Mi ritorni in mente, ep. 89

Circa un anno fa è uscito l’album New Moon del gruppo folk scozzese Hò-rò ma solo di recente ho avuto il piacere di ascoltarlo. Questo terzo album è una raccolta di brani strumentali e canzoni, anche in lingua gaelica, nelle quali si alternano le voci di Hannah Macrae (violino) e Calum MacPhail (fisarmonica) accompagnati dai musicisti Sean Cousins (chitarra), Paul Martin (tastiere, chitarra elettrica), Ally MacLean (cornamusa), Calum MacQuarrie (basso) e David Calum Macmillan (batteria).

Il folk di Hò-rò è potente e moderno ma capace di conservare tutta le bellezza delle composizioni tradizionali. Brani strumentali come Spot On e Kaylins, ad esempio, dimostrano l’approccio fresco ed energico di questa band. Non mancano le ballate in gaelico, Oran an Amadain Bhoidhich e Beinn a Cheathaich, oppure la bella Follow The Heron e questa Isle Of Eigg, una delle mie preferite dell’album. Vi invito ad ascoltarla perché è davvero una bella canzone. New Moon ne è pieno, per la verità, ed è un peccato averlo scoperto solo adesso, perché sarebbe finito dritto tra i migliori dello scorso anno.

Una corsa controcorrente

A tre anni di distanza dall’ultimo album Huam, i Salt House, una delle più riuscite formazioni folk della scena musica scozzese e non solo, tornano con il nuovo Riverwoods. Lauren MacColl, Ewan MacPherson e Jenny Sturgeon questa volta scelgono di realizzare una sorta di concept album, non su un tema banale o sentimentale ma su qualcosa di molto importante che riguarda tutti, ispirato dal documentario ‘Riverwoods: An Untold Story‘. La riduzione della popolazione del salmone atlantico che si sta verificando nei fiumi scozzesi è solo una piccola parte di un problema su scala globale. I Salt House, provano a sensibilizzare chi ascolta verso questo tema e in generale sulle minacce alla biodiversità nel territorio scozzese. Lo fanno attraverso la musica e a noi non resta che ascoltare, meditare e, per quanto possibile, fare in modo di porre fine alla distruzione del territorio nel quale viviamo, sia esso la Scozia, l’Italia o qualsiasi altro luogo su questo pianeta.

Salt House
Salt House

L’album si compone da molte tracce esclusivamente strumentali e alcune canzoni che vedono alternarsi la voce di Ewan MacPherson e Jenny Sturgeon. Quest’ultima ci delizia con la sua splendida voce in Her Silver Spate, nella quale sembra di vedere il luccichio del sole sulla superficie dell’acqua. Birch Lines invece è nelle sapienti mani di MacPherson, accompagnato dal violino della MacColl, sempre perfetta. Possiamo ammirare il suo talento nella strumentale The Dipper, leggera e melodiosa oppure nella più misteriosa Unspoken Waters. Si respira la bellezza della natura in River Reeds nella sua coralità strumentale e maestosità. La fragilità e la forza dei fiumi scozzesi emerge in The Loom O’ Morn, nella quale spiccano le note del violino e tratteggiano una delle melodie più belle e affascinanti dell’album. L’ultima traccia strumentale è la magica The Salmon Run, cuore dell’album e fulcro intorno al quale si dispiega il resto dell’opera. La voce della Sturgeon chiude con Headwater, perfetta sintesi della musica dei Salt House che racchiude tutta la magia di questo trio unico.

Riverwoods è un album che riesce nella non semplice impresa di tramettere un messaggio, sfruttando non tanto le parole quanto la musica. I Salt House rinunciano, in questa occasione, a sfruttare la vocalità della Sturgeon e di MacPherson in favore dei suoni del loro strumenti. Perché, a volte ce lo dimentichiamo, la natura non è fatta di parole ma di suoni, immagini, odori e perfino silenzi. Cosa meglio della musica ci può restituire una piccola parte di tutto ciò? Riverwoods, al di là dell’idea alla base, è un album maturo e, in un certo senso, coraggioso. In definitiva un ottimo album sotto ogni aspetto ma, del resto, non ci si poteva aspettare niente di meno da questi tre artisti.

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Due torti non fanno una ragione

Per sorprendere non è necessario essere originali. Lo sa bene la band britannica The Lathums che nel 2021 con l’album How Beautiful Life Can Be ha dato spolvero alle chitarre, rilanciando uno stile che ha caratterizzato l’epoca d’oro della musica del Regno Unito. Anche se le canzoni che lo componevano non brillavano certo d’originalità, è stata, senza dubbio, la determinazione di questi giovani artisti a percorrere una strada in controtendenza rispetto ai loro coetanei la chiave dell’accoglienza positiva di pubblico e critica. Quest’anno sono tornati con il loro secondo album From Nothing To A Little Bit More che ha visto l’addio del bassista Johnny Cunliffe e l’arrivo di Matty Murphy, che ricompone così la formazione a quattro con Scott Concepcion, Ryan Durrans e il leader Alex Moore. Il secondo album è uno scoglio difficile da affrontare e i Lathums sono chiamati ad affrontarlo due anni dopo il fortunato debutto.

The Lathums
The Lathums

L’album comincia con la ballata rock Struggle, nella quale Moore riflette sulle difficoltà dell’infanzia, per poi lasciare spazio a qualcosa di più movimentato, in continuità con l’album precedente, dal titolo Say My Name. Sulla stessa lunghezza d’onda la trascinante Facets, nella quale possiamo ascoltare tutta l’energia delle chitarre che hanno caratterizzato l’esordio della band. Sad Face si affida ad un pop rock energico e tirato che alza i decibel, affidandosi quasi esclusivamente alla voce e al carisma di Moore. Spazio al romanticismo con I Know Pt 1 che suona un po’ vintage ma funziona, così come la spensierata Lucky Bean. In Rise And Fall tornano la melodia tracciate dalle chitarre, dando vita ad una canzone luminosa e ispirata. C’è tempo anche per lasciarsi andare in canzoni più malinconiche come Crying Out che non rinuncia alle sonorità indie rock più energiche, contrariamente alla bella Turmoil che si affida principalmente al pianoforte, svelandoci una dolce ballata. Land And Sky è la canzone più oscura dell’album, dalle sonorità che ricordano gli anni ’90. Senza dubbio un esperimento riuscito e dal fascino particolare. La conclusiva Underserving è la classica ballata riflessiva che abbraccia l’album e lascia buone sensazioni.

Anche in questa occasione i Lathums riescono nell’impresa, non facile di questi tempi, di rimanere fedeli alle scelte fatte al loro esordio. In questo From Nothing To A Little Bit More viene meno l’effetto sorpresa del suo predecessore ed è più difficile fare affidamento solo su questo aspetto. Per compensare questo Alex Moore e soci provano qualcosa di diverso, affidandosi meno ai riff di chitarra e più all’energia del front-man, rischiando così di perdere una delle loro peculiarità più evidenti. Ma niente che pregiudichi questo lavoro,che è pur sempre un secondo album e c’è ancora tempo per la band di trovare una strada più definita. From Nothing To A Little Bit More è il degno successore di How Beautiful Life Can Be, che ci regala momenti di nostalgia per un indie rock che i Lathums sanno mantenere vivo dandoci la sensazione che, se si vuole, questo genere riserva ancora qualche sorpresa e ha ancora la capacità di attrarre i giovani.

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Non ci sono più cowboy in questa città

Correva l’anno 2020 quando uscì l’album di debutto della cantautrice americana Brit Taylor. Per qualche motivo che non ricordo, non scrissi nulla riguardo a Real Me ma quando quest’anno ho letto notizia che sarebbe stato pubblicato il suo seguito dal titolo Kentucky Blue non ho esitato ad ascoltarlo. Evidentemente, pur non impressionandomi in modo particolare, Real Me mi aveva lasciato delle buone sensazioni. Di solito tendo ad abbandonare un artista quando mi accorgo che, con il passare del tempo, si riducono gli ascolti e dimentico praticamente ogni canzone. Nel caso di Brit Taylor non è stato così, perciò eccomi qui all’ascolto del nuovo Kentucky Blue.

Brit Taylor
Brit Taylor

Si comincia con Cabin In The Woods che mette subito in chiaro che le sonorità marcatamente country saranno una caratteristica che si farà sentire per tutta la durata dell’album. Lo confermano canzoni come Anything But You o la bella Rich Little Girls che richiamano anche lo stile honky-tonk, che ritroviamo in modo particolare nella trascinante Ain’t Hard Livin’. La title track Kentuky Blue apre alle ballate country con le sue melodie malinconiche e la voce morbida della Taylor che impreziosisce anche la lenta No Cowboys. Con canzoni come queste l’album prende una piega più sentimentale e distesa, dolce e un po’ nostalgica, di cui fanno parte anche Loves Never Been That Good To Me, dalle atmosfere romantiche e la poetica ed essenziale Best We Can Do. Non mancano momenti dl piglio blues come If You Don’t Wanna Love Me che ci fanno ascoltare una Brit Taylor decisamente a suo agio. L’album si completa con For A Night che vira su sonorità dal sapore pop ma ben bilanciare dalla voce dolce della sua interprete ed autrice.

Ad un primo ascolto Kentucky Blue si fa ricordare per le sue canzoni più accattivanti nelle quali si fanno sentire maggiormente il trio banjo, pedal steel e pianoforte. Le ballate scivolano via ma con gli ascolti successivi assumono sempre più importanza all’interno dell’album, facendoci apprezzare la varietà di colori a disposizione nella tavolozza di Brit Taylor. Proprio in questa varietà si riconosce il talento e la gavetta che questa cantautrice si porta dietro, riuscendo ad evitare di cadere in un country pop stucchevole e ripetitivo. Kentucky Blue è un bel passo in avanti rispetto al precedente Real Me, anche grazie alla produzione di una vecchia conoscenza del country come Sturgill Simpson che ha saputo tirare fuori tutto il talento della Taylor. Insomma Kentucky Blue è un perfetto album country per chi ama passare da momenti spensierati ad altri più malinconici senza strappi o brusche frenate.

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