre confini che tengono separate le terre sono in pericolo, e uno di questi è già crollato ad opera del malvagio Darken Rahl. Il giovane Richard Cypher si trova coinvolto, dal mago e amico Zedd e dalla Depositaria Kahlan Amnell, in un viaggio alla ricerca della terza scatola dell’Orden. Un oggetto che, se finisse nelle mani di Rahl, gli permetterebbe di sottomettere il mondo. Non rivelo altro sulla trama che è interessante e ben congegnata. Mi è piaciuto il fatto che Goodking non si risparmia sui particolari violenti e anche un po’ splatter, che indirizza il fantasy verso un pubblico adulto. Notevoli i capitoli nel quale Richard è prigioniero di una Mord Sith. Sono tesi e claustrofobici, oltre ad essere una chiara fantasia sadomaso dell’autore. Al di là di questo, le scene delle torture sono le più toste del romanzo. Manca però, in mezzo a tutto questo, un po’ di sano turpiloquio. I cattivi non si abbandonano mai ad espressioni volgari e anche ai protagonisti non scappa mai una mezza parolaccia (forse c’entra ancora la traduzione). Evidentemente il fantasy piace così ma, a me, ha fatto uno strano effetto. In definitiva le oltre 700 pagine del primo volume le ho divorate in poco tempo e ho passato delle ore di piacevole lettura. Leggerò sicuramente anche il secondo volume e chissà se in futuro qualche altra saga fantasy farà capolino da queste parti.