Ancora un altro libro, ep. 16

È giunto il momento di dare spazio alle mie letture, l’ultimo post di questo genere risale alla metà dello scorso dicembre. Qui brevemente cercherò di riassumere le mie impressioni raccolte di volta in volta termino un libro.

Cominciamo da Le strade di Laredo di Larry McMurtry. Ambientato circa vent’anni dopo i fatti narrati nel precedente Lonesome Dove, questo romanzo racconta una caccia all’uomo tra Texas e Messico. I protagonisti sono più o meno gli stessi, solo più vecchi e abituati ad una vita diversa, a parte il capitano Woodrow Call che si mette sulle tracce di un pericoloso assassino. La storia però procede lentamente e bisogna attendere tre quarti di libro prima che succeda qualcosa di significativo. Nel frattempo gli assassini psicopatici diventano due e uno è di troppo e, a conti fatti il suo peso nella trama è praticamente nullo. Inoltre ci sono troppe coincidenze, comportamenti inspiegabili da parte di alcuni personaggi, situazioni poco credibili e numerose ripetizioni. Anche i dialoghi non sono all’altezza del suo predecessore ma in generale è un romanzo ben scritto. Le strade di Laredo è una storia profondamente triste e diversa da quella di Lonesome Dove, nella quale non c’è redenzione per nessuno.

La leggenda di Sigurd e Gudrun è un libro curato da Christopher Tolkien che raccoglie due poemi scritti dal padre J.R.R. Tolkien e ispirati alle antiche leggende dei Nibelunghi. Come nel caso del Beowulf e di Sir Gawain e il Cavaliere Verde (che ho letto in precedenza entrambi) è stato fatto un grande lavoro di recupero e analisi dei suoi scritti, che così facendo vengono consegnati alla storia e non abbandonati in un cassetto. Chiaramente è più un saggio che altro ma non l’ho trovato difficile da seguire, anzi ho trovato affascinante il confronto tra le versioni della storia giunte fino a noi. La traduzione italiana dei poemi è ottima e fedele nello stile all’originale, fatto salvo per alcune sviste di poco conto. Un viaggio indietro nel tempo, non solo letterario, ma anche culturale, di un’epoca di cui si conosce poco ma che grazie al professor Tolkien possiamo scoprire un po’ di più.

Nel quarto libro della saga di Dune, L’imperatore-dio di Dune, scritta da Frank Herbert, ritroviamo Leto II che regna da più di tremila anni su tutto l’universo. Il romanzo è composto perlopiù da dialoghi tra lui e i vari personaggi. L’imperatore-dio parla molto ma alla fine non dice nulla. I dialoghi sono spesso criptici e inconcludenti ma non per i protagonisti però, che hanno sempre l’illuminazione e arrivano, ad un certo punto, a comprendere la verità. Ma il lettore purtroppo no. Leto cita sempre la Via Aurea come giustificazione di tutto e arrivato al quarto volume non ho ancora ben capito in cosa consista. L’unico per il quale provo empatia è il caro vecchio Duncan Idaho, il solo che cerca di capirci qualcosa. Herbert continua ad aggiungere carne al fuoco ma tutto si riduce sempre ad un passaggio di potere sin dalla dipartita di Paul e ad un continuo e inesorabile complotto contro gli Atreides da parte dei soliti noti. Un romanzo che filosofeggia sul potere, la tirannia e la religione ma manca di tirare le somme. Vedremo se nel prossimo volume Herbert riuscirà a trovare la quadra di tutto quello che ha messo in piedi.

Via da Gormenghast di Mervyn Peake è capitolo conclusivo della trilogia di Gormenghast è ambientato lontano dal quel castello che ha riempito le pagine dei due libri precedenti. Questa volta seguiamo Tito in fuga dalle sue responsabilità e alla ricerca di qualcosa, finendo in una città sconosciuta e ricca di nuovi personaggi. Non c’è nessuno di quelli più noti e il lettore, come Tito, si aggrappa ai ricordi e al desiderio di rivedere tutti loro. Non avrei mai immaginato questa svolta quasi fantascientifica, tra macchine volanti, sfere luminose e fabbriche misteriose. Eppure Peake riesce anche questa volta a non esagerare, mantenendosi in controllo della sua fantasia, visionaria sì, ma capace di dare vita ad un mondo bizzarro e verosimile allo stesso tempo. Lo stile, le descrizioni e l’immaginario sono quelli tipici di Peake che, scomparso prematuramente, lascia questo libro, non incompiuto, ma probabilmente diverso da quello che aveva immaginato di consegnare ai lettori. Nonostante tutto è una degna conclusione di una trilogia straordinaria dove Tito è tutti noi, ciascuno con il proprio Gormenghast.

Gli occhi del drago di Stephen King non è altro che una lunga fiaba per ragazzini, scritto per la figlia Naomi desiderosa di poter leggere finalmente un libro scritto dal padre. Ci sono molti rimandi all’universo kinghiano (i nomi di Roland e Flagg su tutti) ma manca del tutto il suo tipico linguaggio e questo rende la narrazione meno accattivante rispetto al solito. Le premesse sono semplici e già da queste si intuisce come andrà a finire. Il protagonista Peter è quasi insopportabile per quando è bravo, intelligente e forte rispetto al povero fratello Thomas, debole e vigliacco. King è un ottimo narratore e riesce comunque a tenere alta l’attenzione del lettore con qualche trovata delle sue ma la trama è debole. Questo difetto rende il romanzo prevedibile anche per il target a cui è rivolto. Potrebbe funzionare per i giovanissimi, grazie alla sua linearità, ma con il suo discreto numero di pagine ad alcuni potrebbe risultare un libro piuttosto lungo. Insomma un romanzo che per i “fedeli lettori” di King rappresenta solo un titolo da aggiungere alla collezione e niente di più.

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