Lettere d’amore alla prateria

Questo album è rimasto a lungo nella mia wishlist e solo in occasione dell’ultimo Bandcamp Friday, mi sono deciso ad acquistarlo. Prairie Love Letter aveva tutte le caratteristiche che mi piace trovare nella musica country ma, come spesso mi accade, la lunga carriera della cantautrice americana Brennen Leigh mi aveva fatto esitare. Non per chissà quale motivo ma semplicemente perché preferisco scoprire un artista dai suoi primi passi piuttosto che entrare quando lo spettacolo è già iniziato. A volte però è giusto fare uno strappo alla regola per evitare di perdersi qualcosa che vale la pena ascoltare davvero. Mi sono bastati pochi minuti per capire che era proprio quello che andava fatto.

Brennen Leigh
Brennen Leigh

Don’t You Know I’m From Here apre l’album ed è subito chiaro il suo tema. I ricordi della propria terra, di una città lasciata anni fa ma dove ancora resistono salde le radici della Leigh. Una malinconica canzone country ma è solo l’inizio, “I left here full of vinegar back in ‘99 / Guitar in my back seat, big time on my mind / My desire to leave the old me in the dust could not have been more sincere / I looked down my nose at friends, turns out I might need them again / Don’t you know I’m from here“. La successiva Billy & Beau racconta di uno sfortunato amore omosessuale tra due ragazzi. Un amore mai dichiarato ma del quale, chi canta, ne era a conoscenza, nonostante i silenzi dell’amico, “The heart wants to go where the heart wants to go and you can’t undo it / Billy never told me so but I just knew it / Billy loved Beau“. The John Deere H è una spensierata ballata country, una dichiarazione d’amore per… un vecchio trattore. Una canzone così sincera e naturale che non c’è modo di dubitare su ciò che ci racconta questa cantautrice, “The H was made in a factory down in Waterloo / But my dad had got her second hand from some folks that we knew / She wasn’t sleek and she wasn’t fast, took a while to get her going / But she beat a horse and a hand held plow for cutting hay and hoeing“. The North Dakota Cowboy è un altro gioiellino country che racconta di questo ragazzo dagli occhi verdi del quale si invaghì Brennen, o chi per lei, molti anni fa. Un bel giorno se ne andò ma rimase sempre giovane nei suoi ricordi, “His eyes were green as Norway pines, his laughter warm and pure / But he felt a burden in his mind even love could not have cured / And that North Dakota cowboy, handsome, young, adored / Rode off into the prairie sky in his rusty yellow Ford“. Bastano poco meno di due minuti per esprimere tutta la bellezza e la forza della musica country in Yellow Cedar Waxwing. Sono ancora i ricordi d’infanzia ad ispirare le canzoni della Leigh, questa volta è un uccello giallo che noi chiamiamo beccofrusone dei cedri, “There’s a yellow Cedar Waxwing on the Juneberry bush / In the golden sunlight shining through the trees / God made the birds and flowers, He is everywhere we look / God loves the Cedar Waxwing; all the more He’ll care for you and me“. Little Blue Eyed Dog è un incalzante bluegrass che racconta come un cagnolino randagio abbia cambiato la vita a chi lo ha salvato. Una canzone fatta di bei sentimenti e tenerezza, “In some God forsaken Texas town / Looky here, what have I found / A little brown and blue eyed hound / Running in a hail storm / Ain’t it funny what the Lord can do / I thought that I was saving you / Now I’m wondering who rescued who / Welcome to your new home“. Di tutt’altro tenore I Love The Lonesome Prairie. Questo album è appunto un “lettera d’amore alla prateria” e questa canzone, lenta e melodiosa, ne è l’emblema. Meravigliosa, c’è poco altro da aggiungere, “I love the lonesome prairie / Where the grass rolls like waves on the sea / The lonesome prairie wind is like a lifelong friend / No, the prairie’s not lonesome to me / Oh the prairie’s not lonesome to me“. Non sarà come la città ma proprio per questo che è bella Elizabeth Minnesota. Una vita semplice e immersa nella natura, che potrebbe far storcere il naso agli amanti della città, che non possono capire, “I love my dad’s homegrown tomatoes and my grandma’s scalloped potatoes / Elizabeth Minnesota is my home / Well you might call me hillbilly but what you think don’t matter really / Elizabeth Minnesota is my home“. Prairie Funeral racconta con sorprendente vividezza e sensibilità un funerale di molti anni fa. Non mancano i racconti e la musica che unisce chi ha accompagnato quest’uomo per l’ultimo saluto, “It was a funeral on the prairie, all his children gathered round / Put him in a horse drawn wagon, drove him into town / In the dark of February snow covered up the ground. / In a pioneer church made out of sod we sang A Mighty Fortress Is Our God“. Tra le mie preferite c’è sicuramente la bellissima You’ve Never Been To North Dakota. Un affascinante viaggio fatto di immagini del North Dakota, una canzone d’altri tempi, pura e semplice. Da ascoltare, “Have you looked up and read the note / Aurora Borealis wrote / While you were gently sung to sleep by a coyote / Felt your joints get stiff and cold / To let you know you’re growing old / Then you’ve never been to North Dakota“. Non c’è spazio ai sentimentalismi in Pipeline, c’è una terra da difendere. Chiunque tu sia non farai passare il tuo oleodotto. Il messaggio è semplice ma c’è ancora qualcuno che non vuole capire, “You got big ideas and a great big paycheck / And a closet full of designer suits / Custom shoes of Italian leather / But you ain’t laying no pipeline / But you ain’t laying no pipeline / But you ain’t laying no pipeline through this land“. Si chiude con Outside The Jurisdiction Of Man. Una canzone molto bella, triste e solitaria, che lascia incantati per la sua durezza, “So let my remaining time all pass / On a blanket of swaying prairie grass / And then won’t you bury me ‘neath the work of God’s own hand / Outside the jurisdiction of man“.

Prairie Love Letter è un album meraviglioso. è davvero difficile descrivere a parole quello che queste canzoni ti lasciano dentro. Brennen Leigh non ne sbaglia una e, tra ricordi d’infanzia, storie e messaggi, ci racconta l’amore per la sua terra, per quelle praterie desolate ma anche ricche di vita. Le capacità si songwriting di quest’artista sono a dir poco eccezionali. Raramente ho trovato una tale capacità di ritrarre i ricordi con le parole con tanta vivacità e sentimento. Sì lo so, non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Si tratta pur sempre di country, bluegrass, americana ma ogni volta, ogni benedetta canzone, mi sorprende come fosse la prima volta. Un sentito grazie a Brennen Leigh e a chiunque abbia collaborato a questo album. Perché è qualcosa di speciale, davvero.

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Caleidoscopi e sogni

Tre anni fa rimasi sorpreso dall’album Azalea che segnava il debutto della cantautrice americana Lydia Luce. Il suo talento di musicista si rifletteva nelle melodie delle sue canzoni dall’animo folk, rendendolo molto piacevole e del quale conservo ancora ottimi ricordi. Lo scorso mese è uscito Dark River, anticipato da vari singoli che lasciavano intendere che il percorso intrapreso dalla Luce aveva trovato il suo naturale sviluppo, proseguendo su quelle melodie ed atmosfere che l’avevano preceduto. Ecco che, stuzzicato di singoli pubblicati, mi sono precipitato, senza esitazioni, su questo nuovo disco.

Lydia Luce
Lydia Luce

Occasionally apre l’album e subito Lydia Luce ci cattura con una voce morbida e melodiosa. Una canzone d’amore fragile, che riprede le sonorità dell’americana ma con in più il suono della viola, strumento suonato da quest’artista, “Like a snake you wait / In tall grass and vine you hide away your face / Out of reach your vision comes to me / And suddenly you’ll cross my mind“. Un variazione rock prende piede nella title track Dark River. Non è nuova la Luce in queste sonorità nelle quali rivela di avere un insospettabile voce graffiante, “I go down to the dark river they can’t see me there / I’m gonna drink til my bellies full / Pour it out when they need my help / Pour it out Pour it out / Please won’t you save some for me“. Molto più vicina allo stile scelto nel suo disco di debutto, Tangled Love, è una delicata e solare canzone d’amore, un amore complicato. Lydia Luce con le parole e soprattutto con la musica, dà vita ad una dei brani più poetici di questo album, “Well, you let me in again into your world / Darker than velvet, warmer than air / Taking me down, but I willingly go / Dancing in arbitrary motion“. Something To Say è una canzone personale, intima. La voce della Luce è leggera, quasi un sussurro. Le parole e la musica impongono una riflessione sulla vita e sull’amore, “I’m waiting for a chancе to breathe / Searching for thе words to speak / Could you take it from here? / If I had something to say, if I had something to say / If I had something to say, I’d say it“. La successiva Never Been Good riprende le sonorità rock ma senza rinunciare alla melodia. Spazio dunque all’energia e alla vitalità che questa cantautrice dimostra di avere, “You’ve been lay-low and keeping quiet / And I’d give anything to pass away the time / You say your head is a liar / I know the feeling / You try to keep it on the inside / But it’s showing“. Si ritorna presto però a ritmi decisamente più lenti e melodie più malinconiche con Maybe In Time. Una canzone che suona come una preghiera notturna, effimera ma profonda, “So I left the windows open / To let in the divine / And maybe I am just looking / For the spirit of the night“. Leave Me Empty è una delle canzoni che preferisco di questo album. Il ritmo vince sulla melodia ma la Luce sa trovare il giusto equilibrio affondandosi maggiormente alle sonorità del folk americano, “‘Cause I’m hollow, nothing but a shell and a shadow / Holding myself on a tightrope, dangling / I can’t cast it off, cup out of Maries just to pass along / All the time I’m gonna spend here alone patiently / You can’t fill me up, so leave me empty“. Somehow invece non può fare a meno di una melodia e di una poesia che avevano reso speciale il primo album. Qui Lydia Luce mette in mostra tutto il talento come musicista, prima di tutto, e come autrice poi. Una canzone meravigliosa, da ascoltare, “Somehow, sometimes I keep repeating all the old lines / Getting lost inside my own mind / Something longing to get out / Somehow, if I never wake from sleeping / Kaleidoscopes and dreaming / I’d give anything to keep this, even for a little longer“. Dopo un inizio sommesso, All The Time esplode un folk rock di ampio respiro che vede le chitarre protagoniste. Una canzone che parla di riscatto e accettazione, in un mondo sempre più complesso, “Cover up uneasy / You’re so pretty and pleasing / What’s the filter for? / You’re not here to ruin someone’s garden / But I’m still out here looking / I beg you, stop pretending / I am on my knees / But you don’t even own me an apology“. Stones è una canzone d’amore nella quale emergono le difficoltà e il peso delle cose non dette. Lydia Luce tratteggia con le voce un’atmosfera malinconica e tutt’altro che leggera,”I’ll tell you all my secrets / They weigh me down like stones / And I don’t wanna hate on / I just wanna let it go“. L’album termina con Just The Same. Alla base dell’ispirazione sembra esserci la fine di un amore, sottolineata dal suono del pianoforte. Una ballata lenta e triste, che cresce pian piano verso il finale, “I try to find the song that I once knew / You knew it too / But I guess it’s truе / That nothing ever stays the samе / And you, there’s something new“.

Dark River è un altro ottimo album che conferma le qualità di Lydia Luce. La preponderanza di canzoni melodiche e al suono degli archi, e quindi della viola, non deve trarre in inganno. Quest’artista riesce a coniugare le diverse anime del genere americana, trovando nuova linfa proprio attraverso le sue doti di musicista. La voce della Luce è uno strumento aggiunto che va al di là delle parole. Non mancano momenti più rock nei quali emerge il lato più energico di quest’artista ma che sanno inserirsi bene all’interno dell’album. Naturalmente Dark River deve fare a meno dell’effetto sorpresa di Azalea ma riesce comunque a dare quel brivido particolare, quella sensazione di trovarsi di fronte ad un’artista musicale completa e, a mio parere, sottovalutata.

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Mi ritorni in mente, ep. 77

In questi dieci anni di blog ho avuto modo di ascoltare numerosi artisti e di seguirli per anni. Non tutti però hanno pubblicato regolarmente nuove canzoni o album. Anzi alcuni di essi sembrano scomparsi nel nulla. Forse, non avendo fortuna hanno cambiato lavoro oppure hanno scelto di fare un’altra vita o hanno messo su famiglia. Ho scorso i nomi degli artisti della mia collezione e li ho raccolti in una playlist.

Ho cominciato da Broken Twin alias Majke Voss Rossom, che dopo il suo debutto intitolato May del 2014 non si è fatta più sentire. Pare però stia per tornare usando il suo vero nome. Speriamo. Poi c’è anche Annie Eve sulla quale non sono riuscito a trovare nessuna traccia. Niente più Facebook e neanche il sito esiste più. Credo che il suo Sunday ’91 del 2014 rimarrà il suo primo e ultimo album. L’artista che però mi ha dato l’idea di realizzare questa playlist è Joseph Lyons, conosciuto come Eaves. Anche lui dopo il suo primo, e probabilmente ultimo What Green Feels Like del 2015, è finito nell’oblio ed è davvero un peccato per il suo talento. Una band interessante, formata da tre ragazzi inglesi, i Millbrook, dopo l’omonimo album del 2015, hanno scelto il silenzio. Non si trova più traccia di loro in internet. Anche gli Snowmine, dopo aver pubblicato due album, l’ultimo nel 2014 sono spariti. In realtà qualche nuovo singolo c’è stato ma non ne è seguito nulla. Anche gli Stillwater Hobos non li rivedremo più insieme. L’ultimo My Love, She’s In America del 2014, è un piccolo gioiellino folk e ora la band è da considerarsi sciolta. Che fine ha fatto Tina Refnes? Dopo un singolo di qualche anno fa che seguiva il suo debutto, No One Knows That You’re Lost del 2015 non c’è stato più nulla. E così anche lei è finita in questa playlist.

Sono solo sette artisti per il momento. Ho raccolto qui, chi davvero ha fatto perdere le tracce di sé da anni. Altri, oltre a questi, sono comunque attivi sui social ma da qualche anno non pubblicano nulla di nuovo. Mentre preparavo questo articolo ho anche scoperto anche che altri artisti, apparentemente scomparsi, stanno tornando, addirittura con un nuovo album. Altri sono fermi da pochi anni che è troppo presto per considerarli spacciati. Altri hanno dichiarato di essersi presi una pausa qualche anno fa e io li aspetto ancora per un po’ prima di arrendermi. Spero che tra queste “meteore” possiate trovare qualcosa di interessante, mentre vi godete un altro lockdown un anno dopo.

Conoscere la notte

Capita a volte di scoprire un nuovo artista, ascoltare il suo album per innumerevoli volte e poi passare anni ad aspettare che pubblichi qualche cosa di nuovo. In alcuni casi, l’artista non scompare del tutto, continua a fare concerti, qualche post sui social o cose di questo tipo. Di Lael Neale invece ho pensato quasi che si fosse ritirata e che la possibilità di ascoltare un suo nuovo disco fosse molto remota. Ma, un po’ a sorpresa, dopo il debutto I’ll Be Your Man nel 2015, questa cantautrice americana è tornata quest’anno con Acquainted With Night. Innanzitutto sono contento che non si sia ritirata e che io possa finalmente assaporare nuove canzoni di un’artista che si rivelò quell’anno una sorpresa, rimasta in sospeso per sei lunghi anni.

Lael Neale
Lael Neale

Blue Vein si presenta subito con una sonorità più scarna e lo-fi delle precedenti produzioni delle Neale. Resta immutata la su voce cristallina, che scivola sul suono della chitarra e dell’Omnichord, strumento predominante in questo album. La successiva Every Star Shivers In The Dark abbraccia appieno questa rivoluzionaria semplicità. Accompagnamenti ridotti all’osso che fanno risaltare la voce e le parole. Emerge tutto il talento di questa cantautrice, avvolgendo e incantando l’ascoltatore. La title track Acquainted With Night è straordinariamente poetica e delicata. Una poesia in musica, ancora resa essenziale dal suono dell’Omnichord ma illuminata dalla voce della Neale, così solitaria e magica. White Wings sottolinea quella necessità di togliere, di asciugare le canzoni alla fresca brezza della sera. Tutto è così chiaro ma allo stesso tempo distorto e disturbato dalla registrazione tutt’altro che perfetta. How Far Is It To The Grave prosegue sulle stesse atmosfere ma c’è meno incanto e più tristezza. Leal Nale ci prende per mano e ci porta in un mondo fatto di poesia e vita. For No One For Now introduce un ritmo che sostiene la voce, sempre impalpabile di questa artista. Una canzone solitaria, fatta di cose semplice e immagini quotidiane. Sliding Doors & Warm Summer Roses si poggia su di un tappeto di suoni frammentario e sfuggente, sul quale si posa un canto morbido che ammalia. Così come succede in Third Floor Window. C’è la volontà di estrarre dai pensieri, solo l’essenziale. Poche note e parole scelte fanno una canzone, che come questa si reggono da sole senza bisogno di altro. Let Me Leave By The Side Of The Road riproduce un effetto a due voci che offre una variazione rispetto ai brani precedenti. Poco meno di due minuti bastano a Lael Neale per creare un’atmosfera del tutto particolare. L’album si chiude con Some Sunny Day. Si va ad aggiungere un po’ di ritmo ad una delle canzoni più luminose e più vicine a quelle dell’esordio.

Acquainted With Night non era quello che era lecito aspettarsi dopo anni di silenzio e lavoro. Ci si sarebbe aspettati un disco variegato e complesso, ricco di spunti e sperimentazioni, invece è tutto l’opposto. Pare che sia stata proprio questa infruttuosa ricerca a trascinare per le lunghe la realizzazione di questo album. Un ritorno alla semplicità, rappresentata dall’esclusivo utilizzo dell’Omnichord e imposta dalle limitazioni dello scorso anno, ha sbloccato Lael Neale che ha potuto così realizzarlo. Lontano in quanto a sonorità rispetto al debutto, Acquainted With Night però ci offre comunque la possibilità di tornare ad ascoltare un’artista che ha saputo rinnovarsi facendo un passo indietro e scavare dentro di sé. Un’anima più poetica ed artistica emergono con forza da questo album, non di facile ascolto per la sua monocromia e scelta stilistica, ma capace, senza dubbio di incantare e riflettere. Bentornata Lael.

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