Piccolo cuore solitario

Quattro anni fa, quando uscì l’album di debutto di Holly Macve, intitolato Golden Eagle, mi resi conto che c’era del potenziale in questa giovane cantautrice inglese. Non sapevo che dovevo aspettare ancora qualche anno per poter ascoltare il suo seguito, pubblicato lo scorso maggio, dal titolo Not The Girl. Il tratto caratteristico di quest’artista è la sua voce, o per meglio dire, l’uso che ne fa. Il suo modo di cantare può non piacere a tutti, può sembrare un po’ pigro e svogliato, ma è senza dubbio originale, almeno di questi tempi. Il debutto era caratterizzato da qualche (perdonabile) passaggio a vuoto ed ero curioso di ascoltare questo nuovo disco per scoprire se il tempo e l’esperienza avevo giovato alla Macve. Ecco Not The Girl, quel momento è arrivato.

Holly Macve
Holly Macve

Si comincia con Bird che fin da subito introduce le atmosfere che caratterizzavano il debutto ma con maggiore convinzione. La voce della Macve sa apparire a volte calda e altre più fredda. Eye Of The Storm si affida alle note del pianoforte e al canto. Cori e archi le danno un aspetto vagamente soul e la illuminano sempre di più. Be My Friend vira verso un folk dallo stampo classico ma condizionato dalla voce della Macve. Una canzone orecchiabile e piacevole che si distingue dalla produzioni precedenti di quest’artista. You Can Do Better è una ballata poetica, accarezzata dalla voce e percorsa dal suono delle chitarre. Holly prova a cambiare di nuovo, scoprendosi comunque a suo agio. Daddy’s Gone è un altra bella canzone che trae spunto dalle sonorità del passato, con una sferzata indie rock. Ancora una volta il risultato è ben bilanciato e arricchisce questo album mantenendone l’anima intatta. La successiva Little, Lonely Heart è tra quelle che preferisco. Una melodia perfetta accarezza il ritornello e la voce è angelica. Holly Macve si muove bene e non si fa prendere la mano dai vocalizzi. Perfetta. Sweet Marie vede un cambio di registro, passando ad un cupo rock lento. La voce di fa più dura. Un bel cambio di passo che però riesce a non distaccarsi troppo dal resto dell’album. Variazione indie pop con Who Am I. Orecchiabile e solare, questa canzone emerge sulle altre per la sua melodia e ritmo. Un bel tentativo di provare ancora una volta qualcosa di diverso. Decisamente meno luminosa la title track Not The Girl. Qui la Macve ritorna alle sonorità nostalgiche e in po’ vintage dell’esordio. Lo fa bene crescendo verso il finale. Behind The Flowers fa altrettanto. La canzone si chiude su sé stessa cercando uno sfogo nel ritornello. Questa cantautrice appare sempre più sicura nella scrittura, sapendo di poter fare affidamento sulla voce. Il finale è più folk ed è nella mani di Lonely Road. Atmosfere malinconiche ritornano prepotentemente, sottolineate dal canto accorato.

Not The Girl ci offre una Holly Macve capace di variare, passando dal folk americana al indie rock, senza disdegnare passaggi più pop. Tutto questo è costantemente segnato dalle capacità vocali di quest’artista, che ne caratterizzano inevitabilmente a produzione fin dagli esordi. Evidente è però la maturazione artistica della Macve che a saputo cogliere i pregi del primo album e dimenticare i difetti più evidenti. Uno su tutti, la monocromia di Golden Eagle lascia spazio ad una tavolozza più ampia, nel quale prevalgono i toni scuri ma con qualche eccezione. Not The Girl è un bell’album che svela con maggiore chiarezza il talento della Macve e conferma le potenzialità già espresse in passato. Un album che ben s’addice all’estate che sta iniziando.

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Una delle tante voci nella testa

Tre anni fa usciva l’album di debutto della cantautrice australiana Kaity Dunstan, nome d’arte Cloves, intitolato One Big Nothing ma fin dal suo precedente EP, la sua voce e la sua immagine di cattiva ragazza mi hanno incuriosito. L’album si rivelò più che buono ma soprattutto lasciava intendere che quest’artista non si sarebbe fermata lì. Ecco dunque il nuovo disco dal titolo Nightmare On Elmfield Road che si presenta subito con un cambio di immagine ed atmosfere. Paesaggi urbani e notturni, incubi e malesseri vari si fanno largo tra le canzoni di questo album. Tutto ciò mi ha incuriosito a partire dai singoli che ne hanno anticipato l’uscita.

Cloves
Cloves

Si comincia con Manic, che si srotola su di un sottofondo elettronico, lasciando spazio di movimento alla voce morbida della Dunstan. Si viene subito introdotti nel malessere che caratterizza questo album, “Crooked smile / Blackened day / Silent loud / Empty space / I’m alright / Not okay / Hold me close / For all the time it takes / For all the time it takes“. Tra le mie preferite c’è sicuramente Sicko. Qui in un revival anni ’00, si affronta la situazione che definiremmo, in modo semplice, pazzia. Lo fa attraverso l’immagine di un malato che vive dentro di lei, “In the corner on the outside / Lookin’ in I see a sicko / Starin’ at me on the wrong side / Won’t be the last time / In the corner on the outside / Lookin’ in I see a sicko / Starin’ at me on the wrong side / Won’t be the last time“. Nightmare sprofonda nella buia notte e ci trascina con sé in una spirale di pensieri, frutto forse di un’amore finto male o di qualcos’altro? Difficile a dirsi, “Marching in your masquerade / Banging words like a war drum, into my brain / Pushed into your blank parade / It’s a skill, taking what’s real and making it fake / Yeah“. Un intermezzo parlato di mezzo secondo, dal titolo And now a word from one of the many voices in my head saying something I won’t remember later, spezza in due l’album. Un frammento tra il serio e il faceto di quello che è il disturbo ossessivo compulsivo, “Kaity quit obsessively overthinking with the help of [*beep*] and support, talk to a doctor about [*beep*] and a support plan that’s right for you“. Il singolo Dead è un affascinate, quando inquietante, pezzo pop orecchiabile. Non lasciatevi ingannare dalla sua apparenza leggere, il testo è pesante e per nulla banale, “Its suffocating this conversation got me on a leash / No escaping, I’m shaken, taped up to reality / Intoxication takes motivation / What you doing with your generation“. Screws si fa ancora più cupa e sembra fa emergere con forza il disagio che la Dunstan vuole esprimere. C’è ancora un chiaro rifermento alle sonorità di inizio millennio che sembrano riaffiorare dalle nebbie del tempo nelle quali erano state intrappolate, “Red light red light / Fuck what you said / I’ve got a couple of screws / Loose in my head / Real lives cut ties / Yeah, yeah / I’ve gone a couple steps / Close to the edge“. Better è un brano che fa leva più sulla melodia, anche qui si strizza l’occhio a quel decennio, che sul testo. Frammenti di parole e un canto angelico si contrastano e si bilanciano allo stesso tempo, “Honestly / What you got / Is what you want / Not what you need / I don’t no / If you can tell / All it does / Is give me hell“. La successiva Paranoid parla chiaro. Quando la paranoia arriva trascina con sé altri problemi. La sanità mentale è al centro di tutte le canzoni, “Yes I’m a bitch I complain / I think I’m bent out of shape / But you get, what you get / (And you ain’t heard nothing yet) / This only ends in one way / It’s not an even exchange / But you get, what you get / (And you ain’t heard nothing yet)“. Grudge ha due facce, una melodiosa che sia affida alla voce unica della Dunstan, l’altra è quella ruvida e inquietante del ritornello. Anche questa è tra le mie preferite, perché mi da sempre qualche brivido, “Weighed down in a hotel / Talking to myself / Lately I’ve been there / Lurking around / Most times it’s torment / Waiting for perfect / So I’m clinging to something / That’s better than now“. Si chiude con Beast. La voce si muove sinuosa e minacciosa. Una canzone che viaggia sottotraccia, un pericolo sommesso e strisciante che cresce pian piano, “I’m the only one / That’ll wish you well / Then do you harm / And give you hell / And give you hell / Heart break hour / Stalking me / Love gone sour / I’m your beast“.

Nightmare On Elmfield Road non è un album che ci fa stare bene, anzi sembra volerci rendere partecipi del male che lo ha generato. Vuole trascinarci con sé, ci attrae con la voce di Kaity Dunstan, che con il nome di Cloves ha già dimostrato di essere un animo inquieto. Qui tutto emerge prepotente, un incubo notturno destinato a non sparire con la luce del mattino. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla capacità di Cloves di riproporre le sonorità di qualche decennio fa senza essere ripetitiva. Nightmare On Elmfield Road è davvero un ottimo album, ben bilanciato anche nella sua durata, fosse stato più lungo, il rischio sarebbe stato quello di risultare pesante e pomposo. Brava dunque Cloves a non cadere nella tentazione di fare un album epico su un tema così intimo e forte.

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Non c’è posto dove scappare

Come due anni fa la primavera ha portato un nuovo album per la cantautrice inglese Billie Marten, da sempre autrice di canzoni folk, moderne e delicate, dalle melodie dolci. Il nuovo Flora Fauna si inserisce nel percorso di crescita di questa artista ventiduenne che non ha nulla da dimostrare ma semmai ha tanto ancora da raccontare. Sapete bene quanto mi piaccia veder crescere gli artisti attraverso la loro musica e devo ammettere che la Marten è stata una delle più equilibrate durante il suo percorso. Ma la sorpresa in questi casi può essere dietro l’angolo. Sarà il caso di Flora Fauna oppure no? Non resta che immergersi ancora una volta nel poetico ed incantato, ma realista, mondo di questa cantautrice.

Billie Marten
Billie Marten

Garden Of Eden apre l’album ed è un inno alla forza della Natura, alla vita che da essa prende forma. La voce delicata della Marten si contrappone ad un trascinante folk pop che la rende orecchiabile, “In my garden, I sleep through the day / Soaking rays like it’s food for the morn / There’s no place I would rather escape / Look at me, I’m a flower in springtime“. Ma la Natura, lo sappiamo è costantemente in pericolo, oggi più che mai e Creature Of Mine ce lo ricorda. Bisogna vivere nel suo rispetto e non solo a parole, un messaggio che si nasconde in questo pop leggero nell’apparenza,”Old Mother Nature says it’s all getting worse / There is no room for another / We signed the wager to be on planet Earth / Wasting hours to be together“. Human Replacement sprofonda verso melodie più scure e notturne. Bille Marten sembra volerci trasmettere una sensazione di insicurezza di cui si fa fatica a liberarsi, “You’re just not safe in the evening / Walking around / You could be taken / You’re just not safe in the evening / Darker than dark / Human replacement“. La successiva Liquid Love è di tutt’altro tenore. Il folk viene accantonato in favore di un beat elettronico che accompagna la voce sussurrata di questa cantautrice. Abbandonarsi, lasciare che tutto scorra, anche solo per un attimo ed smetterla di correre, godendosi la giornata, “I kiss the lips of / Every sun coming / Wanting to wake up / As a human every morning / I’m in the kitchen / I am free pouring / No destination / Liquid love under my skin“. Heaven si rifà alle melodie e alle tematiche dei precedenti album. Una canzone fatta di immagini diverse, come un flusso di coscienza che parla d’amore, di vita, di ricordi, “Been sitting here / Mouth full of blood / And a heart full of love / Still not enough / Yes, I am good enough / Yes, we deserve our love / Yes, I am good enough“. Ruin è una canzone tanto essenziale quanto solare ma solo nelle apparenze. Il testo è difficile da decifrare ma resta il linea con la tematica principale di questo album, “I’ve been committing a crime / Locked up for killing the time / Cold cut, a natural fine / Give me a go on your mind / Freedom to feeling alright“. Segue Pigeon, una ballata irrequieta nel testo ma sempre morbida nella melodia e nella voce. La Marten riesce a restare dolce senza annoiare, “I am sick of branding and one-legged pigeons / They have no idea as to our sour position / Another day on modern Earth / Suffocating all our worth“. Kill The Clown offre ancora questo contrasto in un indie pop frammentario tenuto insieme da un ritornello orecchiabile. Una canzone dimostra il passo in avanti fatto da quest’artista,”Take the heat and you / Crush it in your teeth / It is natural to think / Everything’s your fault / After all I am / Not a baby doll / I got bills to pay / And they never go away“. Walnut si spinge verso melodie rock distese e appena accennate. Si muove lenta e sinuosa questa canzone, sbocciando nel ritornello, “But, oh, to dance around you / Fruit of Eden’s tree / Can’t come back around here / You know I’d never leave you be / I’d never leave you be“. Si chiude con Aquarium, ballata acustica e scarna nello stile della Marten. Qui è nel suo territorio sicuro e l’ascoltatore viene messo a suo agio dala voce rassicurante, “Now I am afraid of the noise / Rattling my brain like a toy / Excuse me while I lay here in the shade / I can feel no pain here, I am made here / Just the same“.

Flora Fauna ci fa riscoprire Billie Marten sotto una nuova forma. Non troppo diversa dalle precedenti, per la verità, ma pur sempre fatta di scelte coraggiose, fuori dalla sua comfort zone. La ritroviamo impegnata con battaglie personali e una ricerca di armonia con la natura, il tutto ben mescolato, fatto di indizi nascosti e immagini. Senza che mai nulla prenda il sopravvento, pop, rock e folk si scambiano i ruoli, ricordando, in diverse occasioni le scelte fatte dalla connazionale Laura Marling. Dal suo primo EP a Flora Fauna sono passati sette anni ma sembra un’eternità, vista la crescita artistica di Billie Marten che questa volta dà vita ad un album perfetto per l’estate in arrivo, un’estate un po’ pigra, nella quale fermarsi a pensare un po’.

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