Mi ritorni in mente, ep. 14

Se devo scegliere quale canzone tra quelle di Amy MacDonald è la migliore direi Let’s Start A Band. Questa canzone ha uno dei testi più belli scritti dalla cantautrice scozzese. Il suo è un inno alla musica e al piacere di cantare dal vivo. Amy può dire di avercela fatta mantendo però i piedi per terra. Continuo a seguirla per scoprire se sta preparando qualcosa di nuovo per quest’anno. Sicuramente questa estate la vedrà impegnata in numerosi concerti e chissà se ne approfitterà per presentare qualche nuova canzone. Non è assicurato che questo sia l’anno del suo quarto album, forse ci sarà da aspettare in 2015.

Intanto non resto fermo e continuo a gurdarmi intorno alla ricerca di nuova musica da ascoltare. Ad essere sinceri per ora sono un po’ fermo. Sono sicuro che troverò qualcosa di bello tra non molto. Per ora mi ascolto Amy MacDonald e il suo A Curious Thing che sono tornato ad ascoltare molto volentieri. Forse come non ho mai fatto con questo album. Questa Let’s Start A Band però è tratta da suo primo album This Is The Life.

Put a ribbon round my neck and call me a libertine
I will sing you songs of dreams I used to dream
I will sail away on seas of silver and gold
until I reach my home.

Give me a guitar and I’ll be your troubadour
Your strolling minstrel 12th century door to door
I don’t know anymore, if that feeling is past will is last
How can you be sure

And how do I know if you’re feeling the same as me?
And how do I know if that’s the only place you want to be?

Give me a stage and I’ll be your rock and roll queen
Your 20th century cover of a magazine
rolling stone here I come, watch out everyone I’m singing my song.

Give me a festival and I’ll be your Glastonbury star
The lights are shining everyone knows who you are
singing songs about dreams about hopes about schemes
ooooh, they just came true.

And how do I know if you’re feeling the same as me?
And how do I know if that’s the only place you want to be?

And if you want it to then there’s nothing left to do
Lets start a band, lets start a band, lets start a band, lets start a band.

Sempre più avanti, sempre più lontano

Questo Dialects degli americani Snowmine è un album che non avevo messo nella lista dei dischi in uscita quest’anno. Un giorno mi sono ricordato di loro e ho visitato il sito ufficiale scoprendo che stavano per pubblicare il loro secondo album. Un paio di mesi fa ho scritto su questo blog della loro iniziativa di autofinaziarsi, producendo l’album in proprio e chiedendo l’aiuto dei fans. Dal canto mio ho partecipato acquistando in anticipo l’album che ho potuto scaricare poi il giorno della pubblicazione. Il precedente Laminate Pet Animal mi era piaciuto ma non così tanto da “consumarlo”, dunque da Dialects non avevo grandi aspettative. Dopo i primi ascolti ci si accorge che gli Snowmine hanno mescolato parecchio le carte in tavola e ho rivisto la mia posizione nei loro confronti. Questo album è differente e riserva diverse sorprese.

Snowmine
Snowmine

La traccia d’apertura è il simbolo del nuovo corso degli Snowmine, To Hold An Ocean mostra la forza eterea di questo gruppo, “Please whisper lines of books that I should have read. / Can you still my hand that never rests? / Tell me how it is again“. Rome è il singolo dell’album ed è una delle più orecchiabili,”My legs took me where my mind refused to go / I just thought that you should know“. Gli Snowmine non possono negare di ispirarsi agli anni ’80 ma lo sanno fare bene senza che diano quella sensazione di “già sentito”. La successiva Columbus è un’altra canzone che entra in testa e ci fa capire che il gruppo percorre sempre la stessa strada, “All this time when you read my mind / You read my mind / All those thoughts that I knew you’d find / I hid between the lines“. Una delle canzoni più belle di questo album è Further Along, Farther Away, che inizia con sonorità folk-rock ma si trasforma in una sorta di disco-folk (esiste?) che ti fa venire voglia di battere le mani a tempo, “Could spoil the spirit passing through / Even walls ten-thick to break into. / They’d all crumble. / They’d all crumble with time“. Più pop la successiva You Want Everything dove viene fuori il lato più dolce e sensibile del gruppo, “You could try to be your best / Don’t you know that’s suicide? / To want / You want / You want everything“. Safety In An Open Mind è l’unico brano strumentale dell’album dalle atmosfere fiabesche e moderne. Glide è probabilmente il fulcro dell’album, un concentrato di quanto sentito finora con un pizzico di epicità in più, “And I roll backwards as the wheel that pulls me down / Faster than the wind blows us from the ground / As we glide“. Plans è un’altra di quelle canzoni che entrano in testa grazie al suo irresistibile “back again, back again”, “You show your gold with no hand to hold / Yeah we’ve all been told / When you wish it back again, back again, back again, / Your trail runs cold“. Con Courts gli Snowmine si fanno più oscuri ma la voce del leader Grayson Sanders si mantiene leggera, “A show of strength / No one to thank. / Your show of strength / Your page is blank“. Silver Sieve è l’altro brano di punta di Dialects, più rilassato e semplice rispetto al resto dell’album, “Shake Shake / The wind blowing / A storm still waiting back behind / It’s always over me / Taking its toll“. Chiude Dialects la bella Dollar Divided dalle tonalità folk-pop, “You’re right on time for the dwindling goose, / Who’s fewer times fed and who’s justly obtuse“.

Dialects è un album che richiede diversi ascolti prima di essere apprezzato fino in fondo, nonostante tutte le canzoni siano piuttosto orecchiabili. Rispetto al precedente è un album più coerente, più solido e meno incerto sulla strada da percorrere. Gli Snowmine fanno un bel balzo in avanti nella speranza che qualcuno si accorga di loro e possano realizzare completamente il loro sogno di essere indipendenti. Se il primo album mi aveva convinto a metà, questo ha avuto un effetto decisamente migliore. Un album dove si respira un senso di libertà e di bellezza nel quale la voce, per certi versi fredda, di Grayson Sanders evita quelle sbavature che potrebbero intaccare il fascino della musica del gruppo. Dialects è un bel album e spero sia un nuovo inizio per gli Snowmine.

Mi ritorni in mente, ep. 13

Non è mai finita. C’è sempre qualcosa che giunge inaspettatamente. Forse è meglio così altrimenti la vita sarebbe noiosa o forse no. Sarebbe una vita più sicura, con delle certezze. Ma si sa che nella vita non ci sono certezze o almeno così dicono. Si montano e rimontano le idee, “ci facciamo dei film”, come si dice. Poi la realtà è sempre diversa. Un po’ ci delude e un po’ ci sorprende e un po’ ci è scomoda. Nel nostro piccolo tiriamo avanti e giorno per giorno tiriamo le somme. Magari ad alcuni va meglio e ad altri va peggio. Tutto scorre e tutto ha una fine, aggiungerei. Sarà la primavera ma mi capita spesso in questo periodo dell’anno di pensare al futuro. Forse è perchè la natura si risveglia e si sente nell’aria un profumo d’estate, quell’estate che da bambini aspettavamo perchè significava vacanze. Significava anche che a Settembre sarebbe ricominciata la scuola. Io ricominciavo a studiare pieno di buoni propositi che poi si affievolivano quasi subito. Quando si comincia a lavorare l’estate non è quella vacanza di tre mesi ma è spesso è un Agosto un po’ più corto.

C’è sempre una canzone che mi accompagna in questo cambio di stagione. A pensarci bene ascoltare musica e aspettare le nuove uscite dei miei artisti preferiti non è poi tanto diverso dal vivere la vita. Attese, sorprese, delusioni, abbandoni, scoperte, ritorni di fiamma, colpi di testa, ricordi, emozioni e cos’altro. Una sorta di vita parallela che scorre insieme alla mia. Oggi è il turno di Rachel Sermanni. Lei sta crescendo e la sua musica sta crescendo e io con lei. Dopotutto la nostra età non è molto diversa. Il suo ultimo EP Everything Changes è davvero un grande passo in avanti. La title track è bellissima ma è Lay-Oh che sorprende. Essenziale, delicata, dolce e diretta. Non si può volere di più. Questa cantautrice scozzese è davvero unica e sembra che ne abbia ancora. Brava Rachel non fermarti, sempre avanti sempre dritto. Ci sono altre vite parallele che ti seguono. Cantane un’altra. Sempre avanti, che non è mai finita.

Chiama pure chi ti pare

We Are Augustines o semplicemente Augustines? La seconda. Pare che il cambio sia definitivo. Però questo Rise Ye Sunken Ships del 2011 vide la luce sotto il nome di We Are Augustines. La band decise di cambiare nome per non creare confusione con un’altra band, per poi, in tempi recenti ripensarci e tornare Augustines. Questo Rise Ye Sunken Ships è l’album desordio di questa band americana che confezionò qualche canzone sotto il nome di Pela qualche anno prima. Sono arrivato a loro grazie ai suggerimenti di Spotify, che ringrazio. Il gruppo, che ora si fa chiamare Augustines, ha pubbilicato di recente il suo secondo album Augustines (ma allora lo fanno apposta!) ma mi sembrava più corretto partire dal loro esordio.

Augustines
Augustines

Si comincia con la convincente Chapel Song nella quale si può apprezzare la disperazione che esce dalla voce di Billy McCarthy, “There goes my girl, into the chapel / Now she’s walking down the aisle / And it feels just like a mile / And I shake, shake, shake like a leaf“. La successiva Augustines si propone come inno della band e le caratteristiche ci sono tutte. La melodia è irresistibile e il ritornello altrettanto, “Fell asleep with a cigarette / To the flicker of a TV set / No one saw you wave your white flag“. Una marcia epica e oscura è Headlong Into The Abyss, un crescendo costruito per la voce intensa del leader McCarthy, una canzone “di pancia”, “Well call the police, go ahead call your shrink / Call whoever you want but I won’t stop the car / Well call the police, go ahead call your priest / Call whoever you want, call in the National Guard!“. Segue la splendida Book Of James, distorta, carica di energia ma sempre con un occhio di rigurdo per la melodia, “He stood there in his boots unable to move / And i came here to tell you that i love you“. East Los Angeles è una ballata in linea con lo stile americano ma con una, ormai, immancabile interpretazione accorata, “On a hot summer day / We laughed in the Polaroid / Counted all the ways, / To slow down our time machine“. Gli ingredienti sono sempre quelli ma non stancano. Juarez è un altra bella canzone, un ritornello che rimane in testa senza essere banale, cantata da una voce che, a questo punto, avrete imparato a conscere, “Lord I see red and it’s storming in my head / I got cathedrals in my ears and I think my Daddy’s dead“. Un rock più classico per Philadelphia (The City Of Brotherly Love), energico, potente, strozzato e amaro, “It’s the same people / Just different faces / All lost in a fog / And we could disappear just as easy“. Senza respiro la successiva New Drink For The Old Drunk. Il ritmo non cala mai e ti verrebbe voglia di suonare la batteria tanto per provare a vedere che succede, “Would you try? / Could you buy a new drink for the old drunk / It’s no crime to resign misery with a bottle“. Gli Augustine hanno altri colpi in canna e non si fermano, tirano il fiato e attaccano con Patton State Hospital, “You can try to fix them / But your sea legs just went seasick / Walking with rubber bands / And waking with empty hands”. Strange Days è probabilmente la canzone più spensierata dell’album, quasi divertente ma divertente non è e spensierata nemmeno, “She’s gone, gone / She ain’t never comin’ back again / So I got to turn the page“. Gli Augustines fermano la macchina dopo un lungo e intenso viaggio, tirano il freno a mano e si fermano a guardare dal finestrino. Il ritmo cala, di parecchio, rispetto al resto dell’album ma ci vuole. Barrel Of Leaves è una bella ballata che distende i nervi e ci fa scoprire una vena poetica e dolce del gruppo, rimasta un po’ nascosta finora, “When you fall from the sky / I’ll bring you barrels of leaves / But it would never soften your fall / Or ever help you at all“. The Instrumental, come da titolo, un pezzo strumentale che non ti aspetti da una band come gli Augustines.

Questo album è una sorpresa. Ogni canzone è in bilico tra un rock sfrontato e un folk americano energico ed espressivo. Rabbia, rivalsa, gioa, bellezza, dolore, c’è un po’ di tutto nonostante la voce di McCharty sia a tratti monodimensionale. La sua interpretazione disperata e soffocata, mai soffocante, fa da filo conduttore ad ogni canzone di questo album della band americana. Voce sporca ma musica pulita, mi verrebbe da dire. L’attenzione alla melodia è fondamentale per contrastare la voce del leader. Nascono così canzoni dure e spigolose ma anche dolci e morbide. Un album di speranza, a partire dal titolo, non troppo ottimista ma nemmeno troppo nel senso opposto. Un album che conserva l’animo buono del rock, che forse appartiene ad un’altra epoca.

La cupola e la marmotta

Eccomi giunto al termine di The Dome. Sono stato convinto al leggere il massiccio romanzo di Stephen King dopo le ottime recensioni di qualche blog e dopo aver visto le prime puntate della serie tv. Solo le prime puntate perchè quando Rai2 lo mise in onda cominciò a cambiare continuamente orario finché mi stancai. Mi sono bastate poche puntate per capire che l’impronta del Re era andata persa chissà dove. Così ho pensato bene di lasciar perdere la serie tv e dedicarmi al libro. Quello almeno non cambia continuamente orario. La mole del romanzo non mi spaventava, dato che tra i miei preferiti di King (se non addirittura in assoluto) c’è It, il quale è perfino più corposo.

Inutile riassumere la trama o se proprio bisogna farlo si può riassumere così: una cupola impenetrabile e trasparente cala improvvisamente su una cittadina del Maine (che caso!), la quale è nelle mani del secondo consigliere Big Jim Rennie. Un megalomane che si sente in dovere di salvare i suoi cittadini dalla deriva. Quello che succede è che sarà lui stesso a provocare disordini provocando una sorta di scissione tra buoni e cattivi. I cattivi stanno dalla sua parte e i buoni dalla parte di Dale “Barbie” Barbara. In sostanza questa è la storia. La Cupola è secondaria. Solo un pretesto per raccontare una convivenza forzata tra personaggi che, senza di essa, sarebbero vissuti in armonia. Differenze tra serie tv e libro? Vado a memoria. Angie McCain muore subito. Spoilerata? No, succede nelle primissime pagine del libro. Il primo consigliere Andy Sanders non rimane chiuso fuori dalla cittadina di Chester’s Mill come succede nella serie ma è presente in città ma in sostanza è uno che non conta nulla ed è il fantoccio di Big Jim. Mentre nel film i personaggi da una parte all’altra della cupola non possono sentirsi, nel libro posso sentirsi eccome. Barbie non è un assassino misterioso e forestiero come in tv ma un noto cuoco col passato nei marines. Non c’è nessuna coppia omosessuale con figlia nel libro. Non c’è nessun uovo nero e rosa sotto una mini cupola. Nonostante questo i personaggi di Big Jim, Barbie, il reverendo Lester Coggins, la giornalista Julia Shumway e altri personaggi minori sono comunque ben rappresentati. Dimenticavo, nel libro non c’è nessuna mucca tagliata in due, semmai una meno spettacolare marmotta. E niente farfalle.

Il ritmo è serrato per tutta la durata della storia. Ogni giorno sotto la Cupola è raccontato con i dettagli che solo Stephen King sa rendere vivi. Ogni giorno sembra un secolo, succede di tutto anche se non ci sono dei veri e propri colpi di scena. Tutto è volto a cercare di mantenere la calma in una situazione complicata come quella nell quale si sono trovati gli abitanti di Chester’s Mill. Solo alcuni, i buoni, vogliono comprendere l’origine della Cupola mentre i cattivi la sfruttano per instaurare una sorta di dittatura. Le due fazioni si delineano quasi subito e questo rende la storia un po’ insolita. Ma come si fa a tenere il lettore incollato alle mille e più pagine senza annoiarlo? Credo che la risposta è tutta nello stile di scrittura del Re. Tirando le somme, si potrebbe dire che la trama non è particolarmente complessa, lo è semmai la situazione nella quale si muovono i protagonisti. King è uno scrittore che dovrebbe scrivere un romanzo infinito ma anche questa volta ci mette un finale, il suo tallone d’Achille. Ho letto molte critiche al finale di The Dome e non do completamente torto a chi crede che sia un fallimento ma non è poi così malaccio. Sfido chiunque a trovare una spiegazione per una Cupola apparsa improvvisamente. King ne ha trovata una, un po’ in extremis ha dire il vero, e la ha piazzata lì nel finale. Forse avrebbe potuto fare di meglio e forse un’altra idea più intelligente avrebbe richiesto un altro romanzo e questo era già piuttosto lungo. Se siete alla ricerca del finale perfetto in ogni libro, sicuramente King non fa per voi, per quello che conta quando si legge un suo romanzo è il viaggio e non la meta, e viaggio di The Dome è stato fantastico.