Divina

A soli venticinque anni, Laura Marling, ha pubblicato lo scorso mese il suo quinto album a due anni da Once I Was An Eagle. Personalmente in questi ultimi due anni ho ascoltato solo il primo e il secondo disco della sua produzione ma non ho potuto farmi scappare questa nuova uscita, Short Movie. Ascoltandolo ho avuto conferma di quanto avevo letto a riguardo ma mi sono comunque fatto una mia idea. Sicuramente Laura Marling non si può più considerare una giovane promessa, giovane lo è ancora ma ora è un’artista affermata e influente che può permettersi di fare qualsiasi cosa, come ad esempio abbandonare la chitarra acustica per una elettrica. Perchè è quello che ha fatto in questo Short Movie, frutto di un anno passato negli Stati Uniti, alla ricerca di nuova ispirazione (e di una nuova capigliatura). Le sonorità americane si sentono eccome e anche il suo accento british è più sfumato che in passato. Dopo quattro album che l’hanno issata a reginetta del folk, la Marling ha deciso di provare qualcosa di diverso affidandosi esclusivamente al suo immenso talento.

Laura Marling
Laura Marling

Apre l’album la lunga cavalcata di Warrior nella quale ritroviamo la Marling che conosciamo. Oscura e poetica, sicura di sè. Un po’ di America inizia a sentirsi ma è solo lo sfondo di una delle canzoni più affascinanti e misteriose di questo album, “Is this my warrior? / I am found / I’m just a horse with no name / Where are my other beasts who think the same? / I’m just a horse on the moor / Where is the warrior I’ve been looking for?“. La nuova Laura si presenta con False Hope. Chitarra elettrica e anima rock sono i fondamenti di questo album e questa canzone ne è la più rappresentativa. La sensazione è che acustica o no Laura Marling ci sa fare sempre e comunque, “We stay in the apartment on the upper west side / And my worst problem is I don’t sleep at night / Woman downstairs just lost her mind, / And I don’t care how, I surely don’t care why / Why I know false hope / Why I know false hope“. I Feel Your Love è un’altra perla della Marling questa volta acustica. La sua voce ci trascina in un tormentato amore invitandoci all’ascolto, “Keep your love around me / Keep your love around me so I can get along / An electric fence, a silent defense to you all / Let the river answer / Let the river answer so I can get along / What’s going on? What’s going on?“. Dolce e amorevole al successiva Walk Alone, che si rifà alla tradizione americana, mettendo in mostra una Marling inedita e particolarmente ispirata, “Baby, I was born to love / I was born to love / I was put upon this earth / I was doing fine without it / Now I can’t walk alone / I can’t walk alone“. Consigli di vita in Strange, in un parlato ipnotico e sincero. Un po’ sbruffona e saccente la Marling di questa canzone ma sono entrambe sue caratteristiche che possano piacere o no, “I can offer you so little help but just accept the hands that you’ve been dealt / and your best to be a good man. / Do you know how hard that is? / Yes I know how strange life can be“. Un piccolo sfogo personale in Don’t Let Me Bring You Down. La ragazza ci tiene a sottolineare che ora è una donna con tutto ciò che ne consegue, con un rock ancora una volta dal retrogusto USA. Ci hai convinto, Laura, “You had it on me once before, I only just got through it / Please don’t let me bring you down / Did you think I was fucking around? / I’m a woman now, can you believe?“. Voce calda che si trasforma in un nostalgico abbraccio in Easy. Una Marling in splendida forma che non si smentisce mai e che ascolteresti all’infinito, sprofondando nella sua voce unica e magnetica, “When we were young / When we were young we belonged to someone and that was easy / Well you cant be lost if you’re not on your own / Well you can’t be found if you’re not all alone / Well you cant be lost if you’re not on your own / Well you can’t be found if you’re not all alone“. La cantilenante Gurdjieffs’s Daughter è una delle più belle e interssanti di questo album. Un brano affascinante per l’aura misteriosa che l’avvolge e per il ritmo trascinante inseguito dalla Marling. Un altro indizio della nuova forma della cantatutrice inglese, “If they adorn themselves with crystals / to make them look sharp / Sleep with their hand on a pistol, / they’re afraid of the dark / Well if it wakes you, / which it has to be known to, / don’t be alarmed / Darkness can’t do you harm“. Sulla stessa lunghezza d’onda c’è Divine ma questa volta Laura è più dolce e fraterna. La prima parola che mi viene in mente è incantevole. Sì, proprio incantevole, “Now forget what you’re owed / That you’re tired, time’s getting on. / So lay down your load / you’re fine I’m yours and you’re mine / It’s divine“. How Can I sembra dedicata alla sua esperienza negli Stati Uniti. Quando tornerà a Londra sentirà la nostalgia di L.A., “How can I live without you? / How can I live? / I’m going back East where I belong / Where I belong / But how will I live without you? / How can I live? / How can I live without you? / How can I live?“. Howl è buia e selvaggia, dove sono riconoscibili le influenze del folk americano come non mai. Un altro pezzo che conferma la volontà della Marling di sperimentare nuovi territori e sonorità, “Sun kicks the moon off the mountain / That is my cue to leave / The long tears of women are silent, so they won’t wake those who sleep / So they don’t wake those who sleep / Howl at the moon“. La titletrack Short Movie è una riflessione sulla sua vita e la sua carriera, una canzone diretta e sincera, una confidenza che ha riservato per chi ascolta. Non ha caso è  stata scelta come primo singolo, “I got up in the world today, wondered who it was I could save / Who do you think you are? / Just a girl that can play guitar / I think I could get away with saying only half what I say / No I can’t give you up / No I’m not gonna stop / They know, but they’ll never know why“. Chiude Worship Me che è racchiusa tutta nel suo titolo. Un’altra bella canzone e accettiamo il consiglio Laura: ti adoriamo, “Sit down and worship me / Devote your life to peace / Sit down and worship me / Devote your life to peace, and breathe“.

Cos’altro aggiungere? Questo album parla da solo. Non avendo ancora ascoltato il precedente Once I Was An Eagle non posso dire se sia meglio oppure no. Ho letto opinioni contrastanti a riguardo. Io posso dire che questo è davvero un bell’album, nel quale trova (l’ennesima) conferma lo smisurato talento di Laura Marling. Non ha più bisogno di convincere nessuno ormai. Lei è Laura Marling e basta, ogni paragone ormai è superfluo. Arrivare a tanto a venticinque anni è raro, perciò, se vi posso dare un consiglio, ascoltate un suo album. Non necessariamente questo, che è diverso dai precedenti, ma una qualsiasi di questi cinque. Non farlo significherebbe perdersi una delle artiste più talentuose ed emozionanti degli ultimi anni. In Short Movie troverete una Marling diversa nella forma ma non nella sostanza, all’apice della sua carriera o forse no. Il futuro potrebbe riservare ancora piacevoli sorprese

Cent’anni

Dopo aver letto L’arciere del re ho continuato, insieme al protagonista Thomas di Hookton, la ricerca del Santo Graal. Il secondo libro s’intitola Il cavaliere nero e l’autore è sempre lui, Bernard Cornwell. Ora vorrei capire da dove hanno tirato fuori la traduzione del titolo in italiano. L’originale è Vagabond e ha il suo perchè ma Il cavaliere nero è un po’ forzato. Il cavaliere nero in questione è oggetto di un maciata di pagine e non è nient’altro che lo stesso protagonista Thomas che finge di essere un infernale cavaliere portatore di morte, con il solo scopo di spaventare dei soldati nemici. Poi non c’è più nessun riferimento a questo cavaliere… ma non importa, non cambia nulla. Come avevo già spiegato nel precedente post su L’arciere del re, questo Il cavaliere nero lo avevo letto già diversi anni fa, più o meno nell’anno di pubblicazione, il 2003. Di solito mi ricordo bene le trame dei libri che leggo ma di questo avevo dimenticato praticamente tutto e se si aggiunge che era pure il secondo di una trilogia allora avrei fatto bene a cominciarla dall’inizio.

Rieccomi dunque a rileggere Il cavaliere nero nella sua edizione originale. Per darvi un’idea della meticolisità delle descrizioni di Cornwell e della sua accuratezza storica vi posso dire che quasi mezzo libro racconta “solo” la battaglia di Neville’s Cross, alle porte di Durham, avvenuta nell’ottobre del 1346, tra scozzesi e inglesi. Sembra di essere lì, spostarsi per quelle colline testimoni di massacri, stando fianco a fianco dei soldato inglesi. Cornwell fa sembrare tutto attuale, vivo, senza annoiare. L’autore non modifica gli eventi per adattarli alla trama del suo romanzo ma sono i protagonisti che si ritrovano parte della Storia. Sono personaggi di fantasia che interagiscono con persone realmente esistite, che escono dai noiosi libri di storia di scuola e combattono con loro o contro di loro. Un bel modo per studiare storia sarebbe leggere Cornwell. I protagonisti, anche se apparentemete stereotipati, hanno una personalità complessa. Non esitono buoni o cattivi. Thomas, arciere inglese, diventa amico di uno scozzese, Robbie e entrambi anche se sembrano in fondo brave persone, non esitano a cercare una vendetta senza pietà. La ricerca del Santo Graal continua dal libro precedente ma senza particolari colpi di scena. Qualche domanda trova risposta ma il prossimo La spada e il calice (titolo originale Heretic) è quello conclusivo e sicuramente tutto sarà chiarito. La trilogia ha prodotto anche una sorta di spin-off intitolato L’eroe di Poitiers (1356) ma di fatto la ricerca del Santo Graal si conclude al terzo libro.

Bernard Cornwell non è a caso definito un maestro del romanzo storico d’avventura. Recentemente ha pubblicato anche un saggio storico intitolato Waterloo: The History of Four Days, Three Armies and Three Battles, il primo della sua produzione. Ovviamente il tema è la battaglia di Waterloo e le sue ripercussioni sulla storia europea. Pare sia molto ben scritto e accurato. Interessante. Prima però vorrei leggere qualche suo romazo del ciclo sassone composto da ben otto libri. Prima ancora però sarebbe meglio che concludessi la storia di Thomas di Hookton con La spada e il calice. Non vedo l’ora di tornare indietro nel tempo con Cornwell e i suoi eroi.

S’i fosse fuoco

Lo scorso anno ritrovai abbandonato nella mia libreria, l’album d’esordio delle The Staves, intitolato Dead & Born & Grown. Le tre sorelle inglesi Staveley-Taylor, Emily, Jessica e Camilla le ascoltai per la prima volta quando il folk non rientrava nei miei generi preferiti e per questo motivo hanno dovuto attendere un po’ prima di tornare alla ribalta tra la mia musica. Quando feci la recensione Dead & Born & Grown esepressi qualche perplessità riguardo il loro modo di cantare. Le tre voci sussurranti risultavano a volte soporifere e le canzoni in grado di sfruttarle nelle loro bellezza erano poche. Quest’anno le The Staves sono tornate in compagnia del buon Justin Vernon. Ero ottimista riguardo questa collaborazione perchè sapevo che Bon Iver avrebbe saputo dare quello che mancava alle tre sorelle, compreso un approccio più moderno alle loro canzoni. Il risultato è questo If I Was, secondo album delle The Staves.

The Staves
The Staves

L’inizio va sul sicuro con Blood I Bled, già contenuto nell’EP omonimo dello scorso anno. C’è tutto quello che serve, le tre meravigliose voci unite in una melodia altrettanto bella. Percepibile come sempre l’influenza americana del gruppo, “If I want, if I am, if ever did, if I ever had / Pick up my roots and now leaves are dead / They tumbled down in bruise of all the blood I bled“. Steady è la prima canzone nella quale si sente chiaramente l’intervento di Bon Iver. Acustico mescolato ad un po’ di elettronica usata con sapienza creano un’atmosfera calda e avvolgente fino a creare una delle canzoni più belle di questo album, “Rabbit in a snare, why you sleeping softly in your bed? / (Can you see from where you’re standing?) / When unruly wild blood is pumping, why you running scared? / (Can you hear where I’m coming from?) / Why you running scared?“. La successiva No Me , No You, No More è un colpo al cuore. Si risentono le The Staves dell’esordio ma con una nuova forza, più energia. Le tre voci tessono una dolce supplica ad un amore perduto, “How can I want you, / A little bit more than I did before? / I don’t need you, but I want you back, / A little bit more, than I knew, / Now I can’t go back to life before, / Before I knew, / That you didn’t love me no more“. Segue a ruota, Let You Down, un’altra bella canzone che conferma il nuovo corso delle tre sorelle. Una buona dose di intensità in più nell’interpretazione è la chiave per tirare fuori tutto il meglio delle loro voci, “On and on, even the good die young, / Heavy hands, scupper the best laid plans, / On and on, ever the foolish one, / Who says what he wants, / But he wants what he can’t understand“. Black & White è breve ma non ha nulla da invidiare alle sue sorelle maggiori. Una batteria pulsante e le chitarre sono uno sfondo piuttosto insolito per il trio ma insieme funzionano. La sensazione è che dovrebbero fare più spesso canzoni così, “Black and white, it isn’t right / To hold me down and bleed me dry / Cut the ties that keep me up at night / Or make me see myself in black and white“. Bilancia la lunga e malinconica Damn It All. Delicata e sonnolenta è una giornata di tiepido sole che anticipa la primavera. Un piccolo gioiellino da ascoltare fino alla fine, “Reading an open book, / Part of the heart I took, / Part of what you mistook for innocence, / If that makes sense? / I wanna keep you ‘side me like a secret that I’ll never tell, / And when all is said and done, / We’ll run“. The Shining è una rilassante canzone da fine settimana pigro. Anche questa entra comodamente tra le migliori dell’album. La voce scivola via sun un tappeto di suoni ovattati. Una sensazione piacevole, “Speaking to the red phone, thinking of the ride home, / Standing in the shower with the water running cold. / Sit and watch the shining, with just the kitchen light on“. Più vicino allo stile classico delle The Staves è Don’t You Call Me Anymore. Si riesce a sentire anche qui l’intervento di Justin Vernon e le sue atmosfere malinconiche e affascinanti, “Don’t you call me anymore, / I don’t want to hear, I’m sick of your singing. / Your voice isn’t silver to me now, / Your voice wasn’t silver before. / You’re the start to my end, / I may have made a few mistakes, / That I wish I could make them again, / I wish we were friends“. Horizions è la più luminosa e positiva dell’album. Una boccata di aria fresca, “Oh it’s a ride on, / Set it on, set it on, / Set it on. / Two-point-five to the horizon, / Set it off, set it on, / Set it off, set it on“. L’americana Teeth White è un richiamo agli esordi da annoverare tra i picchi più alti di questo album. Ancora una canzone viva e vibrante, così come non ne avevano sapute fare nel precedente lavoro. Brave sorelline, “I got my teeth white and my jeans tight / I got my hair long and it’s still wrong / And I wanna know / When I can start taking it slow / Cause I’ve had enough“. Le acque tornano a placarsi con Make It Holy, incantevole pezzo folk dal sapore nostaligico nel quale le The Staves sono maestre, impreziosito dalla partecipazione di Justin Vernon, “High ends in the fire moving on, moving on / Torn apart and tired of it all, of it all / Walk, never the same / Feel no glory, feel no pain“. Chiude If I Was la bella Sadness Don’t Own Me. Un pianoforte chiama a raccolta per l’ultima volta le tre voci e ancora il risultato è inappuntabile. Un altro gioiellino, “All that time, over too soon, / And there’s panic rising up, spilling out, / eclipsing the moon. / Deep, deep, down, / Getting back up. / Check your jacket pocket, / Check your jeans, / But it’s not enough“.

If I Was è senza dubbio superiore al precedente Dead & Born & Grown per diversi motivi. Il primo dei quali è sicuramente l’uso delle voci di Emily, Jessica e Camilla. Finalmente si possono sentire in tutta la loro bellezza. Niente eccessi o virtuosismi ma un loro sapiente uso, uno strumento ineguagliabile. I miei auspici e le mie aspettative per questo album sono stati soddisfatti. Non poteva essere un album migliore in questo momento per le The Staves. Un grande passo avanti, reso possibile anche grazie a quel Justin Vernon che ha tirato fuori i meglio delle tre sorelle. Non solo. Ha anche soffiato via un po’ di polvere dalle melodie consunte che l’esordio si portava con sè. Un album da ascoltare per trovare un momento di pace e tranquillità, trasportati, là dove ci piacerebbe essere, dalle voci più in armonia tra loro che si possano ascoltare.

La carriera di un libertino

Un gradito ritorno quello dei britannici To Kill A King. Un paio di anni fa esordirono con Cannibals With Cutlery che non mancai di recensire su questo blog poco dopo la sua uscita. L’esordio voleva essere un contenitore del lavoro che la band aveva messo insieme nel corso degli anni precedenti, composto da qualche EP e numerose esibizioni live. Titolare questo album To Kill A King ha dunque un significato particolare, quasi a dire “questi siamo noi”. A differenza dell’esordio, caratterizzato da sonorità folk rock e indie, questo secondo album è decisamente più rock e meno poetico. Che sia dunque questa la vera anima dei To Kill A King? Per scoprirlo bisogna, innanzi tutto, ascoltare To Kill A King.

To Kill A King
To Kill A King

Compare Scars ci introduce nel nuovo mondo delineato da gruppo. Chitarre e batteria sono i protagonisti, insieme all’inimitabile voce di Ralph Pelleymounter. Resistete al ritornello se ci riuscite, “And I know it’s hard when they’re calling your name / But keep your head straight, keep your head straight / I know it’s hard when they’re calling your name / But keep your head straight, keep your head straight“. Love Is Not Control è la colonna portante di questo album. Energia, velocità e ritmo tenuti insieme dalla straordinaria scrittura di Pelleymounter. Le parole scorrono veloci, caricate a molla. I ragazzi dimostrano di avere talento e non si tirano indietro, “Then you land in your early 20’s / Stood old drunken and leaning gently / To all aboard when the boat is saved / The world ain’t safe when you’re playing safely“. La successiva Oh My Love era già stata inserita nell’EP Exit, Pursued By A Bear dello scorso anno. I ritmi rallentano e prende spazio un po’ di elettronica. Una canzone spartiacque che divide i To Kill A King del passato da quello di oggi, “Oh my love / We’re destined to demise / And there’s nothing I can do / No there’s nothing you can say / But it don’t matter / What matters is now“. Friends è oscura e un po’ cattiva. Un brano rock, forse il più sincero dell’album, senza fronzoli nè trucchetti, “If you love them let them know / No good will come from being silent, you know / Oh, I can take a nails / Scratch a word into my palm / Take all the love we’ve got / And call it a friend“. Inizia con un inedito falsetto, The Chancer, poi un coro. Un’appassionata canzone, con un Pelleymounter in gran spolvero che continua a giocare con le parole, “Angels and demons stood on my shoulders / Like old friends / Through their back and forth, / I see glimpses of the real you / And the beat goes on my friend / Life’s endless drum“. Il meglio lo dà in cazoni come School Yard Rumors nelle quali tiene il ritmo parola dopo parola. Un’altra bella canzone in linea con lo stile scelto per questo album ma con un qualche rimando alle sonorità dell’esordio, “We searched high and we searched low / But there were no witnesses there / And the mothers flutter as the fathers stutter / ‘And there is no smoke without fire’ line / And you don’t go to school anymore“. Irresistibile la breve ma intensa Good Times (A Rake’s Progress). Un pop rock frizzante e originale che non lascia tregua, “All the women in my life want to own me / Want to rack up my bones and consume me / I know the good times are killing me / But I don’t know how the conversation ends“. Parentesi folk e cantautorale, Musicians Like Gamblers Like Drunks Like Me è l’unico vero brano che avrebbe potuto essere presente in Cannibals With Cutlery, “Hold, drip fair into your blood / Just enough to keep you going / To keep your head in the games we’d played / Like its all for fun, / Than it’s all to be won / Forgetting it’s all for keeps“. Grace At A Party è forse la canzone più debole di questo album. Un dialogo a due tra Pelleymounter e le chitarre ma che stenta a decollare. Nel complesso è una canzone originale ma tende a essere un po’ ripetitiva. Al suo posto avrei visto bene Love Is Coal, “Charge the kid with spinning lies / And kindly mention that his heart is in his mouth / So back down, you kindly fool / queezed into this room two hearts explode / We joke, we joke“. Con World Of Joy (A List Of Things To Do) i To Kill A King trovano riscatto. Una canzone spensierata che incuriosisce per quella voce modificata nel ritornello. Una canzone cucita addosso alla voce sorniona di Ralph, “Be tolerant because these times are delicate / And don’t stop listening / Don’t stop talking / Because without this we could move backwards / Now that we found this good fight, / For God’s sake smile“. Chiude l’album la breve Today nel quale i To Kill A King si divertono a cambiare genere, “For today / I threw my phone away / I’ll buy a new one come Monday“.

Questo nuovo album della band inglese lascia da parte il folk orchestrale che caratterizzava l’album d’esordio, in favore di un rock fresco e diretto. Mancano canzoni in grado di farti venire qualche brivido, quelle ballate folk scaldate dalla voce di Ralph Pelleymounter. Gran parte del lavoro lo fa proprio lui, usando le parole come uno strumento per tenere il ritmo. Forse che si aspettava i vecchi To Kill A King può rimanere deluso ma questi nuovi sono diversi più nella forma che nella sostanza. Intitolare questo album come il nome della band potrebbe avere un significato particolare ma io credo che quest’ultimo lavoro sia un’opera di transizione, nella quale si può trovare l’altra faccia della loro musica. Quella dei To Kill A King è un’identità forte, già espressa in precedenza e rafforzata da questo album omonimo.