Ho visto tante, tante cose

La prima cosa che mi ha incuriosito di questo album è stata la copertina. L’artista, Shayna Adler, è ritratta con abiti che ricordano un po’ lo stile fantasy, in un’atmosfera altrettanto misteriosa. Prima di ascoltare l’album, mi ero già immaginato un folk di quelli un po’ new age o vagamente gotici, chissà perché. Invece, Wander, è qualcosa di diverso e lo si intuisce fin dalle prime note. Un mix di americana, folk e indie è la ricetta di questa cantautrice californiana al suo debutto. Una sorta di concept album, un viaggio affascinante fatto di storie e personaggi. Non resta che immergersi in questi nove racconti in musica.

Shayna Adler
Shayna Adler

The Life I Could Create dà inizio al viaggio. Come nell’incipit di un buon libro, ci troviamo nei panni di un altro, in un mondo da scoprire. Un folk elegante e pulito che incuriosisce a partire dal testo, “Am I the creator / Of my own despair / Am I the inventor / Of what’s not really there / How do I leave this place / Of my own device / Of my own disgrace / Is it me / That paves my own delay“. Into The Forest si apre ad un marcato folk americano, con una melodia orecchiabile che intesse una trama ricca di fascino. Intorno noi si apre un’ambientazione che promette cose meravigliose, orizzonti da esplorare, “And we are growing like the sycamore / Will never see its knees / And we are soaring like the smallest bird / Who stands on heaven’s feet / And soon you will see / And soon you will see“. Tra le mie preferite c’è Gypsies & Caravans. Ogni volta che l’ascolto mi immagino una carovana di gitani, che ha preso posto in qualche remota radura, ballare attorno ad un fuoco ed ammaliare gli stranieri con le loro storie e magie. Davvero una bella canzone, evocativa come poche altre, “The waltz of a world / Of gypsies and caravans / Bells on her hips / The fires, the music man / Circling me / Their leader, the magician / Who calls out to me / Lost by admission“. La successiva Manchester Stone ha il fascino oscuro della magia. Un indie folk ispirato e coinvolgente, fatto di immagini misteriose che si susseguono dando vita ad una delle storie di questo album, “Of clockwork and castles / And horses to ride / With the thrill of the chase / In the dead of the night / And a world full of magic / Like never I’ve known / In this everyday life / Of Manchester Stone“. Dear Capricorn è una ballata, una lettera d’amore, una poesia. Qui la Adler mette in mostra le sue doti di songwriting, dando alla luce un’altra bella canzone, ancora una volta differente dalle altre, “Is it possible to love someone / And only know their name / Is it possible to find yourself / In all the loss you’ve gained / And if I saw the truth / Would all the colors stay the same / If love could be explained“. Quiet As The Moon volge lo sguardo al cielo e ci guida alla scoperta delle stelle. Un folk americano ricco di sfumature fa da sfondo alla voce calda ed educata della Adler, “Can you feel Orion near / The otherworldly cavalier / With haunting conversation / And stories of creation / But I’ve seen so many, many things / Troubled by such little strings / And all I have is here / Oh, can you feel Orion near“. Decisamente più country, con sfumature western e folk rock, la bella Stagecoach Sally. Anche qui le capacità della Adler di evocare immagini nitide sono confermate. La musica, l’interpretazione, le seconde voci maschili, tutto è curato nel dettaglio e si sente, “Stagecoach Sally / Gonna shake your alley / Gonna make you leave your / Shotgun by the door“. Una casa è un luogo speciale in The House. Un luogo dove il tempo lascia il segno, uno scrigno personale. Un folk come sempre ispirato dove il testo è al centro dell’attenzione, “Welcome to my house / The moment has taken its form / Welcome to my house / I just want to thank you / For knocking upon my door“. Il viaggio si chiude con Sunday Smile è un country luminoso che spazza via le atmosfere più cupe, ma non meno ricche di meraviglia, che lo precedono. Un lieto fine come ogni bella storia che si rispetti, “Honey don’t you frown at / All the good that you found / You’ll wear your Sunday smile / Monday morning / Honey don’t you cry / You were only young and wild / You’ll wear your someday smile / Without warning“.

Wander è un album particolare, capace di portarci il luoghi meravigliosi come un buon libro. Allo stesso modo ci vuole un po’ di tempo per ambientarsi e trovare il ritmo della narrazione ma con la guida di Shayna Adler non ci si può perdere. Interessante questa visione nuova del folk americano e del country, influenzato da un immaginario fantastico, che spazia dai cavalieri ai fucili, dal deserto alle foreste, dalla magia agli zingari. Sì, indubbiamente Wander è un ottimo album che mi ha lasciato quella sensazione di non voler abbandonarlo dopo l’ultima nota. Un po’ come succede con un buon libro. Shayna Adler è uno di quei nomi che mi devo appuntare perché sono sicuro ci regalerà ancora altre storie e altri personaggi in futuro.

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Mi ritorni in mente, ep. 73

Ho scoperto questo gruppo per caso, cercando qualcosa di nuovo da ascoltare su Bandcamp. The Deep Dark Woods sono un gruppo canadese guidato da Ryan Boldt che ha pubblicato lo scorso aprile un EP intitolato Broadside Ballads Vol. II. Devo ancora approfondire la loro conoscenza ma generalmente, mi parso di capire che questa band offre un tipo di musica diverso da queste ballate tradizionale. Si tratta di un folk rock che si ispira però anche alla tradizione. Una scoperta interessante che ben si confà ai miei gusti musicali. Sicuramente non mi fermerò a questo EP.

Cinque canzoni per altrettante versioni di ballate tradizionali. La voce Ryan Boldt mi ha fin da subito colpito, ricordandomi quella di Tom Smith nelle sue performance più acustiche. Accompagnamenti scarni danno risalto proprio alla voce e alla poesia di questi capolavori. Broadside Ballads Vol. II è uno scrigno di musica senza tempo da ascoltare in questo autunno che si sta facendo da parte per far passare il Generale Inverno.

Una pallottola al cuore

Chi segue questo blog sa bene, o dovrebbe saperlo, che tra gli artisti che amo di più c’è Amy Macdonald. Questa cantautrice, fieramente scozzese, mi accompagna ormai da diversi anni, almeno dieci, e quando ho saputo che sarebbe uscito il suo quinto album in questo triste 2020, ho pensato che almeno una cosa bella sarebbe successa. The Human Demands arriva a tre anni di distanza dal precedente Under Stars, il quale si era fatto attendere per ben cinque anni. Premessa: Amy continuerei a seguirla indipendentemente dal genere musicale decidesse di fare in un suo disco. Detto questo, il suo ultimo singolo Woman Of The World, uscito in occasione del suo “best of” del 2018, sembrava abbracciare sonorità decisamente pop. Cosa aspettarsi dunque in questo nuovo album? Puntare ad un pop dalla presa facile o andare sul sicuro e fare la Amy di sempre? Ebbene, la risposta è: nessuna delle due. Ascoltare per credere.

Amy Macdonald
Amy Macdonald

L’iniziale Fire riprende le sonorità più vicine agli esordi. Il fuoco è un’immagine ricorrente nella musica della Macdonald. Il ritornello orecchiabile e liberatorio sono caratteristici e i richiami alle produzioni passate sono evidenti, quasi autocitazioni. Non ci poteva essere inizio più promettente, “Full blown fire burning in my heart / I’ve got a little bit of what you are and / I’ve got the light, you’ve got the spark / We’re home, we’ll never be alone“. Si prosegue con la bella Statues. Non nego essere tra le mie preferite. Il ritmo prende il sopravvento sulla melodia, la voce della Macdonald segue a ruota con il suo inconfondibile timbro. Una malinconica ma che vive di una particolare gioia. A questo punto si inizia ad intravedere qualcosa di nuovo, “All the children stand like statues / On the street where I was born / It’s a street where nothing changes / But the road where I come from / Now the cherry blossom’s falling / And the nights are drawing in / Oh, I’m standing here, I’m frozen / As the world goes ‘round again“. Il vero punto di svolta è forse Crazy Shades Of Blue. Probabilmente una delle canzoni più cupe della sua carriera. Non riesco ad immaginare nessun altro cantare questa canzone, dove il sorriso della Macdonald lascia spazio ad un’accorata presa di coscienza, “And this world’s a crazy shade of blue / It’s lost and lonely without you / The air feels thick and I can’t breathe / I’m under now, we’re in too deep“. Ci pensa The Hudson a tirarci su il morale. Il singolo di punta dell’album è ispirato ad un viaggio a New York dei suoi genitori negli anni ’70. La canzone affronta le illusioni di una giovane coppia di innamorati che devono, oggi, fare i conti con gli anni. Un ritorno alle sonorità classiche di quest’artista che sono sempre benvenute, “Where did it all go wrong, my love, where did we fall apart / Summer in the 70s, living like a king and queen / Looking back on where we are / Where did it all go wrong, my love, where did we drift away / Walking along the Hudson, singing you my love song / Never let it fade away“. La title track The Human Demands è una cavalcata pop rock che affronta la solitudine che sembra emergere prepotente con il passare degli anni. Amy Macdonald appare sincera più che mai ma soprattutto matura e consapevole. Il ritornello è semplicemente perfetto, “Do you ever really feel like you’re all alone / When you’re surrounded by the people that you love the most? / And you can’t explain it ‘cause they won’t understand / It’s not simple feelings, it’s the human demands“. Il pezzo più rock dell’album è, a mio parere, We Could Be So Much More. A tratti persino un po’ punk. Davvero una Macdonald in splendida forma, una canzone carica di energia e risentimento, con un ritornello che ti prende per il collo,”Will you save me? I’ve been holding on / Treading water since the day I was born / Will you teach me how to live again? / I lost it all inside my head / I lost it all in life and love my friend / Can we start again?“. Quasi inaspettata giunge Young Fire, Old Flame. Una canzone acustica, folkeggiante che ricorda gli esordi di quest’artista. Quella voce così unica, che mi ha folgorato anni fa, la ritrovo qui, intatta come se il tempo non fosse mai passato. Un gioiellino, “Young fire, old flame / Look at you, you’re back again / Weighing me down like a ten tonne train / Young fire, old flame“. Bridges è un ancora un bell’esempio di quello che rappresenta questo album. Ancora spazio al rock dove le tinte più cupe si fanno spazio attraverso parole ed immagini vivide e forti. Tutto questo mi piace e ancora una volta un ritornello da manuale, “‘Round and ‘round we go / I’ve heard it all before / Will you twist the knife? / ‘Cause I can’t feel it anymore / A bullet to my heart / Lying broken on the floor / Just kick me when I’m down / ‘Cause that’s the man you are“. Strong Again sorprende per delle contaminazioni vagamente elettroniche, spazzate via però da una melodia appiccicosa e davvero inedita per lei, “Oh, I want to let you know / The words just don’t come out / I want you to be strong again / Oh, it’s harder every day / ‘Cause life gets in your way / I need you to be strong again“. Something In Nothing chiude questo album. Un lento pop rock che racchiude in sé il mood dell’album. La voce della Macdonald è come di consueto calda e più profonda del solito. Un altro brano che si fa apprezzare per le sue caratteristiche insolite rispetto alle precedenti produzioni di quest’artista, “They think I’m crazy but they’ll never see / All of these colours, they’re shining for me / Lost in a moment, I’m caught in a dream / Looking for something in nothing / It’s done when we’re caught in between“.

Che Amy Macdonald abbia sempre avuto un’anima rock è cosa nota ma mai, come in questo The Human Demands, è emersa così prepotentemente. Questo album da un calcio al passato, chiudendo un capitolo che vedeva ancora quella cantautrice ventenne, travolta dal successo di This Is The Life, sopravvivere agli anni e in qualche modo condizionare gli album successivi. Qui ci troviamo di fronte probabilmente all’album più riuscito della Macdonald, in bilico tra passato e futuro, decisamente più maturo per alcuni aspetti e soprattutto nel coraggio di alcune scelte. Non trovo nessuna canzone fuori posto in questo The Human Demands, nessun colpo a vuoto. Tutte sono ispirate dalle emozioni che la vita ci offre, comprese le difficoltà e i momenti bui. Questo album sembra migliorare ad ogni ascolto e non posso fare a meno di riascoltarlo una volta di più. Difficile scegliere una sola canzone da farvi ascoltare. L’invito è sempre quello di ascoltare The Human Demands per intero.

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Ancora un altro libro, ep. 4

Ultimamente ho dedicato poche righe alle letture più recenti ma questa volta devo fare un’eccezione per un classico moderno come Il Signore Delle Mosche scritto da William Golding e pubblicato per la prima volta nel 1954. Vorrei sottolineare come questo autore sia stato un po’ bistrattato dagli editori italiani che ormai offrono ormai solo la traduzione questo suo romanzo più celebre, nonostante sia stato insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1983. A parte questo fatto che trovo piuttosto curioso, Il Signore Delle Mosche l’ho avuto tra le mani molti anni fa, credo almeno quindici. Ero un giovane studente e probabilmente ero venuto a conoscenza di questo libro durante qualche lezione di letteratura. Prima di rileggerlo avevo pochi ricordi della trama ma di una cosa ero certo: non mi era piaciuto e non ero nemmeno riuscito a finirlo. Ora posso dire che della seconda affermazione non ne sono del tutto sicuro. Pagina dopo pagina mi sembrava di essere già stato su quell’isola selvaggia, in mezzo a quei bambini, arrivando ad un finale che sembrava già presente in un angolino sperduto della mia memoria. Questo mi ha convinto a pensare che molto probabilmente l’avevo letto tutto, seppure con fatica, per poi dimenticarlo quasi completamente. Da qualche anno però meditavo la possibilità di rileggerlo. Mi dicevo: ho letto diversi libri da allora e mi sono fatto le ossa con tomi anche più ostici e noiosi, cosa sarà mai un romanzo che consigliano come lettura ai ragazzini? Quel momento è arrivato e posso riflettere un po’ più chiaramente su quest’opera che, mi è parso di capire, è oggetto di opinioni spesso contrastanti. Si rende però necessaria una premessa: ho letto un edizione Mondadori dei primi anni duemila, la quale riproponeva una traduzione degli anni ’50, che conservava quell’insopportabile usanza di tradurre anche i nomi di persona. Al di là dei tre protagonisti principali, Ralph, Jack e Piggy ecco spuntare Maurizio, Aroldo, Ruggero ecc. Se ci aggiungete anche l’uso di un inspiegabile “Ohé!” al posto di un più normale “Ehi!” ed espressioni dialettali varie ma soprattutto la scelta di usare il termine “orgasmo” al posto di “eccitazione” o “entusiasmo”, capirete che non sempre la lettura è risultata scorrevole come ci si aspetterebbe.

La trama. Durante un conflitto globale, appena accennato nel romanzo, un aereo precipita su un isola deserta. Sopravvivono all’incidente solo un gruppo di bambini di età diverse e nessun adulto. Dopo un primo momento, nel quale i ragazzi sono al settimo cielo per la possibilità di essere liberi dai “grandi” in un ambiente paradisiaco, si profilano i primi problemi e conflitti interni. Da una parte il capo Ralph e il suo saggio amico Piggy, dall’altra l’autoritario Jack. Le due personalità differenti dei due, che in un primo momento sembrano convivere seppur con difficoltà, con il passare del tempo si deteriorano precipitando in un aperto conflitto violento, descritto in modo crudo da Golding. A questa opposizione, tra bene e male, e allo sviluppo di una sorta di società primitiva che indaga l’animo umano, si appoggiano i sostenitori di questo romanzo. Il paradiso tropicale si trasforma dunque in un inferno fuori controllo.

Il romanzo. Golding è indubbiamente bravo a gettare il sasso nello stagno. La domanda alla base del storia è chiara: cosa succederebbe se un gruppo di ragazzini si ritrovasse solo senza una guida adulta? L’autore, che diceva spesso “gli uomini producono il male come le api producono il miele“, dà una risposta altrettanto chiara: la violenza e la forza prenderanno il sopravvento, l’istinto selvaggio avrà la meglio sulla ragione. Ed ecco che su questo tema si posso aprire mille riflessioni, che possono dare ragione o torto alla visione dell’autore. Quindi perché ci sono anche i detrattori di questo romanzo? Proverò anche io a riflettere sui difetti de Il Signore Delle Mosche, facendo il punto su ciò che mi ha convinto e cosa no, per la seconda volta, della storia raccontata Golding.

L’incidente. Non è chiaro come e quando l’aereo precipita sull’isola. Poco importa, non è necessario ai fini della storia e non si può pretendere che un gruppo di ragazzini ne sappia qualcosa. Resta però un mistero del perché Golding non ci porti mai tra i resti del velivolo, sappiamo solo che ha lasciato un profondo solco sul terreno. I ragazzi non proveranno mai da avvicinarsi ad esso, anche solo per recuperare qualche oggetto, un pezzo di metallo, un sedile o cose di questo genere. Più si prosegue nel racconto e più l’aereo viene dimenticato, nascosto al lettore. Il dubbio che sia mai esistito un po’ viene. Ma sopratutto perché così tanti bambini sono presenti su quel volo? Non è dato sapere. Perché nessuno conosce nessuno? Non c’è bambino che riconosca un amico o compagno di scuola. Non si sono mai visti prima di allora, eppure erano sullo stesso volo. Perché? Non è dato sapere nemmeno questo.

I ragazzi. Sono tutti inglesi e questo è chiaro fin da subito. C’è chi indossa un uniforme scolastica, chi fa parte di un coro, chi ha il padre in Marina, chi ha la zia premurosa e poco altro. Si conosce davvero poco del loro passato. Un accenno ad un episodio legato alla vita di Ralph offre un veloce scorcio su di un tempo che fu, offrendo un momento nostalgico che non si ripeterà più nel proseguo del romanzo. Non si conosce il vero nome del ragazzo chiamato Piggy (il traduttore ha avuto l’accortezza di non tradurlo, spiegandolo solo con una nota) e questo non è affatto un male, perché dà un aura di mistero al personaggio più complesso e caratterizzato di tutti. Ralph è il ragazzo buono che viene subito scelto come capo per il suo bell’aspetto e per il suo carattere solare ma poco incline a pensare come un adulto. Per questo ha bisogno dell’aiuto di Piggy. Ralph è l’unico che continua a nutrire la speranza di essere salvato, per lui la cosa più importante è tenere vivo il fuoco di segnalazione. Jack, invece, si propone subito come suo diretto concorrente anche se tra lui e Ralph inizialmente non ci sono particolari attriti. Gli altri personaggi sono poco caratterizzati, molti di loro sono solo un nome sulla carta, vanno e vengono, solo nel finale un paio di loro si rendono protagonisti. Difficile provare empatia per questi ultimi (solo un po’ di più per i tre protagonisti), perché di loro non sappiamo nulla. Chi erano prima dell’incidente, da che famiglia provengono, che educazione hanno ricevuto. Nulla di tutto questo. Ad esempio Simone che parla con il “signore delle mosche” è un episodio centrale del libro ma non è chiaro perché proprio lui, da dove arriva la sua predisposizione mentale a questo genere di visioni che sia una malattia o un trauma precedente.

La scrittura. La prima parte (abbondante) del romanzo è piuttosto lenta. Golding si dilunga nelle descrizioni dell’isola, che in un primo momento aiutano il lettore a farsi un’idea di cosa lo circonda ma poi tendono ad essere un po’ ripetitive. Un giovane lettore potrebbe essere messo in difficoltà fin dalle prime pagine. La seconda parte è più scorrevole e va dritta al sodo tenendoti incollato alle pagine. Anche se le stranezze relative alla traduzione, non imputabili quindi all’autore, mi hanno fatto storcere il naso più volte. In generale ho trovato Golding capace di cambiare registro con facilità e dare sempre una visione chiara dei fatti, spostando di frequente il punto di vista. Ricorre anche a salti temporali in avanti che fanno scorrere il tempo velocemente lasciando il lettore un po’ spaesato. All’inizio dei capitoli, ci ritroveremo spesso a chiederci: ma quanto tempo è passato? Non è chiaro nemmeno da quanto tempo i ragazzi sono sull’isola, perché il romanzo inizia quando essi sono già lì e finisce senza che ci si sia un chiaro riferimento temporale. Questo potrebbe non piacere a qualcuno ma io la vedo con una trovata dell’autore per farci percepire un senso di smarrimento simile a quello che provano i ragazzi sull’isola.

Interpretazione. Quella più diffusa è la più immediata: gli uomini, in questo caso degli innocenti bambini, senza regole, scelgono gli istinti selvaggi e la violenza per formare un società organizzata un modo gerarchico e dittatoriale. L’istinto vince sulla ragione quindi, in linea con il pensiero pessimistico di Golding. Un’altra interpretazione mette al centro la religione. Quello che succede nel romanzo è ciò che succederebbe in una società senza Dio. Ognuno la pensi come vuole, io credo che Golding abbia semplicemente lasciato che i bambini reagissero alla situazione nel modo più spontaneo possibile, seguendo la sua filosofia e, perché no, preferendo la svolta violenta anche solo per rendere il libro più interessante. Se i bambini avessero costruito una società ben organizzata e pacifica, non sarebbe stato poi così entusiasmante come libro o sbaglio? Se siete interessati trovate molte riflessioni riguardo al significato e all’interpretazione che si vogliono dare a questo romanzo, a mio parere pure fin troppe.

In conclusione. Il Signore Delle Mosche è un libro dal fascino del tutto particolare. Un classico per certi versi intoccabile ma che non ha passato indenne l’esame del tempo. Un romanzo che solleva sicuramente delle questioni importanti, di cui si potrebbe discutere per delle ore ma che si lascia dietro delle domande senza risposta legate soprattutto allo sviluppo della trama. Lungi da me criticare l’idea di Golding alla base ma qualche difetto sulla sua realizzazione non è difficile notarlo. Il Signore Delle Mosche è sicuramente da leggere almeno una volta nella vita, anche solo per farsene un’idea personale. Potreste scoprire un capolavoro che amerete oppure un buon libro che riporrete sullo scaffale non del tutto soddisfatti.

Montagna vivente

Anna ‘Nan’ Shepherd è stata una poetessa e scrittrice scozzese ed ha ispirato il secondo album da solista della cantautrice e musicista Jenny Sturgeon, intitolato The Living Mountain. Dodici tracce, ciascuna dedicata alle bellezze dei Cairngorm, parco nazionale che prende il nome dal monte Cairn Gorm. Fiumi, sentieri, laghi e foreste hanno permesso a Nan Shepherd prima e a Jenny Sturgeon poi, di celebrarli ciascuno con la propria arte. Io, che da sempre nella musica folk cerco quella sensazione unica che la natura e la montagna sanno offrire, cosa potevo chiedere di meglio?

Jenny Sturgeon
Jenny Sturgeon

The Plateau ci accoglie con i suoni della natura e ci introduce nelle atmosfere placide di questo album. La voce della Sturgeon è uno strumento veicolo di suoni e di parole, caratteristica che da sempre la contraddistingue. La successiva The Recesses è essenziale ed affascinante. Una musica appena accennata lascia spazio alla voce. Tutto è armonioso e così selvaggio. Segue The Group che apre a nuovi spazi, arricchendosi di musica e suggestioni naturali. Un senso di meraviglia che cresce ogni minuto. Water trae spunto dalle melodie dalla tradizione e fa affidamento quasi esclusivamente alla voce della Sturgeon. Il testo è un adattamento della poesia Singing Burn della stessa Shepherd, sullo sfondo il suono dei corsi d’acqua del Cairngorm. Frost And Snow è un brano dalle tinte più scure e misteriosamente affascinati. L’inverno scende sull’altopiano e attutisce i suoni della natura. Jenny Sturgeon riesce a dare vita a qualcosa di sfuggente e indefinito. Della natura inanimata fanno anche parte due elementi impalpabili come l’aria e la luce, che trovano spazio in Air And Light. Una musica essenziale e rarefatta accompagna il canto. Un brano elegante e profondamente pacifico, dal taglio più moderno rispetto al resto dell’album. La montagna non è solo rocce, acqua e aria, è anche, e soprattutto, vita. Un trittico la celebra partendo da The Plants. Le piante dominano e caratterizzano il paesaggio. La loro presenza è il fondamento della natura, custodi sempre più in pericolo. Non può mancare la brulicate vita degli animali, celebrata in Birds, Animals, Insects. I loro suoni, la loro presenza prendono vita in questa canzone. Ancora una volta Jenny Sturgeon riesce ad intrappolare la magia della natura. Non solo gli animali popolano queste montagne ma anche gli uomini ne fanno parte. Ecco dunque Man. Canzone già comparsa nell’album Huam, pubblicato quest’anno dal suo gruppo Salt House, con il titolo Fire Light. Non nascondo che si tratta di una delle mie canzoni preferite di questo album, per la musica, la melodia del canto e delle parole tratte dalla poesia Fires. Sleep ci accoglie nella quiete della natura quando scende la notte. Il silenzio e le stelle che illuminano il cielo sono ricche di mille suggestioni. The Senses prova a racchiudere l’anima di questo album. Una ballata fatta appunto di sensazioni che la natura selvaggia offre in ogni suo momento. Ci sono luoghi su questo pianeta che possono mostrasi ancora nella loro incontaminata purezza. Chiude questo meraviglioso viaggio la lunga Being, per lo più composta dai suoni della natura. Uno sguardo più ampio che va oltre quei luoghi e guarda dentro ciascuno di noi come parte di ciò che ci circonda.

Le dodici tracce di The Living Mountain, che prendono il titolo da altrettanti capitoli dell’omonimo libro della Shepherd, ci fanno respirare l’aria selvaggia di quelle terre e dei loro abitanti. Jenny Sturgeon dà alla luce una sorta di concept album che prende significato soprattutto se ascoltato nella sua interezza, assaporandone le pause e i suoni ambientali. Un viaggio per quei sentieri, dove la calma e la lentezza vincono sulla superficialità e la frenesia dei nostri tempi. The Living Mountain è un album ambizioso che un’artista come lei fa sembrare semplice e lineare ma non lo è affatto. Mi ha fatto venire voglia di tornare tra a rivedere le Dolomiti. Sono anni che non le vedo e chissà se quando sarà finito tutto questo potrò tornarci ascoltando questo album, dopo che avrò ascoltato il loro silenzio e i suoni della natura non tanto dissimili da quelli dei Cairngorm.

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