Cinque colpi delle dita, ep. 8

Durante l’estate ho dedicato un po’ di tempo per recuperare qualche film che negli ultimi anni mi sono appuntato ma non sono riuscito vedere. Qualcuno non è nuovo ma per chi come me non l’aveva mai visto, si tratta pur sempre di un nuovo film.

Per cominciare mi sono buttato su Hustlers – Le ragazze di Wall Street come si fa con gli antipasti. Per farla breve, un gruppo di spogliarelliste si accorda per derubare i vari affaristi che a loro volta derubano la povera gente con le loro manovre finanziarie. Un film ispirato ad una storia vera ma a quanto ho letto anche epurato delle vicende più torbide delle protagoniste. Scelta opinabile ma poco importa. Jennifer Lopez cattura l’attenzione ogni volta che entra in scena (non solo per l’interpretazione più che riuscita.. ehm) e un’ottima Constance Wu le fa da spalla. Passano i minuti e la storia non va da nessuna parte. Non si capisce se c’è una morale di fondo oppure no. Non una commedia, non un thriller, non un film drammatico. Insomma è un film che fa un gran baccano ma si spegne subito. Voto 6

Un piccolo favore invece se l’è cavata decisamente meglio. Commedia thriller molto particolare con protagoniste una carismatica e stilosa Blake Lively e una simpatica ma terribile Anna Kendrick. Due donne diametralmente opposte fanno amicizia ma le cose non sono esattamente come sembrano. Il personaggio della Lively a volte è un po’ troppo sopra le righe ma a lei si può perdonare tutto. Il ritmo è serrato finché la trama non si svela, forse anche troppo presto, lasciando spazio ad un finale un po’ surreale ma godibile. Un film piacevole, un bel mix tra commedia e thriller come non è facile trovarne. Voto 7

Non sono un grande appassionato di film horror, anzi proprio per nulla. Però Hereditary – Le radici del male mi ha incuriosito. Se poi ci aggiungete che si tratta del debutto del regista Ari Aster allora l’interesse è balzato alle stelle. Fotografia impressionante. Questo è quello che colpisce di più. Pochi jumpscare e molte sequenze lente ma tese. La prima metà è un dramma familiare piuttosto inquietante. Poi succede qualcosa di inatteso e tutto precipita. Toni Collette è formidabile, da brividi. Le scene più macabre sono esplicite senza sconfinare mai in un spudorato splatter. Un film inquietante davvero ma non disturbante, fatto di piccoli indizi disseminati qua e là che trovano posto solo ripensando a quanto visto. Il finale, seppur ben fatto, è un po’ una soluzione all’americana per intenderci. Si avvicina pericolosamente al grottesco ma nulla toglie a ciò che viene prima. Voto 8

Prima di buttarmi a capofitto in Tenet volevo recuperare il suo antesignano, ovvero Memento, sempre di Christopher Nolan. Un uomo, a causa di un’aggressione, che costerà la vita alla moglie, perde la capacità di sfruttare la memoria a breve termine. Nonostante ciò decide di indagare per proprio conto e trovare l’assassino. Come fare a rendere l’idea di queste amnesie e trasmetterle allo spettatore? Semplice: raccontare la storia dalla fine, dal ricordo più recente a quello più lontano nel tempo. Il film è suddiviso in una ventina di scene che finiscono laddove cominciava quella precedente. Chi guarda in pratica sa come finirà quella scena ma come comincia. Fenomenale l’idea, tutta basata sul montaggio. Nel mezzo ci sono ulteriori scene in bianco e nero che sono un prologo alle vicende a colori. Alla fine vedremo tutto più chiaramente. O forse no? Mille dubbi vi assaliranno e non sarete più sicuri di nulla. Sarebbe un film da 10 ma i tatuaggi perfetti fatti con un ago e l’inchiostro di una penna bic mi hanno lasciato perplesso. Da vedere assolutamente se non l’avete mai fatto. Voto 9

Altro filmone d’altri tempi che mi ero perso è L’esercito delle 12 scimmie. Bruce Willis, viaggi nel tempo, un virus letale (ugh!) tutto in un solo film. Mi aspettavo chissà quale trip temporale e invece si è rivelato un film piuttosto lineare. Anzi fin troppo. Tante, troppe coincidenze, ricordi che non sono ricordi e scene inutili e ripetitive smorzano un po’ la tensione. Perché portare il protagonista nelle trincee della Prima Guerra Mondiale? Solo per l’indizio del proiettile? Perché futuro e passato si sovrappongono così tanto da risultare quasi irreale il primo? Tutto molto bello se non fosse per tanti piccoli difetti. Credevo fosse un filmone cult da vedere e rivedere e invece l’ho trovato un bel thriller (invecchiato bene) e poco altro. Voto 7

Il buon M. Night Shyamalan bussa sempre alla mia porta e io l’apro consapevole che rimarrò deluso un’altra volta. Split non era uno di quei film che bramavo di vedere ma volevo togliermi definitivamente il dente dolente. Un uomo ha 23 personalità diverse che più o meno convivono tra loro. Alcune di queste non sono affatto buone e hanno intenzione di risvegliare la personalità numero 24, la Bestia. Ora, perché dare così tante personalità e mostrane poi solo 5 o 6? Non era meglio fare, che ne so 6 personalità, più una? Si arrivava a 7 che ci stava bene quando entrava in gioco l’aspetto paranormale. E sì perché quando si inizia a parlare di entità superiori e compagnia bella si inizia a sentire anche puzza di bruciato. Quando poi finalmente arriva la Bestia tutto deraglia e va a farsi benedire. Occasione sprecata, così come è sprecata l’interpretazione di James McAvoy ed è solo merito suo se il film raggiunge la sufficienza. Voto 6

Finalmente Tenet. Si è letto di tutto su questo film: è una storia palindroma, è cervellotico, un trip temporale senza precedenti eccetera eccetera. Ora che l’ho visto mi sono fatto la mia idea, ed è questa: non ho capito nulla. Ma attenzione, non è colpa dell’inversione temporale o dell’entropia inversa. No, no. Alla fine tutto questo invertire si traduce in un viaggio nel tempo con tanto di paradosso del nonno. Già visto in numerosi altri film, niente di nuovo. Il problema è la storia. Il Protagonista (si chiama proprio così, neanche lo sforzo di trovargli un nome) fa cose, insieme ad altri che fanno altre cose fin dal primo minuto. Americani, russi, ucraini, spie, contro-spie. Lo spettatore è catapultato in uno scenario complesso nel quale è difficile se non impossibile districarsi. Il cattivone russo in ciabatte che vuole distruggere il mondo poi è davvero troppo. Mentre voi sarete lì a cercare di tenere il filo delle vicende senza riuscirci, il Protagonista continua a fare cose viaggiando per il mondo, un po’ in avanti e un po’ all’indietro ma sempre cose fa. Quasi tre ore, tutte così. Lo scontro finale è l’apoteosi di Tenet in tutti i sensi. Fracassone come tutto il resto del film, esplosioni a caso che vanno al contrario anzichenò, soldati che corrono di qua e di là, un po’ in avanti e un po’ all’indietro. Degna conclusione incomprensibile per un film freddo, senza approfondimenti ma con numerosi spiegoni, decisamente troppi, che denotano la scarsa efficacia della sceneggiatura. Se devi spiegare il film nel film vuol dire che hai sbagliato qualcosa, caro Nolan. Gli effetti speciali, le ambientazioni, la poca CGI presente mi spingono alla sufficienza. Tutto il resto è noia. Delusione. Voto 6

Dovevo in qualche modo correre ai ripari. Perché non vedere un altro film di Ari Aster? Midsommar – Il villaggio dei dannati è il suo secondo lungometraggio. Ancora una volta un horror del tutto particolare. Un gruppo di ragazzi americani, tra cui Dani interpretata da un’ottima Florence Pugh, viene invitata da un amico in Svezia in una comunità locale per celebrare la festa di mezza estate, un rito con origini pagane. Il resto potete immaginarlo. La particolarità di questo film è che è un horror alla luce del sole, infatti è ambientato nei mesi di luce che caratterizzano il Nord Europa. Tutto è sempre illuminato, colorato, ricco di fiori e allegria. Ma c’è sotto qualcosa. Il regista ce lo svela un po’ alla volta, indugiando sulle difficoltà della coppia Dani-Christian. Come per il precedente, Aster si diverte a disseminare indizi comprensibili solo alla fine, così come i numerosi riferenti alla cultura pagana e la numerologia. Il film si apre con una sorta di dipinto che riassume tutte le vicende in chiave allegorica. Non possiamo comprenderlo se non giunti alla fine. Bello davvero, uno di quei film che ti lascia qualcosa dentro. Sarebbe un 9 pieno ma qualche scena grottesca che fa sorridere si poteva evitare. Voto 8

Infine The Hunt. Sinceramente non sapevo cosa aspettarmi da questo film. Mi sono ritrovato un pazzo film d’azione un po’ splatter misto a commedia. Un élite di ricchi signori benpensanti e politically correct organizza una caccia all’uomo. Le prede sono i leoni da tastiera di vario genere soprattutto complottosti. Ma tra questi c’è un cazzuttissima donna, Crystal, interpretata da un’irresistibile Betty Gilpin, che crea qualche problema di troppo. Divertente e per certi versi piuttosto originale soprattutto all’inizio. Novanta minuti che filano via spensierati, che a volte offrono anche qualche spunto di riflessione. Curiosa la partecipazione di Sturgill Simpson. Mi ha divertito. Voto 7

Meglio imparare ad annegare

Tra i nomi emergenti della musica country spicca quello di Vincent Neil Emerson, cantautore americano al suo secondo album omonimo. Nonostante la giovane età, questo ragazzo ha già avuto dalla vita numerosi dolori. Il suicidio del padre, l’alcolismo, la morte del fratello in un incendio e la perdita di un amico per colpa della droga. Anche la vita in strada ha plasmato l’animo di Vincent Neil che non si è lasciato sopraffare dal dolore e, grazie all’ispirazione arrivata dal compianto Townes Van Zandt, ha trasformato tutto in canzoni e questo album ne è il risultato. Anche Colter Wall ne è rimasto impressionato e dunque perché non seguire il consiglio di un altro grande cantautore country di nuova generazione?

Vincent Neil Emerson
Vincent Neil Emerson

Si comincia con Texas Moon, un ballata country che ci porta a vagare per le strade in cerca di qualcosa. La voce di Emerson è magnetica e carismatica, sembra essere nata per tutto questo, “Well I been worn out for much too long / Livin’ somewhere between right and wrong / And I’m only useful after I’m gone / Absence don’t always make the heart grow fond“. La successiva Debtor’s Blues è un country blues, scritta con sincerità ed un raro talento. Una poesia dolorosa e forte che non lascia indifferenti, “Well the world is on its head / And I thank my lucky stars that I ain’t dead / I’ve spent my whole life in the red / And I’ve done my best to keep my family fed / But when I lay my burdens down / Keep my debts out of your mind just for a while / All my troubles and my trials / They lay scattered on the trail for miles and miles“. High On The Mountain è un honky tonk vecchio stile che ci fa ascoltare un bel assolo di chitarra e ci intrattiene per qualche minuto, “High on a mountain-top again / High on a mountain-top again / High on a mountain with all my ramblin’ friends / High on a mountain-top again“. Uno dei momenti più alti dell’album è sicuramente Learnin’ To Drown. Ballata country autobiografica ben scritta e capace di dare qualche brivido. Vincent Neil Emerson dimostra tutto il talento del quale è dotato e ci regala una canzone tanto triste quanto meravigliosa, “I spent my whole life wonderin’ why I’m down / I don’t feel easy if the blues don’t come around / And my face don’t look right without a frown / Well if you can’t swim you better learn to drown“. Ripplin’ And Wild si rifà alle sonorità del folk americano per ripercorrere con la mente tutte le difficoltà della vita e il vagare senza meta. Emerson canta la necessità di rifugiarsi in qualcosa e l’alcol sembra l’unica risposta, “Well the life of a rambler is matched by the gambler / I’m reelin’ straight out of my mind / Well I just don’t feel right underneath all these lights / So I hide in the pleasures I find“. In Durango la città messicana fare da sfondo ad una canzone di separazione e malinconia. Un’altra bella canzone che ci avvicina sempre di più all’anima di questo artista, “So I sit down on the tarmac / Let the tears fall in my lap / And I thought about the way she laughed / Eyes of green, the love they’ve seen, well / I guess it don’t mean a thing / In the end darlin’, oh in the end“. Il pezzo forte dell’album si nasconde sotto il titolo di The Ballad Of The Choctaw-Apache. La melodia richiama la leggendaria Jolene e anche questa volta è una storia triste. Una diga strappa ai nativi americani le loro terre, il denaro non può ripagarli di tutto ciò che hanno perso, “Well 180,000 acres of ancestral land / That’s all been river bottom, flooded by the dam / I am a proud Choctaw-Apache man / But it just don’t mean a thing to the faces in your hand“. White Horse Saloon torna ad affrontare il demone dell’alcolismo. All’apparenza una canzone leggera ma che nasconde un malessere che sembra senza fine, “As I count the change, all that’s left in the bank / Well I can’t help but think of all the time gone to waste / Time equals money, money еquals time / But sometimes thе reason well it don’t always rhyme“. High On Gettin’ By è ancora una sincera confessione, tutti i sogni si infrangono contro la dura realtà. Emerson tratteggia la melodia con la chitarra ma è la voce che emoziona e fa riflettere. Un gioiellino da ascoltare, “I got my first child on the way and the bills are all unpaid / I should have finished high school, got a job and learned to save / But the words they keep on fallin’ and the highway keeps on callin’ to my pen“. Si chiude con Saddle Up And Tamed che alleggerisce l’album e canta l’amore per una donna. Questo ragazzo ci sa fare non c’è più alcun dubbio ormai, “Well I’ve been out here stumblin’ through the world just like a child / And often I don’t know which way to turn / And I ain’t the smartest but I’m smart enough to know / When the sparks start to fly honey, let it burn“.

Vincent Neil Emerson è un album che è ad di sopra di qualsiasi genere musicale. Sì, perché al di là che possa piacere o meno la musica country, e qui è al meglio, questo cantautore ha messo un pezzo di sé stesso in ogni canzone. C’è quella famosa urgenza creativa che nasce da eventi tragici e dipendenze difficili da estirpare. C’è la vita di un uomo in queste canzoni. Vincent Neil Emerson si prende la scena con una voce sempre venata di tristezza che sembra chiedere solo un po’ di comprensione. Qui c’è quello che un cantautore dovrebbe fare, provare a mettere in musica e in parole qualcosa di più grande e insondabile. La musica country viene incontro a chi, come quest’artista, è in grado di sfruttarne le infinite risorse emotive.

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Il tempo è un grande guaritore

Lo scorso anno ho finalmente potuto ascoltare la musica di Josienne Clarke dopo che per anni era rimasta della mia wishlist. Il suo album In All Weather mi aveva piacevolmente sorpreso e non ho resistito a recuperare poi il suo debutto da solista One Light Is Gone. Quest’ultimo è uscito ad undici anni di distanza dal nuovo A Small Unknowable Thing. Cantautrice e poli-strumentista abile, Josienne Clarke è da anni sulla scena musicale ma non per questo si accontenta di rimanere nella sua comfort zone, finalmente libera dai desideri di una casa discografica e di produttori. Non sapevo cosa aspettarmi da questo nuovo album ma ero sicuro che avrei ritrovato la voce di quest’artista e ciò mi è stato sufficiente per precipitarmi appena possibile su questo disco.

Josienne Clarke
Josienne Clarke

Super Recogniser ci introduce in questa nuova avventura. Una dichiarazione di intenti che viaggia sulle note di una chitarra. La voce della Clarke si prende la scena e taglia l’aria con le parole, “Clarke isn’t being told what to do. / Trying to strike a chord / That you haven’t heard before / You’ll recognise it / You recognise it all“. Il suono distorto della chitarra in Like This apre alle nuove sonorità di questo album ma sembra continuare con il tema di apertura. La libertà di esprimersi attraverso la musica era limitata dagli altri. Non più ora e forse questa chitarra graffia proprio per liberarsi dal passato, “White noise for the ear / Valium to the brain / Same voice mumbling / Over and over / Over and over again / I’m sick and tired of being told it doesn’t stick / When you won’t sing it, / When you won’t sing like this“. Never Lie riprende invece il sound al quale la Clarke ci aveva abituati. Una voce venata di malinconia ma viva e vibrante, canta una riflessione sul peso della verità, “If you can only learn to let it lie / Then all the falling stays up in the sky / I never lie / The truth runs all through my inside / Just pretend you didn’t hear / Nothing good will ever disappear / I can never lie, dear / The truth is like a needle in my ear“. Forse la canzone più oscura dell’album è Chains. Tutti abbiamo delle catene nella vita, che ci trattengono da qualcosa e delle quali fatichiamo a liberarci. Josienne Clarke continua a colpire con la voce e le parole e c’è poco spazio all’interpretazione, “These, these are the chains we forge in life / And I’ve finally found a promise I can keep / But is it too late / Is it all laid to waste / Does it all run too deep ?“. La successiva If It’s Not continua sulla stessa lunghezza d’onda e nella sua breve durata riesce ad esprimere il sentimento di un amore come coronamento e senso della vita, “If it’s not a love I can use / What is it for, what is it for? / If it’s not a dream that I’m in / It’s really no good to me“. Cambio deciso di marcia con Sit Out che svolta verso un sound più rock. Una canzone carica di risentimento che corre sulla voce pulita della Clarke, “I’ve not heard a word of contrition / You don’t learn how to firm your position / All you stand for / Makes me want to sit out“. Sting My Heart è un’altra breve riflessione in musica. C’è una traccia di dolore nella voce e le parole sono pesate una ad una, “No I don’t have a shell / And why can’t you tell / Why don’t you care / Why isn’t it a thing / To sting my heart so badly“. Tra le canzoni che preferisco c’è The Collector. Ispirata dal romanzo di John Fowles, “Il collezionista”, è tessuta su una melodia leggera ed orecchiabile. Ma è solcata da un suono distorto e un senso di oppressione che la voce della Clarke trasmette attraverso le parole, “You’re the collector / You’ll keep me forever / A small unknowable thing / With you as preceptor / Cos you’re the collector / Who owns unownable things / By pinning their wings“. Tiny Bit Of Life riflette ancora sulla vita e sull’amore, su di un tappeto di suoni scorre leggera la voce. Una poesia carica di sentimento che prova tutto il talento di questa cantautrice, “I’m not being maudlin dear / It’s hard a thing to resign / Know all you wanted all at once / And lose it at the same time“. A Letter On A Page sembra continuare la riflessione sulla vita e il tempo intrapresa nel album precedente. La musica e l’arte si legano alla vita e di essa diventano espressione, “Love is like setting sun / Like a letter on a page / One will burn / The other slowly fades / So I love you like a setting sun / Like I’ll know no other day / All temporary truth / Sung upon a stage“. Ma le sonorità rock si riprendono la scena con Deep Cut, questa volta smorzate da un approccio folk. Un taglio netto con qualcosa che appartiene al passato, vecchie canzoni e antichi rancori. A volte arriva il momento di dire basta, “You’re nothing but a deep cut in my back catalogue / You’re nothing but wasted time / A rejected line / From a song I never sing anymore / I wish you whatever you want / But don’t come darkening my door“. Out Loud è un’altra canzone della quale è facile innamorarsi. Voce melodiosa e una chitarra sostengono parole di rivalsa e rinascita. Josienne Clarke non sbaglia e tutto funziona a meraviglia, “I married this guy / And I didn’t lie but I barely told a soul / Pretty cold / And the next guy I had, well I didn’t share that / And no one even knows“. Repaid è ancora una poesia e forse anche il testo più criptico di questo album. Un accompagnamento ricco e vario da profondità alla canzone, illuminata come sempre dalla canto, “I cannot be maligned / Or mislaid / I will not be defined / Or displayed / For all that I remain / I will not give way“. Unbound segna la fine dell’album e suona come un saluto. Un arrivederci ad un tempo che ci vedrà ancora una volta diversi, “Time is a great healer / And I’d wager space can do that to / As I look out at all the water / I feel damage beginning to undo“.

A Small Unknowable Thing è un album che vede rinnovarsi in Josienne Clarke l’amore per la musica, per ciò che è il suo lavoro, la sua vita. E lo fa con una ritrovata libertà d’espressione e la volontà di sperimentare nuovi suoni. Josienne Clarke però non può nascondere quella sua voce così pulita ma sempre venata da una malinconia che può diventare rabbia o gioia. Nulla può mascherarla. Sono quattordici le tracce che compongono A Small Unknowable Thing ma la maggior parte di esse resta sotto i tre minuti, a testimonianza dell’urgenza creativa ed espressiva che ha accompagnato la sua nascita. I pensieri affiorano frammentari, portati dalla mente e dal cuore, impressi in istantanee sincere e libere da condizionamenti. A Small Unknowable Thing è un ottimo album, uno di quelli che ti fa riflettere se sia necessario scrivere di esso oppure limitarsi all’ascolto e lasciare quindi che tutto vada da sé.

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Persi in questo incantesimo

A distanza di due anni dal precedente Old Country, torna la cantautrice americana Andrea von Kampen e lo fa con l’album That Spell, uscito lo scorso agosto. I singoli che lo hanno anticipato confermavano intatto lo stile di quest’artista, con le sue melodie folk e la voce delicata ed eterea. Come sempre, quando giunge il momento di ascoltare il secondo album di un artista, la curiosità è alta perché non si può mai sapere cosa si troverà al suo interno. Alcuni artisti però, come la von Kampen, non danno mai l’impressione di voler sorprendere e quindi cambiare radicalmente il loro approccio alla musica. Puntano piuttosto su ciò che esprime meglio la loro personale visione, lasciando che sia più naturale e semplice possibile.

Andrea von Kampen
Andrea von Kampen

Un solo verso per poco più di un minuto, dal titolo Of him, I Love Both Day And Night, apre l’album. Un’introduzione gentile e sfuggente alla musica di quest’artista, ispirata alle parole di Walt Withman, “Of him, I love both day and night / Though I heard somewhere he had gone / That was the first time that I lived / Now it all seems so twisted and wrong“. Segue Take Back Thy Gift che conferma lo stile poetico della von Kampen. Una canzone malinconica che insegue una melodia fragile e sognante, che sembra voler intrappolare piacevoli ricordi, “Oh, the woods decay, so do they / Plow the fields, then lie beneath / I remember wild and sweet melodies / In April, hear those lips that kiss so sweet“. La title track That Spell è carica di speranza e di sogni. La melodia è luminosa e dolce, accarezzata da un canto morbido. Un canzone che trasmette positività e ottimismo ma che invita a combattere per tutto ciò che è ingiusto, “Lost inside that spell for a while / All of us learn the trick of a silent smile / And, ladies, they now hold the keys / And I don’t say yes to you because you want me to“. Celilo si poggia sul suono della chitarra e si ispira alle sonorità più classiche del folk americano. Questo brano vuole trasmettere le sensazioni, i cambiamenti di questa località dell’Oregon caratterizzata dalla presenza di nativi americani, “Goodbye to the place my mother knew / The lives we lost just to benefit the few / This land is your land and this land is mine / Where are my wheat fields and dust clouds rolling by?“. The Wait è una lenta ballata, che parla di vita e di amore. La von Kampen prende in prestito le parole del poeta Ranier Maria Rilke e le trasforma in canto nel migliore dei modi, “It is life in slow motion / It’s the heart in reverse / It’s a hope-and-a-half / Too much and too little at once“. Water Flowing Downward è forse la canzone più oscura e malinconica di questo album. Il testo è criptico, composto di cose dette e non dette, che affascina e carica di mistero questa canzone, “Take what’s given / And don’t ask questions / Do your best to look away / But I can’t go softly / I won’t go gently / I’ll choose the water everyday“. Carolina è una canzone nostalgica, poetica e toccante, ispirata da Carolina in My Mind di James Taylor. La voce della von Kampen la illumina con la sua delicatezza e leggerezza. Una delle canzoni più belle di questo album, “I want the Carolina James told me / From my childhood / And all the while Mom sang along / I knew she understood / That all of us need to go / Where we can be heard / And I know my time has come / I think my time has come / Maybe my time frame’s getting blurred“. La successiva Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder) è introdotta dalle note di un pianoforte. Le sonorità folk vengono messe da parte in favore di un sognante e romantico pop che meglio di fa apprezzare la voce di quest’artista, “Don’t talk, put your head on my shoulder / Come close, close your eyes and be still / Don’t talk, take my hand and let me hear your heartbeat“. Si torna alle sonorità folk con la bella Wedding Song. Una canzone romantica, come lascia presagire il titolo, ma nient’affatto scontata. Il testo è molto poetico e sensibile, ispirato dalla storia di Romeo e Giulietta, “Father, bless us both with hearts to share / My pure invocation of a lover’s prayer / Please don’t hesitate for time only takes / Still be in love when the morning breaks“. Si chiude con Magdalene che ricalca le sonorità dell’esordio. Il suono della chitarra e la voce malinconica bastano per darci ulteriore prova del suo talento ed emozionarci un po’, “Ohh, ohh / History is wrong from time to time / Ohh, ohh / The winners, oh, the winners always lie / Mm, mm / My Magdalene“.

That Spell è un album nato durante la quarantena dello scorso anno, in quel tempo sospeso che tutti noi abbiamo affrontato. Andrea von Kampen tira fuori una serie di canzoni che vogliono racchiudere ricordi e riflessioni, sensazioni sfuggenti che solo grazie ad una scrittura sicura e pulita, riescono a sopravvivere. Rispetto all’esordio c’è una maggiore varietà di suoni, sempre prevalentemente acustici, che rispecchiano le diverse emozioni che la von Kampen vuole trasmettere. That Spell è un album breve, apparentemente semplice ma che richiede più ascolti prima di apprezzarne lo sforzo creativo che si traduce in un delicato e lento viaggio fatto di pensieri. Andrea von Kampen fa un passo avanti molto importante, senza rinunciare a nulla di ciò che di buono aveva fatto all’esordio, anzi migliorandosi ulteriormente.

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Inchiostro – Permesso verde

Anche quest’anno mi è stata concessa la possibilità di dedicare qualche ora al disegno durante le ferie estive. Ho ripreso in mano la penna e un blocco di fogli bianchi e questo è il risultato. Ho faticato un po’ a trovare dei soggetti che non fossero sempre gli stessi e probabilmente è per questo che ne ho fatti qualcuno in meno. Diversi mi hanno richiesto parecchio tempo e qualche tentativo a vuoto ma alla fine sono piuttosto soddisfatto di quello che ho fatto. Nessuno di questi è esente da errori ed imperfezioni ma pazienza. Cerco sempre di migliorarmi per quanto possibile. Galleria Flickr: Disegni 08/21

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