Mi ritorni in mente, ep. 61

Mi prendo una pausa dalla consuete recensioni ma non smetto di consigliarvi buona musica (o almeno spero lo sia anche per voi). Questa volta torno al 2015 quando il secondo album della cantautrice inglese Nadine Shah, intitolato Fast Food, mi era giunto alle orecchie ma per qualche ragione non l’ho mai ascoltato. In questi ultimi tempi sto cercando di recuperare qualche disco che mi sono lasciato scappare e Fast Food sicuramente meritava di essere preso al volo. Ma c’è sempre tempo per recuperare.

La musica della Shah si rifà alle grandi interpreti del rock d’autore, affidandosi al suono delle chitarre ed ad un’atmosfera oscura e tesa. I testi sono forti e affascinanti, tracciati dalla voce profonda di questa cantautrice. Tra le mie preferite di questo album posso citarvi Matador, Living e la trascinate Stealing Cars. Ma la verità è che Fast Food è un album da ascoltare per intero per assaporarne davvero la sua energia e forza.

Oh it’s criminal
I’m stealing cars in my dreams
That neither you or I can drive
Passing the time away, cinema twice a day
Now, I’ve nowt left to see
Put the guilt in me, my anxiety
Check your pulse when I speed

Nell’angolo in blu

Fin dal primo album omonimo del 2014 (Baudelaire nel pomeriggio), l’artista neozelandese Aldous Harding (al secolo Hannah) si era distinta per il suo folk dark poetico e, se vogliamo, anche un po’ bizzarro. Il suo successore, Party (Il mondo ti sta cercando), si rifaceva a sonorità più contemporanee ma ugualmente indecifrabili. Lo scorso mese ha visto la luce la terza fatica di questa artista, dal titolo Designer. Aldous Harding resterà sempre per me l’autrice di una canzone, Stop Your Tears, che mi ha fatto arrivare ad un nonnulla dal stillare qualche lacrima per la sua profonda e misteriosa tristezza che sa trasmettere. Ebbene, al terzo album la ventinovenne Hannah è giunta ad una prova importante, dove poter saggiare fin dove la sua eccentricità può spingersi senza perdere quella straniante lucidità che la caratterizza.

Aldous Harding
Aldous Harding

Fixture Picture introduce le sonorità del nuovo album, più ritmiche e dinamiche. La voce della Harding è delicata, trasformandosi con un tono più distaccato nel ritornello. Subito si percepisce quanto questa cantautrice sia una vera artista, le sue canzoni sono arte moderna, “I’m on / I’ve never burned bright / And how’s the wine where you live? / Bet it’s expensive / One day we’ll share a glass together and the ride the dunes / I’m writing tune“. La title track Designer è anch’essa sostenuta dal ritmo, nel quale si inserisce la cantilenante voce della Harding. Le parole sono spigolose ed essenziali, il canto luminoso ma con una vena oscura che lo percorre. Da ascoltare, “Oh, holy bosses leave me here / I’m diving off that memory / Stop painting up your lives like wives / Give me your finger à l’amour, designer“. La successiva Zoo Eyes sprofonda in un ritmo lento, nel quale la voce della Harding cambia tonalità nel ritornello. Una canzone intima e personale che non manca di quei momenti estranianti al quale ci ha abituati, “Nice, nice to have remembered, well, a pin / A colourful bride, they are magnificent / Do you love me? / Again, again in the morning / In the light, a playing fight / And the nectar, Dubai, Dubai / Zoo eyes, zoo eyes, zoo eyes“. Treasure ci riporta alle sonorità dell’esordio ma qui Hannah prende il sopravvento su Aldous e ci mostra, almeno in parte, il suo volto privo di maschere. Una canzone indie folk che sorprende per la sua semplicità dalla quale spesso questa cantautrice si tiene lontano, “What will you do if the game keeps changing? / Will you die on the vine, choosing it over? / And when you bleed out, you’ll know better than that / And that you couldn’t take it“. Il singolo The Barrel è una delle canoni più belle di queste album. Orecchiabile, visionaria (diciamo pure incomprensibile) nella sua raffinata essenzialità. Aldous Harding qui delinea le linee guide dell’album, il nuovo corso ha inizio qui, al centro della tracklist, “It’s already dead / I know you have the dove / I’m not getting wet / Looks like a date is set / Show the ferret to the egg / I’m not getting led along“. La ballata Damn è profondamente triste e personale. Ancora una volta la Harding toglie la maschera e affronta un male di vivere che da sempre traspare nelle sue canzoni ma mai in modo così esplicito, “I did at one time attempt / In landing sleeves and a silly ribbon / There must be a reason, he said / I know the reason, he meant / Damn it, Hanny / When you jump up and down / The chains almost sound like a tambourine“. Weight Of The Planets è un gioiellino caratterizzato della voce melodiosa e delicata della Harding ma che inevitabilmente suona impostata, lontana dalla sua naturale tonalità. Proprio questo rende questa canzone affascinante, “I can do anything / Nothing is stopping me / I can be anything / But I’ve got the weight of the planets / I’ve got the weight of the planets / I’m lost“. Heaven Is Empty è una ballata dark in perfetto stile Harding. Una voce, questa volta profonda, segue una melodia triste e appena accennata. Questa cantautrice dimostra ancora tutto il suo talento, “Heaven is empty, nobody’s there / I brought my camera, it stayed in its bag / People ask me all the time what I want / The answer is one, Heaven is empty“. Si chiude con Pilot. Un brano dove la voce della Harding è protagonista, ancora una volta diversa e funzionale al suo significato, difficile da comprendere se ci si sofferma solo sul significato delle parole. Un’altra canzone che rende speciale questo album, “I don’t know how to behave / Reacting, fists dangling / About the same time every day / Sometimes an outfit blows in from the street / I can bring in the bolts and sleep / But the old flag knits and rises / Shells and shards dust the yard

Aldous Harding non si smentisce e continua a lavorare sui suoi punti di forza. Testi criptici ma evocativi, musica essenziale ma curata nei minimi dettagli, rendono Designer il manifesto definitivo di questa straordinaria artista. La voce è diversa in ogni traccia, a volte più femminile e innocente, altre più maschile e straniante. La produzione ha saputo dare un’anima all’album, scegliendo delle sonorità comuni ad ogni brano, formando un’idea di coesione tra loro. Aldous Harding ha saputo sviluppare il suo stile, rendendolo sempre più unico e riconoscibile dimostrando una maturità ormai pienamente raggiunta. Non mi piace definire un album “il migliore” tra quelli di un’artista ma senza dubbio, nel caso di Designer, posso fare un’eccezione.

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Una rosa selvatica

Il panorama del folk britannico è sempre molto vivo e sostenuto da artisti giovani che voglio portare avanti l’ampia tradizione musicale della loro terra, che ha influenzato la musica fino ai giorni nostri. Non è difficile trovare nuovi album da ascoltare composti da canzoni, sia tradizionali che originali, che si ispirano profondamente a questo genere musicale. Questo è il caso del debutto di Odette Michell con l’album intitolato The Wildest Rose. Questa cantautrice inglese, che avevo avuto modo di apprezzare nel suo EP By Way Of Night, mi aveva incuriosito grazie alla sua voce e alla capacità di scrivere canzoni che sembrano tradizionali anche se sono, di fatto, originali. Insomma, un debutto folk che non potevo lasciarmi scappare.

Odette Michell
Odette Michell

La title track The Wildest Rose è uno dei brani più accattivanti dell’album, grazie sopratutto ad un intro musicale affascinante. La voce della Michell è pulita, senza tempo e perfetta per questo genere di canzoni. Non ci poteva essere inizio migliore di questo. La successiva The Banks Of Annalee è una ballata solare che ci porta verso un folk più contemporaneo. Odette Michell usa la voce in modo delicato ed elegante in una delle canzoni più belle di questo album. Rolling Shores Of England vede la partecipazione del musicista Phil Beer che canta insieme alla Michell. Una canzone che ancora una volta richiama la tradizione ma che vuole anche dare un messaggio vicino al nostro tempo. Il singolo Bless The Ground You Grown Own è una canzone meravigliosamente malinconica ma positiva. Qui la Michell ci invita a riscoprire la nostra terra, quella dove siamo nati e cresciuti. Uno dei valori più presenti nella musica folk ad ogni latitudine. Great Old Northern Line è un bel brano folk dalle sfumature pop. La linea ferroviaria inglese racconta storie di vita di tutti giorni, non in modo anacronistico ma anzi è un’istantanea sul nostro tempo e dei pendolari (come me). L’unica canzone non originale ma estratta dall’enorme catalogo delle ballate tradizionali è True Lovers Farewell. La voce della Michell si muove leggera e melodiosa tra le note di una chitarra. Perfettamente in linea con il resto dell’album. I Once A Shepherd sembra ancora una canzone tradizionale ma non lo è. Odette è brava a scrivere i testi e la musica in modo così classico che ci fa dimenticare che stiamo ascoltando canzoni scritte dalla stessa Odette. Light Up London Town è un’orecchiabile ballata ispirata alla congiura delle polveri. Un accompagnamento ricco e contemporaneo sostiene il canto della Michell. Segue Dance Me Through The Night, una canzone dalle sonorità più contemporanee ed eteree. Qui la melodia della voce è valorizzata da un accompagnamento essenziale. Chiude l’album la bella The Eastern Seas che ci sposta in un’atmosfera più oscura, che richiama più da vicino le melodie celtiche. Odette Michell mette in risalto tutte le sue dote vocali, delicate e sognanti.

The Wildest Rose è un passo in avanti rispetto al suo predecessore e conferma le capacità di Odette Michell di scrivere canzoni che sembrano a tutti gli effetti provenire direttamente dalla tradizione inglese. Il piglio è giovane ma lontano da rivisitazioni troppo moderne e volutamente accattivanti. Nonostante questo l’album offre un ascolto piacevole ma non leggero, soprattutto al primo tentativo. La voce della Michell suona così classica e senza tempo che non si può fare a meno di rimanerne affascinati. The Wildest Rose è un buon compromesso tra il folk più tradizionale, che può risultare non un facile ascolto ad un orecchio poco avvezzo, e quello più moderno e giovane grazie ad un’ottima produzione. Con questo debutto Odette Michell può ritagliarsi il suo spazio nel panorama del folk britannico e noi continuare ad ascoltare dell’ottima musica folk.

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La giovane rabbia

Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Jade Bird? Questa cantautrice inglese, classe ’97, è da almeno un paio di anni che si è fatta notare per il suo talento e il suo stile rock scarno ed energico. Tanti sono i singoli che hanno fatto alzare l’attesa per il suo esordio, dopo l’ottimo EP Something American, che si è rivelato a noi solo lo scorso Aprile. Jade Bird, questo è titolo del debutto tanto atteso (e pubblicizzato) che finalmente presentava questa ragazza alla prova più importante. Al bando atteggiamenti sexy, smorfiette da selfie e influenze “pop da classifica”, questa ragazza va dritta al sodo. Un’anima rock nascosta da una faccia d’angelo ma che emerge da una voce da brividi.

Jade Bird
Jade Bird

Ruins apre l’album e ci introduce alla musica della Bird. Una ballata rock che parla d’amore e di insicurezza. Sarà il suono della chitarra ad accompagnare la voce in maggior parte dell’album, “‘Cause I mean it when I say that / I don’t understand / And I mean it when I say that / I’m not sure who I am / ‘Cause one minute I love you / And the next it’s all in ruins / A minute thinkin’ of you / And the next it’s all in ruins“. Lottery è una delle canzoni che più preferisco. C’è tutto l’energia e i colori che solo la giovane età della Bird possono sprigionare. Tutto è bilanciato, dalla scelta musicale al canto, con un testo semplice ma intelligente. Da ascoltare, “You used to tell me that / Love is a lottery / And you got your numbers / And you’re betting on me / You used to say that / Love is a game / But you got your numbers / And you’re betting on me“. La successiva I Get No Joy è forse la canzone più potente dell’album. Una Jade Bird letteralmente on fire ci scarica addosso un rock veloce e rabbioso. Uno dei momenti migliori di questo album, un mix di adolescenza e maturità sorrette dal talento puro di questa ragazza, “I get no joy / I get no joy / All the words my mother said / Can’t seem to get them out my head / Everything becomes everything / You live, you learn, you love, you’re dead / I get no joy“. Side Effects rallenta il ritmo ma la Bird non ha intenzione di mollare il colpo e continua a spingere. Un pop rock brillante ma non esente da quella giovane rabbia che pervade l’album, “Whatcha say we just get away? / Pack up and save it for a rainy day / It’s a side effect of love, my dear / Whatcha say we get out, just run? / Follow our instincts in the settin’ sun / It’s a side effect of havin’ you near that’s got me“. Le ballate non mancano e tra le più accattivanti c’è sicuramente My Motto. C’è ancora l’amore a far soffrire ed ispirare la Bird che prova ad arricchire il suo accompagnamento, addolcendo il suo stile ruvido, “And that’s my motto / Don’t let ‘em near enough to let me down / All this love ever does is break me now / And if it hurts so much to stay, then let him go / Oh, that’s my motto“. Does Anybody Knows si spoglia di tutto lasciando solo il suono appena accennato della chitarra. Una canzone intima che lascia tutto il palcoscenico alla voce pulita ma graffiata della Bird, “Time goes slowly / Walking through the city / Like the reckoning / I’m alone out here / And all this noise / Static from the TVs / And the telephone poles / That won’t connect you to me“. Echi grunge nell’esplosiva Uh Huh. Jade Bird è incontenibile, la sua voce si sporca come non mai. Un fiume in piena, carico di gelosia, racchiuso in poco più di due minuti senza respiro, “She’s got you on your knees like a little boy / Everybody sees that you’re just a little toy / She’s got a boxful that her daddy likely bought / She asks you if you love her and you nod and say / Uh huh“. Jade Bird non capisce cosa abbia di speciale quest’altra ragazza in Good At It. Toni più smorzati rispetto al brano precedente ma il tema è lo stesso. La sua voce carica contrasta con una musica più leggera e il risultato è irresistibile, “Is she a saint? / Is her skin made of gold? / That’s all I can think of / For why you don’t call me no more / And are her lungs / Made of steel? / So when she says she loves you, you forget how I made you feel“. Si continua con la malinconica 17. L’amore tira ancora le fila di una ballata ben scritta ed interpretata in modo impeccabile. Non c’è posto per la rabbia qui, “Stay, let me explain why I act so mean / Don’t look away, baby, it’s not all that it seems / I’m so afraid that you’ll just get up and leave / My heart will break like I’m 17 / Break like I’m 17“. Con Love Has All Been Done Before torna colpire dritto in faccia. Un amore perfetto, va tutto per il verso giusto ma manca qualcosa, ci vorrebbe qualcosa di più e la nostra non lo manda certo a dire, “You are good and you are pure / The angel knocking at my door / But I need something, something more / ‘Cause love has all been done before / And you are sweet and you are nice / Keep me calm and satisfied / But I need something, something more / ‘Cause love has all been done before“. Going Gone un po’ a sorpresa vira verso un sound country che mette in chiaro, se qualcuno avesse ancora dei dubbi, l’influenza americana nella formazione artistica della Bird, “Sorry, Mr. Einstein, it’s already past your bedtime / Back to begin talkin’ shit, get over yourself / I’m sure you would go very far if you even had a car / But I hate to inform you’re still living in your mother’s house“. Non poteva mancare la ballata conclusiva, ed eccola sotto il titolo di If I Die. Strano sentire una ragazza ventenne intonare una sorta di ultimo desiderio. Un segno di maturità espresso attraverso una scrittura pulita e lucida, “If I die, put me in a song / Tell everyone how in love I’ve been / If I die, put me in a song / So I’ll live on in your melody / If the day comes where I am gone / Let me go and be happy / And if you’re sad then make up a tune / That I can listen on, you’ll carry“.

Il debutto di Jade Bird ci conferma tutte le ottime impressioni che il suo EP ci aveva lasciato, anzi svelando margini di miglioramento inaspettati. Le sonorità di questo album ripercorrono decenni di musica pop e rock. Una cosa affatto scontata trattandosi di un’artista poco più che ventenne. Poche le influenze british ma decisamente più evidenti quelle oltreoceano. Jade Bird, sotto una voce spavalda e una voglia di stupire, svela ancora un po’ dell’impaccio dell’adolescenza, del tutto comprensibile vista l’età, ma che non intacca un talento innato per questo mestiere. Jade Bird è il debutto che ogni artista sogna di fare ma che a che questa cantautrice finirà per andare stretto presto, a causa di un talento e di un’energia che la porteranno a staccarsi dai sui riferimenti musicali per sognare una carriera ricca di soddisfazioni. Intanto continueremo ad ammirarla in uno degli album più attesi di questo 2019.

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